Piero Forlani
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Anteprima del libro
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Piero Forlani
I PRIGIONIERI DEL
CENTRO COMMERCIALE
A mia moglie Laura
la stella della mia vita
QUI SI MANGIANO CIPOLLE
No, la zia malata no! Tutto, ma non la zia malata!
Mi sentivo umiliato: anche nelle scuse esiste una gerarchia. Per le persone che interessano davvero si cerca di inventare qualcosa di inedito e credibile. A me era stata propinata la più banale.
Avevo conosciuto Irene a una cena con amici comuni. Non mi era per niente dispiaciuta, così avevo parlato a lungo con lei, scoprendo che condividevamo numerosi interessi. Prima di salutarci le chiesi il numero di telefono.
Non la chiamai subito l’indomani: avrei dimostrato troppa fretta. Attesi quindi due giorni, se avessi aspettato di più lei avrebbe fatto in tempo a dimenticarsi di me.
Iniziai la telefonata con una serie standard di convenevoli convogliandola, con una tattica magistrale, verso il vero scopo della chiamata: un appuntamento. Ovviamente non proposi una data precisa: sarebbe stato facile per lei dichiarare di avere già un impegno, ma le chiesi di uscire una sera qualsiasi della settimana a sua scelta (l’apparente esagerata mia disponibilità veniva in questo modo però compensata dalla difficoltà di reperire lì per lì sette motivi differenti per rifiutare).
Ci mettemmo d’accordo per giovedì sera: una pizza ed un giro per le birrerie dei Navigli. Niente di troppo complicato, ma ampio spazio alle chiacchiere e alla musica fino a tardi, allorché le donne diventano più vulnerabili.
Così giovedì sera stavo tornando dal lavoro, tutto contento pronto per andare a farmi una doccia e vestirmi di tutto punto, quando il telefonino squillò (si fa così per dire, in quanto il suo suono è la Marcia turca
di Mozart, roba da raffinati). Risposi e, quando sentii la voce di Irene, pensai: ci siamo, è andata buca! Infatti lei molto cortesemente si scusava di non poter uscire quella sera (e fin qui eravamo all’interno dei normali rapporti predatore-preda della nostra società) perché (e qui arrivò la doccia gelata metaforica che si sostituì a quella bollente reale che avevo in programma) le era giunta inaspettata la visita di una zia malata che non vedeva da tempo. Immediatamente mi sentii violentato nel più intimo del mio orgoglio: potevo io credere ad una scusa così sciatta? Chiusi in fretta la telefonata. Non avevo alcun dubbio: ero stato scaricato prima ancora di essere imbarcato. Una zia malata precludeva definitivamente qualsiasi ulteriore tentativo di approccio.
Fu con questo stato d’animo, fra il depresso e l’umiliato, che entrai nel piccolo supermercato sotto casa per prendere qualcosa per una cena solitaria e tristissima. Non so se fu per una specie di sordo desiderio di rivalsa o per un tentativo di superare tale stato d’animo con un tuffo nei ricordi infantili, che il mio occhio cadde sul sacchetto di cipolle. Da piccolo, mia madre le metteva sempre nelle insalate miste che erano la mia passione. Poi con l’adolescenza, e la conseguente necessità di mantenere i contatti sociali, avevo smesso di mangiarle. Ma in quel momento mi venne un fortissimo desiderio di mangiare un’insalata con le cipolle. Passai oltre col carrello, ma il mio pensiero ritornava fisso a quel sacchetto pieno di succulenti bulbi rosacei, dal sapore inconfondibile. Per la prima volta in vita mia compresi i desideri sfrenati delle donne incinte. D’altronde la mia serata sarebbe stata irrimediabilmente solitaria, avevo ben diritto di soddisfare una mia piccola voglia.
Acquistai il sacchetto, entrai in casa e mi preparai uno splendido insalatone come non ne avevo mangiato da anni. Insalatiera gigante, pane, bottiglia di birra, sul divano, televisore acceso. Insalata divorata, birra tracannata, reazione gastrica incontenibile. Marcia turca.
Risposi al telefono rintuzzando un rutto. Irene. Parlai tenendo la bocca lontana dalla cornetta: il mio alito era talmente pesante che temevo si trasmettesse via etere. Lei mi diceva che sua zia era già tornata a casa, e che era molto (e calcò la voce su quell’avverbio) disponibile per quel giro naviglioso già in programma. Lapidaria risposta: fra mezzora sono da te. Doccia frenetica, spazzolata di denti colossale al limite della lavanda gastrica e corsa in automobile per essere puntuale (la puntualità al primo appuntamento è fondamentale).
