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Nell'anima del guerriero
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E-book276 pagine4 ore

Nell'anima del guerriero

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Info su questo ebook

Kocis, capitano della Legione straniera francese, dopo un conflitto a fuoco in Congo, si risveglia in un’Abbazia di frati cappuccini, sita al confine franco-spagnolo. Afflitto da un’amnesia acuta per un grave trauma alla testa, viene riabilitato da ex guerrieri diventati poi monaci. Tra questi Saltaàr, un monaco buddhista che lo seguirà nel suo lungo percorso meditativo, mistico e religioso.

Tra il 1997 e il 2001 Kocis affronterà una missione contro il traffico illecito di organi e un’organizzazione spietata di pedofili, nota con il nome di “The Water’s Game”. Le successive azioni operative verranno contrastate insieme a un gruppo militare segreto chiamato Victor 666, i quali opereranno tra la Francia e l’Italia, con risoluzione definitiva nella città di Legnano. Inoltre sono narrate: la sua storia d’amore con Eva, una dolce biondina che lo farà convivere con un amore platonico e la continua ricerca dei suoi tanto amati genitori.
LinguaItaliano
Data di uscita5 giu 2013
ISBN9788867559923
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    Anteprima del libro

    Nell'anima del guerriero - Fabio Pagani

    Nell’anima del guerriero

    Fabio Pagani

    Copyright – 2013 Fabio Pagani

    Tutti i diritti riservati

    Ringraziamenti

    Il romanzo Nell’anima del guerriero è stato scritto per merito di una squadra di grandi amici, coloro che hanno dedicato il loro tempo a colui che, giorno e notte, li ha stressati con i suoi tanti enigmi:

    Grazie-Grazie Fabio Piano per aver creato un’immagine di copertina in meno di dieci minuti, ma poi ha voluto spaziare con la sua immensa fantasia.

    Fabio Massi, invece, lo ringrazio per l’accurata descrizione del manoscritto. Senza lui mi sarei perso tra pensieri, opere e omissioni. Da vero amico mi ha regalato un’emozione che vivrà sempre nel mio cuore, nel ricordo di quella sera che, davanti al camino e a un paio di Guinness, si è decisa la sorte del mio romanzo.

    Salvatore Giuseppe Contu, Sott’Ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, colui che si è preso cura esclusivamente della valutazione militare, perfezionando, ma non censurando, le delicate fasi di questo mio racconto. Grazie fratellone!

    Il Professor Gianluca Cadoni per avermi pregiato della sua rinomata professionalità, in modo che il testo intero abbia avuto le più adeguate migliorie letterarie. Grazie Prof!

    Infine vorrei ringraziare la mia unica e cara amica Nathalie Bron, colei che mi ha convinto a riprendere ciò che ormai avevo abbandonato in un cassetto. Senza lei, che mi ha seguito passo dopo passo, non avrei mai pubblicato Nell’anima del guerriero e senza lei non avrei mai potuto condividere dei momenti indimenticabili con le persone da me citate. Grazie Nathy! Ti voglio bene...

    Nell’anima del guerriero è poi stato scritto in memoria dell’amico Claudio Greco, colui che mi ha lasciato un bellissimo ricordo che non avrà mai paragoni.

    Ciao Hot Popone Contro Corrente ora da lassù avrai qualche brivido in più... ma da leggere! (HALAVELI 1997).

    P.S.: Ora che Fabio ha scritto il romanzo e gli altri due hanno fatto il resto, direi che i tre Fabio hanno le carte in regola per battezzare un asino!!!!! (By Monica)

    IL RISVEGLIO

    Ero in un tunnel,

    e nulla vedevo.

    è apparsa una luce,

    e da lei son andato.

    Intorno a me il freddo e l’oscurità,

    e il silenzio era decoro.

    Ho udito una voce:

    Ehi!.. dove vai?

    Al suon del leggero sibilo mi son bloccato,

    e la voce mi ha sussurrato:

    Kocis... non aver paura!

    A lei mi girai,

    e a lei mi prostrai.

