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Connessioni
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E-book253 pagine3 ore

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Info su questo ebook

L’amore, si sa, non segue percorsi prestabiliti e scontati. È talvolta bizzarro, folle, non dà tregua e la protagonista di questa storia non ha mai rinunciato a vivere e ad amare seguendo sentimenti totalizzanti. Dopo un lungo periodo di sguardi, sospensioni e incertezze si fa avanti un uomo che, mettendo da parte le sue paure riesce, abbandonandosi, a immergersi in una storia ricca di pathos e sensualità.
Ma il romanzo di Francesca Sifola è, soprattutto, lo svelamento di un percorso interiore di forte intensità emozionale che attraversa la vita unendo fili misteriosi, intessuti di casualità che lasciano pen- sare ad un deciso abbraccio del Destino.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788855089142
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    Anteprima del libro

    Connessioni - Francesca Sifola

    FUOCHI D’ARTIFICIO

    Quella notte, nel passaggio dal 2000 al 2001, percepii una strana sensazione: era intensa, ma allo stesso tempo sembrava volatile, come una farfalla che ti tocca e se ne va lasciandoti intontita.

    Non era l’euforia di una fine d’anno come tante. Ne avevo alle spalle ben 43: brindisi, fuochi d’artificio, frizzi e lazzi di comuni mortali che si abbracciano e baciano senza sosta, ma mai, davanti a quella follia collettiva di spari umani e artificiali, che solo Napoli sa sopportare a suo rischio e pericolo, mai avevo avuto l’impressione di essere io stessa una specie di bengala, pronta per il lancio.

    Fino ad allora avevo assistito a questo tipo di spettacolo con una certa partecipazione, chiedendomi le solite cose da ultimo dell’anno: Come sarà il prossimo? Com’è stato quello trascorso? Cosa mi auguro che avvenga? Insomma, proprio le solite cose e anche con un certo pudore, perché non ho mai amato le banalità.

    Ma quella notte c’era dentro di me la percezione intensa di qualcosa in arrivo, qualcosa di completamente diverso.

    Come ubriacata da questo messaggio che, per la sua forza, sembrava arrivare da un’altra parte del Cosmo, ma credo che fosse proprio così, mi ritrovai a premere il tasto del cellulare per fargli gli auguri. Presi un lungo respiro e dissi con voce chiara e sicura:

    «Pronto? Volevo farle gli auguri di buon anno!»

    «Anche a lei!», rispose cordiale. Poi aggiunse: «Perché non passa in Piazza Plebiscito per brindare al nuovo anno?»

    «Beh, mi farebbe piacere, ma non credo sia possibile in questo momento attraversare la città in festa, sono alle Vigne!»

    «Belle le Vigne», rispose, «Comunque le rinnovo i miei auguri, ci sentiamo!»

    «Grazie, a presto!»

    Pensai che non fosse in sé: anche volendo, come avremmo potuto incontrarci in una Piazza così gremita? Poi mi dissi che, forse, aveva bevuto un goccio di troppo.

    Napoli, ai miei piedi, continuava a sparare, mischiando nelle viscere il suo inferno e il suo paradiso di bagliori; mancava solo che il Vesuvio venisse contagiato da quella follia e che la città più criticata del mondo saltasse nell’acqua del golfo e andasse a fondo per sempre. Davanti a quel ritratto metafisico, che meglio di qualsiasi altra cosa parafrasava il mio stato d’animo, rimasi immobile, mentre le voci dei festeggiamenti dalla casa in alto alle mie spalle facevano da sottofondo, senza essere in grado di esprimere a pieno quel tumulto dal quale ero pervasa. Un buon regista, volendo riprodurre con fedeltà l’espressione della faccia come esatta didascalia del mio stato interiore, avrebbe scelto una musica morbida, di quelle a 432Hz e non rigidi schiamazzi di una folla affannata. Il mio stato era sublime: toccava la metafisica dell’essere. Non sapevo nemmeno io cosa fosse, ma era di certo uno stato eccezionale, radioso.

