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Un Bambino come tanti
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E-book321 pagine4 ore

Un Bambino come tanti

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Info su questo ebook

Le battaglie di una mamma, di un bambino e di una piccola famiglia.

Una storia vera per divulgare l'importanza della diagnosi precoce. A

loro non verranno resi i giorni di serenità persi, ma potrebbe essere

tesoro per gli altri.

"Un giorno senza sorriso è un giorno perso." C.Chaplin
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2021
ISBN9791220332569
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    Anteprima del libro

    Un Bambino come tanti - Nadia Riboldi

    mondo

    15 FEBBRAIO 2006

    Sto per diventare mamma, eppure in questo momento sono io a sentirmi ancora un cucciolo, spaurito e indifeso.

    Il tuo papà e la tua nonna sono con me.

    In questo momento però è di lei che ho bisogno e l'unica cosa a cui riesco a pensare è Speriamo che un domani anche mio figlio provi questo nei miei confronti...

    È il giorno di San Valentino e in mattinata si è deciso di indurre il parto per la carenza di liquido amniotico. Finalmente. Erano mesi che si lottava per farlo aumentare senza ottenere risultati.

    Paura, confusione, stanchezza.

    È la prima volta per me e percepisco la mancanza di voglia di ascoltare da parte del gruppo infermieristico; temo che qualunque cosa dirò non verrà presa davvero in considerazione: l’inizio di un malessere che mi accompagnerà per anni.

    Sembra una catena di montaggio: l’angolo di chi si registra, di chi si prepara, quello di chi aspetta e quello di chi urla.

    Urlerò anche io? Che vergogna, non mi ci vedo.

    Ore 17.30: si parte.

    Temo che la tua postura, che per mesi ha causato tanti problemi durante le visite al punto di non permettere di misurare la tua testolina, faccia succedere tutto più veloce del previsto, ma loro dicono annoiate che non è possibile, che fino a domattina non avvertirò nulla.

    Convincono il tuo papà ad andare a casa; tuo nonno fa lo stesso.

    Rimane lei, seduta sulla poltroncina della sala d’aspetto.

    In camera con me c’è una ragazza carina, ma decisamente antipatica, tutta tranquillità e intesa con il suo uomo in giacca e cravatta che rimane su una sedia accanto a lei per tutta la notte, o almeno credo perché verso le tre di mattina arrivano le doglie.

    L’ingranaggio gira e prende velocità, ma loro insistono stizzite col dire che non è possibile.

    E così stringo i denti, quasi convincendomi di essere priva di sopportazione, mentre la mia vicina di letto si lamenta perché ha sonno e vuole dormire, insieme al suo uomo che le tiene la mano.

    Poverini, li sto disturbando.

    La nonna è combattuta. Non sa se credere a me, che priva di esperienza sostengo di essere in travaglio, o alle infermiere che, scocciate, ripetono che non è così.

    Poi mi trasformo, come capiterà anche in altre occasioni.

    Mi alzo, raggiungo l’infermeria nonostante il male e con tutta la rabbia possibile obbligo una di loro a venire a visitarmi, mentre ordino alla nonna di chiamare il padre di mio figlio. Subito!

    L’infermiera annoiata dà un’occhiata veloce e urla «Presto una barella! Sta per partorire!»

    Poi ricordo la confusione di dover prendere le borse al volo per portare tutto in sala parto, papà che tentava di mettere i soprascarpe e io che chiedevo disperatamente l’anestesista e magari anche il parto cesareo.

    Male, paura, luci forti, camici verdi, nessuna epidurale; come immaginavo non c’era più tempo.

    Fare finta di dover spegnere le candeline sulla torta per respirare veloce ed evitare di spingere. Perché dicono di non farlo? Le spinte partono praticamente da sole; al corso preparto hanno insegnato la respirazione lenta, non quella veloce…

    Poi quella frase che mai scorderò «Signora, l’anestesista non arriva, ma suo figlio sì!»

    E finalmente quelle spinte liberatorie, belle, naturali, necessarie e vitali.

    Sono le 7.58 del 15 febbraio 2006.

    E tu? Dove sei, dove ti portano? Il tuo papà va via con te, mentre a me danno tanti punti, ma poi torni e ti posano al mio fianco, avvolto in un asciugamano bianco.