    All’aprir degli occhi,

    ero su una barca.

    Ero solo,

    e non vi era nessuno.

    Mi ritrovai in una grande vallata,

    tra canti e preghiere.

    La gente era felice,

    e vestiva il grigio, il rosso e il giallo.

    Ho visto il ciel brillare,

    ho visto l’indaco,

    e ho visto i bimbi volare.

    Poi l’arcobaleno s’è alzato e io mi son svegliato.

    Mi risvegliai in una stanza luminosa dove un frate cappuccino mi tamponanva la nuca con un panno ghiacciato. Provai ad alzarmi, ma un forte dolore alla testa mi fece ricadere sulla sua mano. Il frate mi disse: Bienvenida en las manos de Dios. Purtroppo non riuscivo a dirgli nulla, anche perché mi sentivo come se una montagna mi fosse caduta addosso, ma ancora peggio, non mi ricordavo nulla di quanto mi fosse accaduto. Vidi entrare un altro frate che mi cambiò la flebo, ma dopo qualche istante mi riaddormentai in un sonno ancor più pesante.

    Mi svegliai di notte, nella stanza non c’era nessuno. Provai a guardarmi intorno, ma i miei occhi fecevano molta fatica a muoversi. Davanti a me c’era un crocefisso illuminato da una candela e, sotto ad esso, un vasetto di fiori di campagna.

    All’alba, ritornò quel frate, ma anche in quell’occasione restai in silenzio. Lo sentivo pregare in una strana lingua, latino o forse spagnolo. Il paffuto frate si girò e mi fece cenno di ascoltare canti religiosi che si sentivano in lontananza, poi mi lavò da capo a piedi con una spugna non tanto morbida. Mamma mia, quanto ero debole! Mi asciugò delicatamente tutto il corpo, per poi lasciarmi andare in una contemplata perdita di coscienza.

    Trascorsero veloci le ore del giorno, nello stesso modo che ci impiega un’eclissi di sole a liberarsi dalla luna e nei pochissimi momenti in cui ero sveglio, mi dilettavo a contare le trentasette foglie di un ramo di ulivo che dondolava fuori dalla finestrella, oppure aspettavo che sul suo davanzale ritornasse quel passerotto a completare il suo nido.

    La prima settimana la passai in questo modo, senza sapere e senza riuscire a dire nulla. La mia mente si era fermata al capolinea di un paese che si chiamava Amnesia, nel quale non avevo idea da che parte fosse arrivata la mia corriera. In quelle poche ore di coscienza cercavo di riavviare il mio motore cerebrale, ma a quanto pare, sembrava che fosse ingolfato. Finché, una mattina, gli ingranaggi decisero di bloccarsi definitivamente, per cui mi lasciarono in mano soltanto il mio marchio di fabbrica.

    Mi ricordavo solamente, ma conclusi presto che si trattasse comunque già di una vittoria date le condizioni, il mio nome…io ero o meglio sono Kostantine Cornoval Ishmael, detto Kocis e che ero nato il ventottesimo giorno di un freddo gennaio del settantuno. Pensai che mi avessero dato quel soprannome forse perché qualcuno si era sbizzarrito a evidenziare le prime lettere dei miei nomi, o forse potevo essere stato io, visto che con la mia firma avrei occupato qualsiasi spazio disponibile.

    Insomma, io non mi riconoscevo affatto e di conseguenza mi trovavo dentro a un corpo che aveva una sua storia, mentre la mia memoria era una tabula rasa, un foglio di carta intestata. Non mi allarmai tanto, ero convinto che, prima o poi, qualcuno sarebbe arrivato a riprendermi; quindi attesi quel momento con grande fiducia e curiosità.

    Purtroppo dovetti ricredermi perché non si fece vivo proprio nessuno e quando dico nessuno, intendo dire che neanche i due frati cappuccini si facevano più vedere. Non ero, però, abbandonato a me stesso dato che ad ogni risveglio, mi trovavo sempre con la flebo cambiata e con del cibo sul comodino.