    Lontano da me, ovunque, fuochi impazziti: in acqua, sulla collina e nella città posta nel mezzo. Vicino a me, la mia ombra sul prato scuro e umido che ondeggiava ebbra. Aspettai che ogni suono si attenuasse e cominciai a scendere verso la strada dove i miei amici avevano parcheggiato l’auto. Ora mi parlavano, coprendo la voce di lui ancora viva in ogni centimetro del mio corpo. Quando mi trovai sulla strada, un’insistente domanda, che aveva voglia di attaccarsi alle pareti del cervello, prese il posto di quell’eco: Voleva essere un invito? E ancora: Come pensava che ci saremmo potuti incontrare in una piazza così gremita?

    Le ore passarono, lo scenario cambiò per ritornare alla normalità dopo l’euforia, ma niente dentro di me riprese il suo solito aspetto. Era come se fossi stata spostata su un altro binario. Nei giorni successivi, quella percezione di qualcosa in arrivo si rinvigorì al punto che la realtà divenne una specie di corpo estraneo, una specie di rigida impalcatura appiccicosa contro ciò che, ormai ero convinta, stava per materializzarsi.

    I MIRACOLI ESISTONO

    Luci soffuse, un lento, una sera.

    Dopo aver ballato, nel separarci, senza avere alcuna coscienza del gesto, trattenni la mia mano nella sua, muovendola in modo inequivocabile: piccoli tocchi prolungati tra il dorso e il palmo. Per molto tempo non ricordai affatto quel gesto. Solo dopo alcuni mesi, quando lui ne mimò il movimento leggero, ma evidente, ne ebbi chiara l’immagine come su uno schermo: sorridemmo con ironia. La mia anima scaltra aveva portato le dita della mano sulla pelle di lui, mentre il cervello, con quel che restava di razionale, era stato messo in cantina, per sollevarci da terra. Che beatitudine!

    Ma prima di quella sera, per più di due anni, gli incontri di lavoro erano rimasti sospesi sulle nostre teste: parole scandite da contratti, norme e leggi, mentre il nostro sguardo si dirigeva verso un altro spazio, che premeva per essere finalmente aperto. E quanto premeva! Le serrature stavano cedendo.

    «Avvocato…», gli chiedevo, «Che ne dice se facessimo così, così e così…» Ma quanto pieni di ben altro cominciavano a essere quei suoni ripetuti come un disco rotto! Lui mi rispondeva a tono, ma la sua espressione era il ritratto di chi stava andando a impantanarsi nelle sabbie mobili, gridando aiuto con un filo di voce.

    Erano stati mesi di un viavai di contratti, ma anche di silenzi e gesti che spiavano per aprirsi un varco e irrompere nella nostra vita. Parafrasi ancora ondeggianti tra cielo e terra. Di noi due, quella che guardava più verso l’alto ero io, ma era evidente che, questa volta, il suo stare sempre con i piedi per terra stava per indebolirsi. In quanto a me, guardavo sempre verso l’Alto, quando cercavo la direzione giusta da seguire. Alto, scritto con la maiuscola, era per me la sintesi della forza di tutte le forze, dove dentro c’è tutto, senza che ci sia nessuna religione, ma la sacralità di ogni forma di esistenza.

    Avevamo l’aspetto di due personaggi da fumetto, malgrado le reciproche venerande età. Chi ha detto che l’età allontana quella freschezza di comportamento e di pulsioni? Se non si manifestano più è perché il poveretto o la poveretta che le ha incatenate è un negriero e meriterebbe la gogna per la distruzione insanabile di un patrimonio naturale. Noi ne eravamo la prova: lì, pronti per essere cotti e mangiati dall’amore. Per pudore non lo scrivo con la a maiuscola... e poi perché Liala potrebbe sentirsi troppo lusingata.

    La prima volta che l’avevo incontrato, dieci anni prima, era stato proprio lui ad aprirmi la porta dello studio: la sua bellezza mi aveva disarmato. Faceva finta di portarsela addosso inconsapevole, quasi con umiltà, ma non era vero niente. Che non fosse vero lo scoprii in un secondo tempo e, allora, restai folgorata anche da questa apparente umiltà, come segno di elegante discrezione.

    Erano trascorsi circa dieci anni in quasi totale silenzio. Ma la vita spesso ti rimette davanti delle chiare provocazioni, ripetendo se stessa, finché non sei obbligato a svegliarti.