    Piccolo, piccolissimo e incredibilmente vero, con quell’espressione pestifera che intravedo per un attimo, prima che il sonno ti avvolga, tranquillizzandoti.

    TI ASPETTAVO DA SEMPRE

    «Avrò una figlia e si chiamerà Sara…»

    Questo era quello che mi ripetevo fin dagli anni dell’asilo.

    Chiudi un occhio amore mio, nulla di personale. Ancora non ti conoscevo. Da figlia ho vissuto sempre a stretto contatto con tua nonna e la tua bisnonna, per cui il mio mondo era prevalentemente femminile.

    Nella mia classe alla scuola materna c’era una bambina che attirava la mia attenzione. A dire il vero erano due sorelle: carnagione chiara e capelli lunghi biondo grano, raccolti sempre a coda di cavallo con bellissimi elastici di pelle che ogni giorno cambiavano colore. Fanno parte di quel bagaglio di particolari che i bambini studiano a fondo e che, ti assicuro, poi rimangono stampati nella memoria per sempre. Riesco ancora a visualizzare le arricciature di quegli elastici e i bottoni automatici che facevano da chiusura.

    Guardavo quelle due bambine con ammirazione e, visto che spesso non siamo mai contenti di noi stessi e che io non somigliavo loro per niente con i miei capelli corti e un po’ ribelli, sognavo di avere un giorno una figlia che almeno portasse uno dei loro nomi.

    Comunque, se avessi potuto sapere come saresti stato, ti assicuro che avrei sognato di avere un bambino di nome Valerio, è cosa certa.

    Anzi, potessi tornare indietro non disprezzerei più il mio aspetto, né la mia personalità e passerei più tempo a considerare la figura snella dal fare anticonformista che ero prima come una potenziale mamma premurosa e capace.

    Se tu sapessi quante cose sarebbero più semplici se imparassimo a credere di più in noi stessi!

    La mia voglia di maternità nacque quindi tra i banchi di asilo e continuò ad ardere in me per altri trent’anni.

    Non sono una mamma giovane, non quanto avrei voluto. Sarà stata anche un po’ colpa della mia timidezza.

    Per fortuna tu non mi somigli. La tua scioltezza e il tuo carisma saranno il tuo passepartout.

    Io scrivevo piccoli racconti e leggevo con una voracità pazzesca tutto quello che si poteva leggere, oltre a disegnare moltissimo. Quando il tuo futuro nonno mi regalò una macchina da scrivere fu una festa incredibile e i miei scritti si trasferirono dai quadernini a righe ai fogli bianchi formato A4, scrupolosamente redatti in duplice copia, grazie all’uso dell’ormai dimenticata carta carbone.

    I protagonisti dei miei racconti erano sempre paladini della giustizia, anche se vestivano i panni della gente comune. Mai avrei pensato però di dovermi trasformare un giorno in uno di loro e di voler raccontare me stessa, anzi noi stessi.

    Quante volte mi hai chiesto di narrarti la tua storia! Non ti ho mai nascosto nulla, anche se a volte mi sentivo in colpa per la schiettezza, ma ti promisi che non ti avrei mai mentito e a te mantengo sempre le promesse.

    Scrivere un libro su di te è una di quelle.

    Non ti nasconderò che quando sei venuto al mondo ero davvero molto stanca. I mesi di gravidanza erano stati estenuanti, trascorsi tra divano e studi medici, ma cominciamo dall’inizio, non voglio tralasciare niente. La parte della tua primissima comparsa è la più incredibile!

    Comincia a imparare che le donne sono esseri straordinariamente caparbi e tenaci e che quando si mettono in testa un’idea difficilmente vi rinunciano. La magia si crea quando incontrano uomini straordinariamente buoni e corretti, anche se impegnati nel tentativo di nascondere queste qualità dietro una facciata di spavalderia.

    Ecco in breve il ritratto dei tuoi genitori.

    Possono esserci periodi di battaglie, di armistizi, di trattativa, ma sempre in nome dell’amore e del rispetto reciproco.

