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Inquietante delitto in Vaticano
Inquietante delitto in Vaticano
Inquietante delitto in Vaticano
E-book458 pagine6 ore

Inquietante delitto in Vaticano

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Info su questo ebook

Nelle catacombe di Roma si nasconde un assassino

Un'indagine del tenente Nicola Serra

Un misterioso assassino si aggira nei sotterranei di Roma

Roma, 2014. All’interno delle catacombe di Villa Ada viene ritrovato il corpo di una giovane donna straniera. A indagare sul caso è chiamato il tenente dei Carabinieri Nicola Serra, che ben presto si trova di fronte a un’inquietante scoperta: nonostante nessuno conoscesse l’esistenza di quelle catacombe, collegate ad altre tramite percorsi sotterranei, qualcuno entrava e usciva da lì. L’assassino è dunque in grado di muoversi in quei luoghi che un tempo furono rifugio per i cristiani? Le vie che Serra batte portano incredibilmente alle stanze vaticane… Mentre il tenente procede con l’inchiesta, Marion, la sua fidanzata francese, inizia un’indagine parallela. Ma l’assassino non si ferma a una sola vittima e nel suo delirio di onnipotenza pare seguire un macabro rituale di purificazione. Incastrarlo diviene ben presto una corsa contro il tempo…

Chi è il killer degli efferati omicidi nelle catacombe?

Le indagini parlano chiaro: sarà un bestseller

I commenti dei lettori:

«Chi come me ama i romanzi gialli non può non leggere e apprezzare questo libro. Chi non li predilige potrebbe fare un’eccezione e sono sicura che non si pentirà.»

«Storia ben congegnata in una Roma stupenda. Un museo a cielo aperto. I personaggi del libro sono davvero eccezionali.»
Flaminia P. Mancinelli
È nata a Roma e vive tra l’Italia e la Francia. Giornalista, appassionata di nuove tecnologie, con uno pseudonimo ha scritto La profezia della stella. Inquietante delitto in Vaticano ha riscosso un notevole successo su Amazon.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2016
ISBN9788822702821
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    Anteprima del libro

    Inquietante delitto in Vaticano - Flaminia P. Mancinelli

    Domenica 22 giugno

    Quella domenica Marion si era alzata prestissimo ed era corsa in cucina a preparare la colazione, compresi alcuni fragranti cornetti alla crema, ancora tiepidi di forno, che era andata a comprare. Sul vassoio con il quale era entrata in camera non aveva dimenticato un’abbondante tazza di caffè, molto zuccherato e con appena un po’ di latte, come piaceva a lui, e una spremuta di arance.

    Lo aveva guardato mangiare nel silenzio di quella mattina di festa, lasciando che lui si abituasse alla luce che filtrava dalla serranda, aspettando. Quando lui aveva finito di bere il caffè, solo allora, gli si era distesa accanto. Avevano fatto l’amore una prima volta, e lui non era riuscito a trattenersi più di tanto. Ma la seconda aveva indugiato ad accarezzare la sua pelle morbida, quasi setosa. Così il desiderio di Nicola si era unito dolcemente al piacere di lei, e Marion gli aveva risposto con passione, restandogli aggrappata ai fianchi, baciandolo e accarezzandolo sul collo, suscitandogli brividi che avevano percorso il suo corpo, come un’esplosione senza freni.

    Quando si era svegliato, Marion non era più con lui.

    L’aveva ritrovata in cucina, impegnata tra i fornelli e il tavolo, dove stava impastando qualcosa.

    «Cosa stai preparando?».

    Si era avvicinato a una pentola e l’aveva scoperchiata sperando di scoprire una delle pietanze. Ma c’era solo dell’acqua prossima a bollire.

    «Sorpresa! Se vuoi, hai tutto il tempo di andare a fare una doccia. Sarà pronto solo tra un’ora».

    In bagno spalancò la finestra e si affacciò sul davanzale inondato di sole. Il cielo completamente azzurro si perdeva all’orizzonte senza neppure una nuvola. Nicola si sporse a guardare in basso, sei piani sotto di lui, sul marciapiede. C’era solo un vecchio che camminava tenendo per mano una bambina di pochi anni; l’uomo portava un pacchetto, dall’aspetto doveva essere un vassoio di paste. Sorrise tra sé: la serenità della domenica.

    Una serenità che solo ora, grazie a Marion, anche lui sentiva. La storia tra di loro era appena agli inizi, eppure era già così importante, anzi lo era stata da subito. Si erano conosciuti durante una vacanza su un’isola greca. La stagione di quella loro vacanza, settembre inoltrato, era più adatta a un flirt che a una storia per la vita. Invece sulla spiaggia sassosa di Alonissos non avevano potuto fare a meno di parlare a lungo durante un aperitivo. Il giorno dopo Nicola aveva affittato una barca e gli era sembrato gentile invitarla per un giro.