    Chi aveva paura era lui: come si dice a Roma, io ero più scafata, perché proprio quella vita libera, senza vincoli, con le sue provocazioni mi aveva resa alquanto audace e resistente alle bidonate che sempre ti dà il volere essere razionale ad ogni costo. Lo so che la gente comune pensa il contrario, che è l’istinto a dartele, ma sono convinta che è proprio quel pensare piccolo piccolo che due più due fa sempre quattro, a tirarti le menate peggiori. Resti fermo in uno stagno a galleggiare come una papera con poca acqua e quando poi decidi di saltar fuori è troppo tardi. Allora, ti assolvi attraverso la tipica lamentazione: Sono proprio sfortunato!

    Rifiutato dalla vita? Ma no! Solo, senso di tempismo: zero!

    Dunque, noi ci stavamo svegliando. Finalmente quella sua ferrea razionalità, stava per essere soppressa dalla sua bruciante sessualità, che in quel periodo riuscì ad operare dentro di lui una quasi miracolosa trasformazione. Santa e benedetta, stava andando dritta tra le mie calde braccia, dentro un pathos di vita a lui sconosciuto. Lo tirava verso di me in un’acqua rifrangente, dove iniziava a bere dopo anni di siccità! Divenimmo i nostri stessi sogni: lui il mio e io il suo. Eravamo stupiti. E non potevamo chiedere di meglio! Iniziò una storia così vibrante da magnetizzare l’esistenza, un centro attorno al quale roteavano tutte le altre azioni, una specie di fabbrica in cui la realtà quotidiana veniva smontata e ricucita. Cominciammo a giocare alla vita vera.

    Lui era non felicemente coniugato. Io avevo giocato a palla col matrimonio varie volte, ma non gli avevo mai lasciato fare gol. Guardavo le coppie intorno a me sempre con un’aria un po’ intontita, quasi come se non ne capissi le dinamiche o, piuttosto, come se non le volessi capire. O, potrei ancora dire, più stordita che intontita da quelle dinamiche che invece capivo fin troppo bene e che rifiutavo. Quindi, avrei potuto essere una felicissima amante, e non chiedevo di meglio! E tale volevo rimanere, perché per mia natura non ero e non sarò mai una sfascia carrozze, anche di quelle che traballano: la sua stava percorrendo un viaggio senza ritorno, pronta a dileguarsi ingerita dal volto deforme del conformismo in cui era immersa. Davanti alla nostra storia quel conformismo avrebbe urlato d’orrore.

    Gli ingredienti erano: io, una convinta outsider, lui un titubante insider che entrava e usciva dallo steccato. Io, un cane sciolto convinto che faceva roteare la sua allegra coda ogni qualvolta la realtà gli offriva di vivere qualcosa che avesse odore di eccezionalità; lui, l’inconsapevole aspirante a respirare quell’odore, purché potesse inebriarsene a intervalli alquanto regolari, per poi tornare nel recinto, portando con sé il magnifico ricordo di una traversata in mare aperto.

    In una delle nostre scorribande nella natura, scoprii, davanti a un dirupo, che soffriva di vertigini.

    Esclamai: «Come fai a sciare in alta montagna!»

    «Non ci penso! Scio e basta e mi piace tanto!»

    Strano, pensai, associando questa sua paura anche al suo modo di vivere: non si librava nell’aria a nessuna quota, persino in alta montagna: Scio e basta!

    Raccolsi quella parte di lui che si affacciava di tanto in tanto a esplorare la realtà da un’altra prospettiva. Puntai su quel bisogno e riuscii a stanare il can che dorme sonni poco tranquilli nella sua fredda cuccia. Accadde così che quell’uomo, dalle iniziali del nome stampate sulla camicia inamidata, smetteva a tratti i suoi vestiti socialmente rigidi e si tuffava nelle bizzarre peripezie del cane sciolto, seguendo quella parte di lui che ora scodinzolava, come me, fuori dal recinto: Scio e basta!

    Io stavo entrando nella sua vita con assoluta spontaneità, sfondando una parete molto fragile, che era stata eretta da sciate, scopate, e dal piacere di ascoltare musica da camera! Il mio darmi tutta alla vita senza maschere e compromessi, cominciò a portarlo dalle sciate ai voli, dalle scopate all’amore, dalla musica da camera a tutti i tipi di generi musicali, purché fossero composti da un’armonia universale.