    Quindi, quando dopo cinque mesi di convivenza decidemmo di cominciare a cercarti e papà mi fece promettere di non farne una malattia se non fossi arrivato subito, entrambi eravamo consci dell’inutilità del gesto.

    Era dall’epoca dell’asilo che sognavo di avere dei figli e papà avvertiva la mia determinazione, come io avvertivo che il suo apparire convinto ma senza farne una malattia era una facciata che poteva permettersi di mostrare perché c’ero io in grado di demolirla.

    Dopo poche settimane ci fu l’occasione di trascorrere qualche giorno al mare nella casa dei tuoi nonni. Avevamo appena acceso il mutuo ed eravamo in fase di risparmio, anche perché stavamo facendo i preparativi per il matrimonio.

    Durante quella vacanza avvenne qualcosa di straordinario.

    Mi sentivo felice, ma anche inspiegabilmente stanca. Una notte sognai la mia nonnina, con la quale avevo trascorso gran parte delle mie estati in quei luoghi di villeggiatura, e nel sogno fu lei a farmi capire in qualche modo di essere in dolce attesa.

    Non lo raccontai a papà, ma qualcosa lui intuì perché cominciai a essere attentissima alla mia alimentazione, al punto di rinunciare a una cotoletta rimasta troppo al sangue durante una delle poche cene che ci concedemmo al ristorante.

    Quella volta lo vidi contrariato e ne intuivo il motivo: temeva fosse cominciata la mia ricerca maniacale.

    Forse fu per quello che arrivarono altri segni in grado di farmi avvertire la tua presenza; perlomeno a me piace pensarla così.

    Cominciai a notare coppie di gemellini ovunque: a passeggio sotto i portici, in riva al mare, nelle pizzerie. Perfino nella trama del film che vedemmo una sera al cinema in piazzetta. La cosa aveva preso un aspetto buffo e lo feci notare a papà. Con mio stupore, fu divertito dalle coincidenze, ma nulla di più e l’argomento non venne più toccato.

    Tenni per me stanchezza e sensazioni.

    Ma tutti quei gemelli….che impressione, chissà perché?

    Tornati a casa, venne il giorno della prova del vestito del matrimonio, un bellissimo tubino lungo rosa antico e arrivò anche la temuta domanda della commessa «Signora, lei non è incinta, vero? Sa, il modello è unico e non potremmo modificarlo, per questo lo chiediamo a tutte, è la prassi.»

    Panico, pochi secondi interminabilmente silenziosi.

    «No, no, stia tranquilla…»

    «Benissimo, procediamo allora, le punto gli spilli sul giro vita!»

    Percepii uno strano sguardo della nonna, durato poco più di un secondo, o forse fu la mia coscienza a farmi immaginare quello che non c’era.

    Fu una giornata interminabile. Dovemmo passare il pomeriggio per negozi e io non ce la facevo più. Non reggevo il caldo, i tragitti in macchina mi disturbavano e appena potevo mi sedevo. Ormai ne ero certa: ero incinta.

    Il giorno dopo arrivò un’ulteriore conferma: forti punture al fianco, l’ovaio sinistro si ribellava. Quella sera comprammo il test di gravidanza e voglio ricordare per sempre l’agitazione di quei momenti in cui la porta del bagno separava me da papà, come nei film.

    «Allora?»

    «Un attimo, dammi ancora due minuti.»

    La porta che si apre, io che esclamo «Sono due righette! Sono apparse subito!» e papà che grida «Siamo incinti!»

    Baci, abbracci, il sole, le finestre aperte, l’estate in arrivo e non solo quella. Le prime immediate apprensioni: come lo diciamo? Non pensavamo davvero sarebbe successo subito, con un matrimonio alle porte. Eravamo sicuri che, avendo io trentaquattro anni, avremmo dovuto aspettare mesi e mesi.

    Ci avremmo pensato l’indomani.

    Non potevamo immaginare che quella sarebbe stata l’ultima serata spensierata.

    Il giorno dopo non stavo molto bene. Mi svegliai con tutti gli odiosi sintomi del ciclo in atto e troppe perdite ematiche.

    Andammo in ufficio con l’intenzione di ripetere il test quella sera.

    «Ci siamo illusi, peccato però, mi ci ero già abituato.» disse papà.