    Dopo giorni di isolamento, provai a dare aria alle mie corde vocali, cercavo, così, di trarne qualche beneficio, come quello di richiedere qualche attenzione. Tuttavia, la prima frase che gridai fu: Ohhh… Ma vi siete dimenticati di me???? Finalmente, la mia supplica venne accolta e il paffuto frate, sentendo quella mia concitata implorazione, venne in mio soccorso con tanto di medicinali.

    Gli dissi: Mi perdoni padre, mi potrebbe dire chi sono e che cosa mi è accaduto? Il frate mi sorrise e mi spiegò come fossi reduce di un grave incidente, ma oltre a quello non aggiunse null’altro. In seguito, il ciccione di saio vestito, ritornò con una sedia a rotelle e, con gentile fermezza, mi ci fece accomodare poiché era sua intenzione farmi prendere una boccata d’aria fresca.

    Nel tragitto, dalla stanza attraverso un lungo corridoio, provai a immaginarmi di quale incidente si trattasse ma fu solo tempo perso, perché la mia memoria non mi aiutava affatto. La mia attenzione tornò su quel buffo frate, pronto a spingermi in chissà quale posto segreto. Attraversato il semi buio atrio ci fermammo davanti una porta antipanico; nella mia mente si affollavano mille pensieri e domande ma, nell’istante in cui lui aprì la porta, fui accecato da un forte bagliore che proveniva dall’esterno, quindi fui costretto a mettermi una mano davanti agli occhi, altrimenti mi sarebbe venuto il solito forte mal di testa. Fino a quel momento avevo pensato di essere ricoverato in qualche ospedale gestito da frati o da suore, ma quando tolsi la mano dagli occhi, rimasi sbalordito, eravamo in un antico monastero. Un luogo talmente suggestivo e incantevole che mi lasciò senza fiato. Un pochino stranito osservai meglio: di fronte a me c’era un immenso giardino contornato da arcate e capitelli in stile gotico, le quali ornavano, come un susseguirsi ordinato di onde, un’oasi lussureggiante, dove lungo i suoi magnifici vialetti passeggiavano e sedevano una ventina di monaci intenti a leggere il breviario. Il frate mi accompagnò lungo il reticolato, dove incontrai altrettanti confratelli che, camminando sotto all’enorme colonnato, mi salutavano con un gentile inchino.

    Ci fermammo davanti all’entrata della cappella, dove il frate mi disse che sarebbe entrato per qualche minuto. In quel frangente, sentii una musica provenire dalle finestre del secondo piano. Al suo ritorno, gli domandai chi fosse a suonare quella stupenda melodia, ma il frate, invece di rispondermi, mi disse soltanto che il Priore mi avrebbe incontrato nel suo ufficio.

    Arrivammo così davanti a una lunga scalinata, dove due frati, decisamente corpulenti, mi aiutarono a salire. Appena arrivato al piano superiore, vidi uscire una ragazza bionda da un’aula di musica. La giovane donna camminò davanti a me senza lasciarmi intravedere il suo viso, ma fu talmente vicina che la sua profumata scia mi rallegrò l’anima. Purtroppo, tutto il resto del mio corpo, le narici escluse, svoltava dentro un’anticamera, dall’odore di stantio decisamente sgradevole; ebbene! Dovetti abbandonare la via di Venere per intraprendere la dura e ostile strada di Marte.

    Eh sì, fu proprio così! Quando svoltai l’angolo, mi ritrovai d’innanzi a un frate assai maestoso e dall’aria alquanto inflessibile. Quell’uomo mi diede l’impressione di comando come se mi trovassi con una persona molto importante, rispettata e forse temuta; aveva uno sguardo rigoroso e severo, tanto è vero che il paffuto frate si limitò a irrigidirsi senza dire nulla. Il frate ci invitò ad entrare e a quel punto ebbi la sensazione che fosse il Priore in persona.

    All’interno del suo ufficio spartano ma elegante, notai un altro individuo, seduto di spalle rispetto a me, questo con lentezza si alzò e vidi che si trattava di un monaco buddhista scalzo, con tanto di saio color amaranto.