    Pian piano, passo dopo passo, con un ritmo che avrebbe fatto indietreggiare chiunque, ma non me, avanzammo fino a che lui, una sera del 2001, non mi disse, al telefono: «Ti voglio bene!»

    La voce gli tremava, proprio come a qualcuno che sta per uscire da un recinto e ancora non riesce a capire se fuori c’è il sole o lo aspetta una catastrofe naturale.

    In quel momento io guardai verso l’Alto!

    Molte volte, prima di allora avevo sofferto di claustrofobia. Né in un ascensore, né in una stanza, né in un vagone ferroviario superaffollato: nella vita! Ma poi, in un modo o nell’altro, forzando una serratura, un po’ qua, un po’ là, mi si era aperta all’improvviso.

    Ma perché ogni tanto mi veniva il tipico affanno dei claustrofobici?

    Ho paura di non farcela? mi ero sempre chiesta. E ancora: In che senso? A trovare l’uomo giusto? A sbarcare il lunario? A stare bene in salute?

    Erano questi i sogni di un essere umano normale? E questi erano anche i miei? Oppure io da cane sciolto ero talmente altro, da non sentirmi più così normale? – È da troppo tempo, ormai che la gente si chiede cosa sia la normalità, senza riuscire a trovare una risposta, ed allora io, personalmente, avevo smesso di chiedermelo – O non ero normale, perché avevo capito che, per me, farcela significava avere la forza di pulire me stessa, forse anche con una grande e sonora risata, da paure, che non avrebbero potuto costruire se non altre paure? E che Dio ci scansi da questi mostri così abili nel forgiare forme ingorde e voraci! Le paure, si sa, non sono biodegradabili: ci si attaccano addosso come le cozze e non si cancellano con lo sforzo di una vita intera, diventano robustissime patologie, mascherate da fidate sentinelle, perché qualche volta sembrano anche proteggerci. Ma non è vero niente.

    Avevo, così, imparato a procedere, mossa da una forza piena e del mio passato tremante non c’era più traccia nell’umore; era registrato nella storia personale come materia di studio e non di vita. Di tanto in tanto aprivo il file e scoprivo qualcosa di più su ciò che avevo vissuto e come. Poi, lo richiudevo e me ne dimenticavo.

    Ora, lui mi trovava lontana da quelle paure e consapevole del fatto che la vita è un ricamo delicatissimo, dove quello che talvolta sembra un piccolo punto mal cucito potrebbe aprire una voragine in cui finire dentro rotolando all’impazzata.

    Eppure, tante volte avevo avvertito che, persino in queste vertiginose cadute, prima o poi, c’è una parete che blocca la totale distruzione, l’importante è riconoscerla, senza restarci appiccicati per timore di ricadere giù e a grandi passi riguadagnare la vetta, il più in fretta possibile. Io l’avevo riconquistata molte volte e ora lui mi trovava pulita!

    Era maggio 2001. Dopo quella telefonata in cui mi aveva detto quasi sotto voce: Ti voglio bene, raggiunsi mio padre e la sua amante al locale sotto casa. Entrai con qualche minuto di ritardo. Corpo, mente e anima avrebbero voluto saltare, anche se nemmeno il volo più alto sarebbe bastato per lasciare che esprimessero a pieno la loro liberazione. Mi sembrava di essere diventata un pallone gonfissimo che sta tanto bene con la sua scorta d’aria e vi stavo galleggiando dentro come una papessa. C’erano voluti ben due anni per tirare quell’uomo verso di me ed ora era fatta!

    Mentre mi sedevo al tavolo trasformai quel ti voglio bene in ti amo. Era talmente evidente che fossi sonorizzata da questa trasformazione che l’amante di mio padre disse: «Ti trovo una meraviglia! Hai una luce diversa!», mentre lui annuiva, senza chiedersi il perché, ma felice che due donne a lui care si scambiassero parole gentili.