    «Eppure ero sicura…» balbettai io, ripensando a tutti quei segnali durante la vacanza al mare.

    Passai una giornata infernale al lavoro: felice quando sentivo quelle insistenti punture al fianco, preoccupata quando ricomparivano le perdite; certo terribilmente distratta. Fu inevitabile che qualcuno mi chiedesse.

    E quel giorno imparai a vedere oltre le persone. Imparai a riconoscere quell’aura luminosa che circonda alcuni individui, come se ci fosse un filo invisibile che collega alcuni ad altri, lasciando invece il resto del mondo in ombra.

    È un fenomeno straordinario che inizia quando provi un’emozione forte, come ti si aprisse un nuovo occhio che porta a saper riconoscere subito le persone che sanno provare le tue stesse emozioni. Sicuramente ognuno ha la sua luce da seguire. Quella che trascina me è la forza dell’amore per la maternità, la passione per la famiglia, la necessità di costruire la vita che proseguirà dopo di noi.

    Se solo sapessimo dare maggiormente peso a questa potente vista e a queste potenti sensazioni, eviteremmo parole inutili e ci sarebbero più intese e meno lotte.

    Comunque, fu seguendo quelle nuove percezioni che scelsi tre persone a cui confidare la mia scoperta e le mie paure e ancora oggi due di queste sono mamme con cui parlo molto volentieri di prole e famiglia.

    Finalmente finì quell’inconcludente giornata lavorativa e corremmo al pronto soccorso più vicino, all’ospedale che sarebbe diventata la mia seconda casa per i prossimi nove mesi, ma che non ricordo con affetto.

    Quella sera compresi per la prima volta come la superficialità di alcuni porti inevitabilmente alla luce la sensibilità di altri. Se fossimo tutti uguali, nessuno eccellerebbe.

    Peccato dover imparare sempre a proprie spese, ma del resto non è con la teoria che si va avanti.

    Fu una lunga attesa. In fatto di maternità ha la precedenza chi è più vicino al traguardo. Dopo ore toccò a noi e, quando l’infermiera sentì che ero ipoteticamente solo alla terza settimana, quasi ci rise in faccia, dicendo di tornare a casa perché «Tanto gli aborti spontanei sono all’ordine del giorno in quel periodo della gestazione.»

    Ma come sarebbe a dire? È di mio figlio che sta parlando! Perché mi sta spaventando, invece di rassicurarmi?

    Mentre il mondo girava in centrifuga intorno ai miei cinque sensi, ecco apparire una seconda infermiera dal viso dolcissimo.

    «Hanno aspettato fino ad ora, facciamo almeno un’ecografia veloce. Io ho appena staccato, venite con me.»

    Un angelo? Una persona con una coscienza?

    La seguimmo e in un attimo fu tutto deciso.

    «Ha sbagliato di poco signora, non è alla terza settimana, ma già alla quarta. Vede quel puntino nero? È il sacco, già posizionato correttamente. È ancora presto per poter sentire il battito del cuoricino, ma succederà a breve. Ecco, c’è solo quell’ombra nera vicina che mi dà pensiero. Potrebbe essere un distacco della placenta o semplicemente il residuo di una seconda gravidanza non andata a buon fine che si sta riassorbendo e questo spiegherebbe le perdite ematiche. A ogni modo vada dalla sua dottoressa e insieme deciderete il da farsi. Nel frattempo io posso consigliarle una settimana di riposo, ma nulla di più, nemmeno rilasciarle l’ecografia.»

    Come descrivere le mie sensazioni? Certo, ero preoccupata, ma vinceva la felicità di aver avuto conferma di quelle che per il mio corpo erano già certezze. Provare sensazioni nuove fortissime, sentirsele demolire con leggerezza e poi riceverne garanzia è come vincere una battaglia.

    Quella fu la mia prima vittoria, anche se è alquanto assurdo dover combattere per il diritto all’ascolto da parte di professionisti in campo medico.

    Tornammo a casa. Era il momento di comunicare la dolce novità a parenti, colleghi e amici. Il giorno dopo sarei rimasta a riposo, ma bisognava farsi autorizzare i giorni dal proprio medico curante e purtroppo io non avevo ancora effettuato il cambio di residenza. Fu papà che si occupò di passare da lui in città e quel giorno capii quanto era agitato per tutto quello che stava succedendo perché, prima ancora di salire sulla rampa dei box, era già caduto dallo scooter, al punto di dover essere lui a recarsi dal medico.