    Dopo avermi aiutato a sedere, i due frati corpulenti si congedarono. Appena il tempo di sedersi dietro alla sua scrivania che il Priore mi disse di essere Frà Dominique, il Padre Superiore della Confraternita dell’Abbazia del Sacro Cuore, e di trovarci all’interno di un monastero risalente al 1597, costruito dai frati cappuccini proprio in mezzo alla catena dei Pirenei, al confine tra la Francia e la Spagna.

    Detto questo, mi presentò Fra Pedro, ossia il tuttofare del monastero, colui che mi aveva accudito per tutto quel periodo di degenza. Infine, mi presentò il monaco Saltaàr, colui che mi avrebbe accompagnato durante la mia successiva riabilitazione. Restavo in silenzio, timoroso di tutto il contesto, ma poi gli chiesi se mi potesse raccontare quale fosse il vero motivo della mia presenza in quell’Abbazia. Il Priore mi guardò fisso negli occhi e poi senza indugio mi rispose, con voce atona ma gentile, che io ero reduce da uno scontro a fuoco in Congo, dove un gruppo di guerriglieri aveva fatto un genocidio in un villaggio che si chiamava Kimbawe.

    Non so perché, ma prima che il Priore terminasse di espormi i dettagli, sentii un fischio nelle orecchie e incominciai a balbettare frasi senza senso. Vedendomi in quello stato, il monaco Saltaàr mi spinse fuori lungo il terrapieno e mi disse di respirare lentamente, di non aver timore di nulla, perché mi avrebbe aiutato a ricordare ogni cosa. Rivolse poi lo sguardo gentile in direzione dei due frati e fece loro cenno di allontanarsi, forse perché il Priore non era pienamente consapevole della gravità della mia malattia, visto il modo in cui mi aveva riferito la causa del mio ricovero.

    Quel giorno, iniziato con una splendida luce, si concluse con una lunga discesa nelle tenebre durante la quale mi ritrovai in balìa di drammatiche emozioni. In effetti, dopo quella notizia, la mia mente era affondata in una crisi spaventosa e il mio atteggiamento diventò illogicamente spietato contro chiunque mi volesse stare vicino. I giorni successivi furono veramente atroci e silenziosi, ma soprattutto la mia coscienza mi fece capire di essere rimasto solo al mondo…

    LA RIABILITAZIONE

    Il dramma di aver perso la memoria mi aveva fatto crollare in una brutta depressione, ma la consapevolezza della vera causa faceva scemare ogni stimolo e tentativo di reazione. Continuavo a domandarmi per quale motivo fossi andato in Africa e chi fosse stato a spararmi, ma soprattutto un atroce dubbio si insinuò nella mia mente che tra le vittime di quel genocidio non ci fossero anche i miei genitori; questo tarlo mi era spuntato quando avevo iniziato a ragionare sul fatto che nessuno fosse venuto a trovarmi, e non se ne era più andato. Inoltre cercavo di capire, con astrusi ragionamenti e cavilli, per quale diavolo di ragione fossi andato in Congo, considerato che quello Stato non fosse una destinazione turistica. Allora presi in considerazione che probabilmente fossi in quel posto per motivi di lavoro. Sì, ma quale lavoro? E poi, perché ero ricoverato in un’Abbazia e non in un ospedale? Chi mi aveva operato? Chi mi aveva trasportato dall’Africa alla Francia? Insomma, chi mi aveva fatto tutto questo?

    Per due o tre giorni pretesi di restare da solo, anche se Fra Pedro e Saltaàr tentavano invano di parlarmi. In quei giorni mi opposi a qualsiasi assistenza, perché ero certo che i monaci sapessero ben altre cose sul mio conto e che però, per motivi a me sconosciuti, non volessero dirmi nulla.