    Caspita!, mi chiesi in silenzio, Ma si vede così tanto?, mentre riuscivo solo a rispondere trasognata da quell’incantamento: «Mah…»

    Restai per tutta la sera in una sorta di tepore, dove tutto quello che proveniva dall’esterno, parole, suoni, rumori di stoviglie, risate, cibo, veniva ingerito per galleggiare con me in quel vapore caldo e nutriente. E tutte le parole che, invece, provenivano dalla mia bocca, sembravano tracciare nell’aria disegni astrattamente lirici, improvvisazioni dell’anima restia a confondersi con la realtà esterna.

    Quando uscii dal ristorante il mio sguardo cercò di spalancare il cielo per vedere dall’altra parte cosa ci fosse. Ho sempre fermamente creduto che non solo esista un altro luogo, ma che ci sia un gran da fare. Penso spesso al film di Wim Wenders Il Cielo sopra Berlino e sono certa che lì sopra c’è proprio un gran da fare e che ci sia una regìa molto più illuminata della nostra.

    Io, quella sera, qui sotto, come guidata da sopra, aprii quel bellissimo pozzo dell’immaginazione e mi lanciai in un viaggio di visioni su me e lui a spasso per il mondo. Non aveva importanza che probabilmente, per ovvie ragioni, non avremmo potuto girare nemmeno l’angolo insieme, visto che era non felicemente coniugato, ma di certo avremmo girato il nostro mondo possibile in lungo e in largo e quando dico in lungo e in largo intendo, soprattutto, dentro di noi, dentro un mondo più grande del mondo intero, perché dove c’è la parte interiore, c’è di sicuro uno spazio più ampio e più pulito di quello che mostriamo all’esterno.

    Dopo la cena, da sola, girovagai ancora un po’ per la città, stanando all’aria aperta e tiepida che massaggiava la pelle, ogni quesito possibile e sentendo, tra una domanda e l’altra, che era come se stessimo già insieme.

    Prima di addormentarmi, baciai il sapore del primo bacio e mi chiesi se le sue labbra avrebbero tremato come quella voce che avevo sentito al telefono qualche ora prima.

    Di vibrazione in vibrazione mi addormentai come se fossi sospesa di due palmi dal materasso, confondendo i sogni con quel sogno che si stava avvicinando.

    IN ATTESA

    Quel senso di sospensione continuò: rimasi per più di una settimana in volo, ancora più scollegata da terra, prima che riuscissimo ad incontrarci.

    La percezione di questo scollamento mi era familiare, ma ora aveva triplicato la forza e mi aveva gettata in una sfera frizzante e languida al tempo stesso.

    La sua voce al telefono cominciava a essere meno incerta, i silenzi erano pieni: stavano costruendo il tragitto verso una sola direzione. Comunque, sempre di più sentivo quanto io fossi meglio accorsata di lui per un percorso ad alta quota, la paura era una costante del suo carattere: Outsider contro insider, cane sciolto contro girotondo in uno steccato. Il cane sciolto non avverte fantasmagorici pericoli e se lui ora, tirato da me, stava cominciando a imitare il comportamento di un cane sciolto, era solo grazie alla totale immersione nella sua sessualità.

    Non che non stesse inciampando nell’amore, ma piuttosto non era abituato a tanta abbondanza e profusione di emozioni, e, soprattutto, così all’improvviso.

    Mi stavo catapultando nella sua vita e lui mi stava vivendo come un uragano di cui non riusciva a seguire i vortici. Anche io ero nelle spire di una sorta di cataclisma naturale, ma ne ero consapevole, ne conoscevo l’entità, sapendo bene a cosa andassi incontro, lui no! Cominciava ad avvertirlo, ma non riusciva ancora a parlarci.

    Quell’attesa prima di incontrarlo fu per me una specie di lago di pace, appena smosso da una brezza lenta e costante che mi accarezzava. Per lui un tumulto, un’agitazione simile a quella di un toro cieco che il domatore ha costretto ad entrare nell’arena, senza fargli vedere dove sia il torero contro cui lanciarsi, ma solo incitandolo a sentirne l’odore.

    Dopo una settimana mi misi in viaggio verso Napoli, nostra città di origine.

    Il primo appuntamento partì battezzato da totale e assoluta incertezza:

    «Se posso vengo a prenderti!»

    «D’accordo!»

    «Ti faccio sapere…»

    Quando salii in treno

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