    Confesso che ero agitata anch’io.

    Fu purtroppo l’inizio di un tunnel di paure e fatiche, ma tu non hai alcuna colpa. Imparerai vivendo che, quando si è in difficoltà, questo sistema non sempre aiuta. Anzi, il più delle volte complica, a partire da un ingranaggio che non riconosce la vita se non dal terzo mese di gravidanza. Se tutto va bene non c’è problema, altrimenti si apre il capitolo delle contraddizioni.

    Ti ordinano di stare in assoluto riposo, sdraiata specificano, ma devi passare dal tuo medico per il certificato di malattia, certificato che va rinnovato ogni due settimane perché tu, che già ti fai notare sotto forma di puntino, per la legge non esisti e la gravidanza è solo un’indisposizione. E poi ti dicono di non vivere la maternità come una malattia!

    Ti rechi in ospedale per le ecografie e ti fanno percorrere corridoi lunghissimi tra l’accettazione e gli studi medici, prima per registrarti e, dopo la visita, per portare la quietanza agli sportelli.

    «Mi ha appena detto che la gravidanza è a rischio.»

    «Signora, cosa devo dirle, qui funziona così.»

    Come non sentirsi abbandonati? Se poi a tutto questo aggiungi il malessere fisico e l’agitazione familiare, non solo ti senti malata, ma anche disabile.

    Comunque, per andare con ordine, sfortuna volle che la mia ginecologa fosse via in quei giorni, ma una settimana passò presto e dopo qualche giorno mi ritrovai con gli esami del sangue fatti, i miei ormoni della gravidanza da assumere e una nuova meravigliosa ecografia da portare a casa.

    L’ATTESA

    Nello studio medico sotto casa l’atmosfera era dolce e ovattata e non pesò affatto recarsi più volte a fare le ecografie, escluso al nostro portafoglio perché si trattava di uno studio privato. Non avevamo alternative, visto le tempistiche di prenotazione con il sistema nazionale e che in quei primi tre mesi bisognava tenere la situazione sotto osservazione.

    Il tuo cuoricino batteva come un tamburo!

    Nessuna mamma può scordare quei battiti veloci su quel sottofondo di fruscii. Rimpiango non fossimo ancora nell’era degli smartphone, conosco coppie oggi che filmano le ecografie con il telefonino.

    Noi eravamo ancora nella fase in cui i cellulari servivano solo per telefonare e la video cassetta valeva la pena registrarla negli ultimi mesi, visto i costi proibitivi di certi studi.

    Comunque era fatta: aspettavamo un bambino e adesso tutti lo sapevano, anche se nella mia mente riecheggiava quella frase sentita per la prima volta al pronto soccorso e ripetuta più volte negli studi ecografici «Potrebbe essere una seconda gravidanza riassorbita invece di un distacco della placenta, ma non lo scopriremo mai.» e io pensavo al sogno al mare e all’invasione dei gemellini.

    Fu un periodo tutt’altro che semplice.

    Abitavamo nella nostra casa da soli otto mesi e, nonostante fosse completamente arredata, c’erano ancora tante cose da organizzare e sistemare e io non mi potevo muovere.

    Trascorrevo le giornate sul divano e il tempo sembrava non passare mai. Non conoscevamo ancora nessuno nel nuovo paese e la solitudine cominciava a farsi sentire; inoltre l’immobilità non aiutava certo a far diminuire nausee e dolori.

    E la famiglia? Sempre presente per fortuna, ma terribilmente in subbuglio.

    Tieni conto che dovemmo annullare il matrimonio fissato per il 6 settembre. Avevamo ritirato e saldato tutto: le bomboniere, i vestiti, le partecipazioni, la caparra del ristorante e quella del sito della lista nozze, aperto all’agenzia viaggi per la crociera prevista a settembre.

    Dovemmo rinunciare perfino alle due settimane in albergo sulla riviera adriatica, fissate per il mese di luglio.

    Ma, guarda, nulla in confronto alla tua vita in arrivo.