    Purtroppo il mio mal di testa ritornò più forte che mai e a quel punto incominciai a delirare. Saltaàr mi convinse a bere un infuso alle erbe, altrimenti avrei peggiorato la mia situazione. A quanto pare il monaco aggiunse del sonnifero perché mi addormentai all’improvviso. Mi svegliai l’indomani mattina. Al mio risveglio, mi ritrovai accanto il monaco che mi stava massaggiando da capo a piedi e in quel momento lo supplicai di dirmi la verità, se no mi sarei fatto morire. A quella domanda, Saltaàr mi rassicurò sul fatto che il Priore mi avesse detto tutto, e quindi mi pregò di stare tranquillo. Lo guardai negli occhi e incominciai a piangere, intorno a me vedevo solo il vuoto che trascinava la mia anima in un pozzo senza fine.

    Ricordo che ero in piena crisi esistenziale e le mie medicine mi tralasciavano pochi istanti per pensare. Saltaàr e Pedro non mi abbandonavano in nessun momento, se mancava uno, vi era l’altro. Invano attesero che mi venisse voglia di aprirmi e parlare; le mie ore le trascorrevo guardando fuori dalla finestrella. Saltaàr e Fra Pedro rispettavano ogni mio turbamento e si limitavano solamente a tenermi d’occhio, mentre gli altri frati seguitavano a condurre la loro vita monastica senza darmi troppe attenzioni.

    In una di quelle notti agitate dal delirio, sognai una donna dal volto angelico, che mi disse: Kocis, il tempo di piangere è ormai terminato! Ora è il momento di reagire, devi rialzarti senza indugio. Poi il volto sparì improvvisamente e io mi svegliai dal sogno. Sgomento per quel sogno così vivido e forte, istintivamente, mi alzai dal letto e le mie gambe iniziarono a sorreggermi, come se nulla mi fosse accaduto. Ancora scombussolato e incredulo, mi diressi verso la finestra e vidi una rossa alba meravigliosa che era accompagnata dal canto degli uccellini del primo raggio, chiamati così per la loro abitudine di iniziare a cantare alle prime luci dell’alba. In quell’istante la mia stanza si profumò di rose e di viole, finalmente mi sentivo bene, in pace con me stesso, sereno sin nel profondo dell’anima.

    Era come se la vita fosse tornata a scorrermi nelle vene, sentivo il pulsare del mio sangue che gridava. A sorpresa mi venne voglia di correre, di cantare, di ridere e di urlare, tanto che mi vestii velocemente e attraversai tutto il monastero. Dapprima andai in giardino, poi girai intorno al colonnato e in fine entrai in cappella, spalancando il pesante portone ancora ansimante, dove tutti i frati erano raccolti in preghiera.

    Quel giorno era il primo ottobre del 1997, ossia un mese esatto dal mio risveglio. Le mie condizioni miglioravano a vista d’occhio tanto che i miei curatori decisero di farmi uscire dal monastero. Infatti quella mattina andammo a Saint-Jacques, il piccolo paese che distava qualche chilometro dall’Abbazia del Sacro Cuore. Durante il tragitto in moto-carrozzella, osservavo meglio i miei due amici e mi accorsi che Fra Pedro era un uomo di circa sessant’anni ed era il tipico frate cappuccino con tanto di panciotto e zigomi rosei, mentre Saltaàr era un cinquantenne molto snello e aveva un profilo orientale assai pronunciato. Se il primo era un uomo gioviale e alquanto bizzarro, il secondo era un tipo molto enigmatico e particolarmente introverso. Con loro due mi sentivo al sicuro perché mi avevano riempito di serenità e protezione.

    A Saint-Jacques restammo poco meno di un’ora, perché Pedro doveva ritirare degli ordini d’acquisto dai negozianti del luogo, per poi rientrare in monastero ad aiutare lo chef a preparare il pranzo. In quella breve passeggiata notai che il paesaggio era veramente fantastico e la gente molto cordiale.