    «Mi hanno detto che lungo la costa orientale dell’isola si vedono spesso nuotare i delfini. Vogliamo andarci?», le aveva proposto.

    Lei, regalandogli uno dei suoi primi sorrisi, gli aveva risposto: «Bien sûr… Ma è strano… a me hanno parlato delle foche monache. Comunque c’est la même chose: io adoro entrambi».

    Lei, oltre a essere seducente, era una donna molto ironica e sensibile. Non si erano più lasciati.

    La vacanza sull’isola greca era durata appena dieci giorni che però erano bastati a far capire a entrambi quanto l’uno significasse per l’altra. Molto.

    Alla fine però si erano dovuti salutare. Lei viveva a Parigi e stava lavorando a una pubblicazione che forse le avrebbe consentito di diventare assistente di un professore di Storia dell’arte alla Sorbona.

    Lui abitava a Roma. Appena rientrato, aveva cercato di chiamarla ma senza riuscirci. Quando aveva iniziato a pensare che Marion di sicuro lo avesse già dimenticato, lei gli aveva telefonato: «È più comodo se dall’aeroporto prendo il treno fino alla stazione Termini, o mi consigli un taxi? Mi devi dare un indirizzo comodo per te, mon petit Nicolà!».

    Era già a Fiumicino.

    Lui aveva chiesto un permesso al suo superiore, il capitano Giulio Corvetto, ed era corso a ridare un aspetto presentabile al suo appartamento. Marion arrivava per vivere con lui: non poteva esserci una diversa interpretazione.

    Ma quando lui le aveva mostrato gli spazi dove poteva mettere le sue cose, lei si era messa a ridere e baciandolo gli aveva detto: «Ma sei un po’ exagéré… esagerato, mon amour. Per una notte non devi fare la rivoluzione!».

    «Per una notte…», aveva ripetuto lui stupito.

    «Mais oui… Domattina ho appuntamento con l’impiegata di un’agenzia immobiliare, che ho trovato su Internet: ha tre locali in affitto da farmi vedere. E ce n’è uno che mi sembra perfetto!».

    Marion era a Roma, ma forse non solo per riprendere la loro storia. Nicola era deluso, aveva immaginato di trasformare quella relazione in una storia per la vita. I progetti di lei, invece, gli mostravano che era stato precipitoso, forse.

    Quando squillò il cellulare, Marion arrivò dalla cucina chiedendogli: «Ti preparo un caffè?».

    Nicola aprì gli occhi e ricordò, avevano pranzato e poi lui si era addormentato sul divano davanti alla televisione. Assentì con un cenno mentre la sua attenzione era rivolta al nome che compariva sullo schermo del cellulare: Prestigiacomo. Doveva essere accaduto qualcosa di grave. La comunicazione fu a intermittenza, con lunghe pause, consona alle abitudini espressive del maresciallo. Quando ebbe raccolto l’essenziale, Nicola Serra gli ordinò: «Vieni a prendermi. Dieci minuti e sono pronto».

    Bevve il caffè che Marion gli aveva portato.

    «Hanno trovato il cadavere di una donna in un parco pubblico. Ti chiamo più tardi», le disse facendosi il nodo alla cravatta. La baciò sulla porta, e si diresse verso l’ascensore con una piccola speranza: magari lei, alla fine, avrebbe anche potuto decidere di vivere con lui, nella sua casa.

    * * *

    La prima particolarità di quell’indagine, per Nicola Serra, fu trovare vicino al cancello di Villa Ada il suo superiore, il capitano Giulio Corvetto.

    «Buonasera, Serra. Temo che questa indagine ci creerà molti problemi», disse Corvetto, andandogli incontro e accompagnandolo verso un ampio prato, delimitato da una siepe.

    Nicola lo guardò interrogativo.

    «Si tratta di un delitto particolarmente efferato, ma oltretutto il luogo dov’è stato trovato il corpo non è una qualsiasi scena del crimine. Il cadavere è all’interno di una catacomba».

    «A Villa Ada ci sono delle catacombe? Non lo sapevo».

    «Vi sono i lucernari di diverse catacombe. Anche quelle di Santa Priscilla… Ma il punto è un altro: appena dieci minuti dopo aver avuto la segnalazione del delitto, ho ricevuto una telefonata dalla Santa Sede. Mi ha chiamato Laurent Touché, il segretario di monsignor Bertelli. Sua Eminenza era stato già informato del ritrovamento, e si raccomandava affinché l’accesso al luogo avvenisse nel rispetto della sua sacralità. Se qualcuno non si è fatto scrupolo di profanarlo, monsignore si aspetta che il sito torni al più presto alla condizione cui è destinato, mi ha detto Touché».

    Nicola avvertì nel tono del suo superiore una nota di fastidio. Certo non era piacevole ricevere suggerimenti da qualcuno estraneo al proprio ambito.