    Tu eri, sei e sarai sempre più importante di tutto.

    Ricordi quando dicevo che le donne sanno essere terribilmente caparbie?

    Mi avevano prescritto di stare sdraiata e li ascoltai alla lettera.

    Lievitavo e ingrassavo più del dovuto, ma ne valeva la pena.

    I tre mesi passarono e tu eri vivo!

    Le cose andavano un po’ meglio, ma la mia dottoressa decise di lasciarmi a casa in maternità anticipata per precauzione, visto il trascorso e considerato che non ero proprio una ragazzina.

    Ci avevano vietato la villocentesi perché troppo rischiosa per te, anche se ero in età da screening prenatale, e inizialmente escludemmo anche l’amniocentesi. In alternativa rimanevano la translucenza nucale e il tri test, quest’ultimo da non prendere molto in considerazione, visto il largo margine di errore che poteva derivare da quel semplice calcolo di probabilità.

    Eravamo però in piena estate e il sistema sanitario era rallentato: tutti in vacanza, ma liste d’attesa lunghissime.

    Peccato che la gravidanza non faccia pause e che certi esami debbano essere eseguiti in determinate settimane della gestazione.

    Le linee telefoniche dell’ospedale che avevamo scelto erano così efficienti che ogni volta papà doveva andare di persona a fare la coda agli sportelli e il tempo stringeva sempre.

    Fu così che non trovammo posto per la translucenza e ci trovammo a fare l’esame del tri test, forse solo per lavarci la coscienza.

    Per noi era già un miracolo essere sopravvissuti a tutte le volte in cui dottori e conoscenti avevano nominato il probabile aborto come fosse cosa scontata.

    È stampata nella mia mente la frase cruda del mio medico di base di allora «Signora, stia tranquilla, sa quante volte capita? Se succede, lei si sdraia su un fianco con un asciugamano tra le gambe e fa la prima telefonata al 118, poi può chiamare chi vuole.» il tutto sorridendo per rincuorare.

    Fu invece il periodo meno rincuorante di tutta la mia vita!

    Non ricordo dopo quanti giorni ricevetti la telefonata dall’ospedale.

    Era mattina, c’era il sole ed ero seduta sul divano a casa dei tuoi nonni. Papà era in ufficio.

    «Signora, buongiorno, ascolti è seduta?»

    «Si, perché?»

    «Per sicurezza, mi dica, è seduta?»

    Chissà se i dipendenti sanitari fanno corsi di empatia o intelligenza emotiva? Li propongono a noi impiegati in assicurazione, ma evidentemente colui che telefonò ne aveva bigiato le lezioni o forse, semplicemente, non si è mai preparati a certe notizie e ce la si prende con chi ha lo sgradito compito di comunicarcele.

    «Sono arrivati i risultati del tri test e sarebbe meglio si recasse subito in ospedale.»

    «Perché? Me lo dica adesso!»

    «Suo figlio risulta avere la spina bifida.»

    Silenzio. I rumori dalla strada. La nonna che canticchia mentre fa i mestieri.

    «Ma io so che il tri test non è affidabile, che nasce da un semplice calcolo delle probabilità, ce lo avete spiegato voi stessi.»

    «Sì signora, è vero, ma suo figlio risulta avere la spina bifida al 99,9% delle probabilità, capisce? Deve venire subito a fare un’ecografia più approfondita.»

    Esiste un’ecografia più approfondita? E perché allora non proporla prima di perdere tempo con test inutili? E poi, perché parla di figlio se non conosciamo ancora il sesso? Mia figlia si chiama Sara.

    Furono il panico e la confusione a farla da padroni, al punto che oggi non ricordo più quale consiglio seguimmo e quale esame facemmo per primo.

    Rammento che trovammo posto per un’amniocentesi in ospedale, a pagamento perché il nostro sistema la passa gratuitamente solo al compimento del trentacinquesimo anno d’età e al mio compleanno mancavano dieci giorni. Nessuna eccezione.

    Sai che avevo paura? L’ago che utilizzano non è corto e quando lo vedi avvicinarsi alla pancia ti senti un po’ indifesa.

    Cosa non si fa per amore!

    Dopo aver studiato la tua posizione per capire

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