Ma già in macchina il sapore del dentifricio era andato scomparendo, sostituito dal ritorno dell’alito cipollente (o cipolloso, boh?). Cosa potevo fare? Passai in rassegna tutte le possibili ipotesi: mangiare un chewing-gum sarebbe stato maleducato: non potevo condurre una conversazione ai limiti del colto masticando continuamente la cicca. Tenermi lontano, respirare solo dal naso, parlare con la mano sulla bocca: erano tutti espedienti che potevano essere validi per la prima parte della serata. Ma poi? Quando saremmo giunti sotto casa sua, e io avrei spento il motore e l’incontro sarebbe stato estremamente ravvicinato? Cosa potevo fare? Tirarmi indietro? Mai! Farla diventare cianotica con un’alitata velenosa, che avrebbe reso quel primo bacio assolutamente indimenticabile, ma per tutt’altri motivi che quelli voluti? Non riuscivo a venir fuori da questa terribile situazione in cui la mia ingordigia mi aveva lasciato.
Farmacia aperta, frenata immediata, suoni di clacson vari. Entro a razzo. Manco a farlo apposta c’è una farmacista carinissima. Le chiedo se ha qualcosa contro il cattivo alito. Che vergogna! Mi fa veder un prodotto nuovo, quasi miracoloso: funziona con tutti i tipi di alito pesante, tranne che per aglio e cipolla. Lo compro imprecando la malasorte. Lo mastico, fa schifo e non serve a niente. Giuro che dedicherò il resto della mia vita alla ricerca di un farmaco che tolga il sapore di cipolla in bocca. Ma ora mi serve qualcosa di immediato.
Sono arrivato. Suono il campanello. Irene arriva: è splendida. Io mi tengo lontano. In macchina continuo a guidare attaccato al finestrino dalla mia parte. Lei mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite. Ogni tanto le sorrido. Limito la conversazione al minimo, mi fingo concentrato sulla guida. L’abitacolo della macchina è saturo, l’arbre magique puzza anch’esso di cipolla. Abbasso il finestrino. Fuori sono quaranta sotto zero. Irene non dice niente, si stringe nel giubbettino, tanto sexy quanto leggero.
Arrivati, parcheggio come un maiale di traverso sul marciapiede, l’importante è uscire dalla macchina. All’aria aperta la situazione è più facile. Entriamo in un locale. Musica brasiliana, birra irlandese, cameriere marocchino, proprietario pugliese. Aria fumosa, irrespirabile, l’ideale per me. Ma dopo un po’ Irene dice che c’è troppo fumo, che lei non lo sopporta. Andiamo in un altro locale: enoteca, musica celtica, vociare sommesso, tavolini molto intimi. Troppo, siamo vicinissimi. Dico che non mi piace quel tipo di musica. Cerchiamo del Jazz. Camminiamo per un po’ all’aria aperta. Mi tengo sempre più lontano da lei. Irene mi lancia certe occhiate che paiono dire: che serata del menga. Faccio la figura del frocio, ma sarebbe peggio la mia superfiatata alla Superciuk.
Visto che mantengo le distanze, è lei a prendere l’iniziativa. Mi prende sottobraccio. Mi accarezza la mano. Più esplicita di così non potrebbe essere. Fa freddo, si vede il fiato, in questo modo posso controllarlo e dirigerlo dove fa meno danno.
Poi lei si stringe un po’ di più. Io, dentro di me, piango dalla rabbia e intanto sostengo una conversazione con controllo di direzione di fiato che interessante più di tanto non può essere. Ma il fatto è che stiamo superando lo stadio delle parole. Irene dice che ha un po’ di fame, mi propone un locale New Age in cui fanno anche da mangiare. Accetto. Andiamo.
Atmosfera rarefatta, musica tibetana, bonzi che servono piattini con contenuti indefinibili e ciotoline con brodaglie immonde. Ci sediamo. Non si può ordinare: devi mangiare quello che ti danno. Irene sorride, si vede che lì è più a suo agio che negli altri locali. Non parla, i suoi occhi dicono molto. È bellissima, scintillante come una donna che vuole essere amata. E io sono lì, davanti a lei, pronto ad amarla: e fra di noi c’è una cipolla!
Il bonzo di Cinisello ci serve quelle pietanze inquietanti, con delle posate mai viste. Osservo Irene. Non voglio