Mai stata in ginocchio
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Un romanzo autobiografico in cui scrittura e vita si fondono in un equilibrio che annoda la realtà alla necessaria dose di fantasia e autoironia, per declinare la difficoltà e la speranza. Oltre il bilancio del vissuto, il raccontarsi scrive l’alternanza tra il corsivo delle riflessioni e il tondo del narrato; tra la fatica e
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Anteprima del libro
Mai stata in ginocchio - Paola Leccese
Colophon
Mai stata in ginocchio
di Paola Leccese
Mai stata in ginocchio
© 2017 Riccardo Condò Editore
ISBN 9788897028413
Foto di copertina © Riccardo Condò Editore
Ipersegno è un marchio editoriale di Riccardo Condò Editore,
Pineto (Te) - Italia.
www.riccardocondoeditore.it
Paola Leccese
Mai stata in ginocchio
Ipersegno
Riccardo Condò Editore
2017
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IL BLU
Per me il colore della sofferenza è il blu.
Il blu dei temporali che ancora oggi mi fanno paura come quando ero bambina; i temporali chiusi fuori dalla stessa finestra da dove per anni ho guardato la vita degli altri, vedendoci riflessa dentro la fatica di comprendere quello che il destino non riusciva a spiegarmi e i tentativi di accettare una diversità incomprensibile.
Il blu della lampada della sala operatoria e delle lunghe notti insonni in ospedale.
Il blu del mare che dopo la burrasca lascia a riva detriti e briciole di storie; il blu del cielo che affascina e ammutolisce, attrae e spaventa, un po’ come la sofferenza che a volte ha bisogno di essere anestetizzata per difendersi e per sopravviverle, ma può anche assumere un senso se non la si subisce soltanto.
Il blu per secoli considerato il colore più livido, più freddo, emarginato nella policromia del lutto e della tristezza ma che, se lo si fissa, riesce a concedere quiete e serenità.
Il blu che sta tra il giallo e il verde, prima del nero e dopo il bianco, proprio come la sofferenza che non è colpa, né solo pena, semmai una delle possibili dimensioni umane che deve addestrare a chiedere aiuto, a dire grazie e anche a sussurrare un prego.
Il blu degli occhi di un ragazzo sulla carrozzina che ieri, incrociando le sue con le mie quattro ruote, mi ha salutato con un sorriso che profumava di vita.
SIGARETTA E CAFFÈ
Adoro la mia cucina. Color arancio che scalda il cuore, in cui sfaccendo ai fornelli e ozio, leggo e ricamo, studio e penso, ricevo gli amici e trastullo le mie solitudini. Anche Happy, la mia cagnolina di soli quaranta chili, ci scodinzola e ci vive estasiata dagli odori dei miei dolci e dei miei sughi, in pace con il mondo quando la sera le spengo la luce e la soffusa atmosfera di una lampada da tavolo le concilia il sonno più profondo.
In un angolo del tavolo dalla forma irregolare - diversa, direi - c’è un po’ tutta la mia vita. Pc, tablet e iPhone, una torre di libri, riviste e quaderni segnati da bigliettini colorati scritti fitti fitti con inchiostro e matita, penne di tutti i colori, punta fine e punta grossa, stilo, a sfera, la scatola, anch’essa arancio, con i fili e la tela per il ricamo, la radio, il posacenere con le sigarette e la tazzina del caffè, di ceramica e spessa, di quelle che mantengono l’aroma e il calore fino a trattenerne il colore bruno e le emozioni di cinque minuti nelle ore successive. Il portapenne con lo stemma della Juventus, i ricordi e i sogni, le foto e la candela profumata con la fiammella che mi tiene costantemente compagnia, portandomi spesso a ritroso nel tempo.
È il 1958, d’estate, a Chieti.
Una calda estate delle colline abruzzesi dove magari di giorno si può anche boccheggiare, ma la sera rinfresca sempre e un po’ si respira, finalmente.
Sono nata di mattina, prestissimo, quando il sole già promette tutto il suo giallo calore.
Mamma - Elsa - è una giovane maestra, bella, tanto che a guardarne le foto di allora ricorda la Mangano di Sorriso amaro
. L’anno prima ha sposato papà - Giuseppe, per tutti Peppino - di nove anni più grande, promettente imprenditore edile che negli anni della ricostruzione e della ripresa economica guarda al futuro con la stessa speranza di una nazione intera, quasi sbronza dell’entusiasmo nato con i partigiani e cresciuto con il cioccolato americano e il rock and roll.
Sono nata a casa dei nonni paterni.
C’è ancora, quella casa, con gli scalini stretti e ripidi che accompagnano all’entrata dal livello strada mentre lo sguardo può congiungere la vetta del Gran Sasso al mare Adriatico in un solo respiro. E quando il sole si va ad addormentare in grembo all’Appennino quella montagna somiglia a una nobile donna assopita: la Bella Addormentata, come la chiamiamo in Abruzzo, che ci guarda con le sue acuminate vette da un lato mentre, sul versante opposto, la Majella veglia sulla pianura e sul mare con i suoi versanti arrotondati, come una madre dolce e rassicurante.
Nell’Italia centro-meridionale di quegli anni le donne che decidono di partorire in ospedale sono considerate delle poco di buono. Chi decide di partorire in ospedale deve, per qualche oscuro motivo, nascondere l’evento alla famiglia e alla collettività in
tera. È solo la nascita in casa a regalare alla famiglia la rispettabilità e la certezza che sulla madre nulla può essere eccepito.
Sono notizie che mamma mi dà più volte, aggiungendo negli anni particolari sempre più dettagliati di una realtà pervasa di pregiudizi e credenze. Pregiudizi come quello degli ospedali dove i ginecologi sono in maggior numero maschi, e invece il parto è una prerogativa esclusiva del mondo femminile.
Pur in presenza di un parto difficile mamma accetta di farmi nascere nella casa dei nonni paterni, assistita da un’ostetrica e dalla sua seconda mamma. Lei la sua mamma l’ha persa a soli nove anni.
Altre regole ferree disciplinano all’epoca la liturgia della nascita di un bambino.
Appena nata vengo preparata e messa in braccio a un’amica di famiglia che mi conduce in chiesa per essere battezzata. Il battesimo va celebrato subito, in fretta, con il neonato affidato a persona fidata o di famiglia per recarsi in chiesa dove la mamma non può rientrare se non dopo una lunga quarantena purificatrice. È un’urgenza al confine tra fede e credenza popolare che consente, in caso di morte prematura del bambino, di fargli raggiungere il paradiso evitandogli l’oscurità eterna del limbo, luogo dove non si sta né bene né male per l’eternità.
Sono