    Da quel giorno il mio rapporto con Saltaàr cambiò notevolmente, se in passato lui si era limitato ad asciugarmi le lacrime, in futuro avrei dovuto seguirlo come se fossi stato uno suo discepolo. Infatti, da quella mattina, avremmo incominciato ufficialmente la mia riabilitazione fisica e mentale. I nostri incontri avvenivano nella grande vigna, dove ci appartavamo nei pressi di un grande tavolone, il quale serviva ai frati per depositare le ceste dell’uva. Ricordo che Saltaàr mi consegnava dei fogli dove mi diceva di scrivere le lettere dell’alfabeto e i numeri relativi dall’uno al ventuno. Pensavo si trattasse di un esercizio molto semplice, ma il monaco mi disse di suddividere i 42 segni nell’arco di 60 minuti, però senza fare pause. Sinceramente, mi appariva un po’ strano obbedire a quel compito, ma abbassai la testa e non dissi niente.

    Incredibilmente, in quei frangenti, la mia mente incominciava ad elaborare qualche immagine, infatti, mi ricordai che quando ero adolescente giocavo in una squadra di calcio dalle magliette arancioni e nere. Inoltre, mi ricordavo che la mia maestra si chiamava Berenice. Devo ammettere che quel semplice esercizio mi aveva portato a degli ottimi risultati, tanto è vero che chiesi al monaco di poter continuare. Saltaàr, invece, mi disse di non preoccuparmi, perché di li a poco avrei fatto prove ben più creative.

    Era ora di pranzo, il monaco decise di fare una pausa e perciò mangiammo un frugale pasto a base di frutta e verdura, in modo da non appesantirci durante le fasi successive. Però, al termine del nostro convivio, Saltaàr mi indicò la strada del riposo, valutando necessario il fatto che avrei dovuto dormire qualche ora. Il monaco valutò come fossi in giro da tanto tempo e quindi per me sarebbe stato troppo rischioso sottopormi ad un ulteriore carico di lavoro. In effetti ero ancora sotto l’effetto degli antibiotici, i quali richiedevano un’attenzione maggiore per le loro innumerevoli controindicazioni.

    Ebbene! Fu proprio una pastiglia sbagliata a ritardare il mio appuntamento delle cinque della sera. Accidenti! Prima di coricarmi, presi un pesante sonnifero al posto del solito antinfiammatorio pomeridiano, cosicché mi presentai da Saltaàr in uno stato pietoso. Il monaco, da parte sua, capì subito che io avessi sbagliato medicina e perciò mi disse: Non importa dell’indicazione per cui è evidenziato un farmaco a migliorare la salute del malato, ma è sicuramente necessario che il suddetto paziente abbia almeno la capacità di intendere e di volere il bene per se stesso. Ancora oggi ho difficoltà a capire il senso di quella frase; che abbia pensato che volessi suicidarmi o che l’abbia fatto apposta per saltare l’esercizio della sera? Del resto il mio maestro non mi ha mai dato spiegazioni.

    Avendo notato quale fosse la situazione, Saltaàr evitò di spiegarmi quale fosse la seconda prova, quindi mi consegnò un pennello, una tela e una boccetta di inchiostro, per mezzo dei quali avrei dovuto disegnare una testa di cavallo. Successivamente, commentai che considerata l’ora, sarebbe stato impossibile che io fossi riuscito a completarla proprio quella sera, ma il monaco, repentinamente e seccamente, mi rispose: Non ti ho parlato di tempo, ma solo del risultato! Kocis, cerca di misurare bene le parole di colui che ti parla, altrimenti, farai più fatica a capire che a perder del tempo prezioso! Sferzato dal rimprovero avviai la mia opera, ma questa si dimostrò più complicata del previsto tanto che non sapevo da che parte iniziare.

    Meno male che il tempo volava via velocemente. Poco dopo Fra Lotar, il gigante chef del monastero, mi richiamò per preparare la tavola, poiché da quella sera, avrei mangiato con la corvèe di cucina. Sebbene non avessi combinato niente, feci, con gioia, fagotto e lo seguii convinto di averla scampata ma, dal momento che entrai in cucina, mi resi conto di quanto sarebbe stato impegnativo preparare cento pasti; quindi, furbescamente, mi barricai in un angolo e mi limitai a guardare tale preparazione. Alla vista dei salumi e dei formaggi

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