    Camminando avevano superato la siepe e si erano arrampicati lungo un sentiero che conduceva a una bassa collinetta. Oltre, Nicola Serra vide una schiera di colleghi e un avvallamento roccioso circoscritto da nastri che ne delimitavano l’accesso.

    «I colleghi del racis sono già scesi nella catacomba e stanno operando secondo procedura. A momenti dovrebbero arrivare sia il medico legale che il magistrato. La lascio lavorare, sono certo che riuscirà a sbrogliare questo caso nel modo migliore, tenente».

    Nicola si portò la mano alla visiera. «La terrò informato».

    Il capitano ricambiò il saluto e lo lasciò, tornando con passo veloce verso la sua auto.

    Il primo ad andargli incontro fu il maresciallo Giovanni Prestigiacomo che, nonostante i chili di troppo, attraversò il prato quasi di corsa per anticipargli le notizie di cui era in possesso. «Si prepari, signor tenente, perché là sotto c’è un puzzo insopportabile. Il cadavere deve esserci da parecchio. C’è già la scientifica e potrebbe evitare di scendere. Io sono andato a gettare un’occhiata, ma non è uno spettacolo piacevole».

    «Ma in che condizioni è la vittima? Siamo sicuri si tratti di un omicidio?».

    Il maresciallo Prestigiacomo lo guardò interdetto. «Io, purtroppo, non le so dire…».

    «Sì, è un omicidio. Non ci possono essere dubbi». Nicola Serra si voltò e incontrò il volto serio della sottotenente Sara Vittorini.

    «Buonasera, Vittorini. Prosegui…».

    La sottotenente estrasse un block notes dalla tasca della giacca e lo consultò per un attimo, poi riprese: «Quando sono arrivata, c’era il custode del parco, certo Vidillo Pasquale. Un tipo viscido. Non aveva visto niente. L’ho lasciato con l’appuntato De Cardo e sono scesa. Oltre la porta di ingresso, c’è una specie di scala, scavata nel tufo, che porta a un ampio andito. È lì il corpo».

    «Mi hanno parlato di una donna».

    «Sì, è una giovane donna, potrebbe avere vent’anni, ma le sue condizioni non mi permettono di affermarlo con certezza. La morte deve risalire a diversi giorni fa, forse anche più di una settimana e poi…».

    La giovane ufficiale si interruppe.

    «Vai avanti…».

    Il fisico atletico di Sara si irrigidì e lei riprese la sua esposizione. «Per quanto ho visto, credo che sul corpo della vittima si siano accaniti anche diversi animali. Insomma, signor tenente, è difficile dire con sicurezza la sua età. Comunque ci sono giù gli agenti del racis che potranno essere più precisi».

    «E hai potuto ispezionare il resto della catacomba?»

    «No. Ho visto solo che dallo slargo, dov’è il corpo, si aprono due gallerie. I colleghi del racis mi hanno impedito l’accesso per evitare di inquinare la scena. Potrebbero esserci degli elementi probatori da raccogliere».

    Nicola Serra si voltò a guardare il piccolo assembramento di civili e uomini in divisa, oltre il nastro di recinzione. Più lontano, il furgone bianco del racis. «Da chi è stata rinvenuta la vittima, dal custode?», chiese, riportando la sua attenzione sull’ingresso alla catacomba.

    Sara Vittorini scosse la testa. «No. È stato un ragazzino di dodici anni, che era qui con il suo cane», disse, indicandogli un adolescente seduto sul prato accanto a un grosso cane lupo.

    «Bene, andiamo a parlarci», concluse il tenente incamminandosi.

    Ma a pochi metri dal ragazzo, un uomo si parò loro davanti. «Vidillo Pasquale, sono il guardiano del parco di Villa Ada. Posso aiutarvi?».

    Serra scambiò un’occhiata veloce con la sottotenente Vittorini, e poi rivolto all’uomo disse: «Pensavo di parlare con lei più tardi, ma visto che è qui… Mi dica: è stato il ragazzo che ha trovato il corpo nella catacomba a chiamarla?»

    «No, signor capitano…».

    Serra lo interruppe: «Tenente, sono il tenente Nicola Serra».

    «Tenente… No, quello non m’ha detto niente, è una gatta morta. È stato il vostro arrivo… Insomma, le sirene delle auto e un agente che mi ha chiesto di aprire il cancello per permettere a un furgone di entrare. Allora ho capito che era successo qualcosa e sono venuto a vedere».

    Parlando il custode si era mosso verso l’avvallamento roccioso, mostrando al suo interlocutore una porta scardinata che pendeva, per metà divelta, da un’intelaiatura di legno fradicio.

    «È da lì che si scende nelle grotte…».

    Serra lo interruppe: «A me hanno parlato di catacombe».

    Pasquale Vidillo sorrise viscido: «Se fossero vere catacombe, forse qualcuno se ne sarebbe occupato, sono anni che stanno lì abbandonate. Una delle gallerie, mesi fa, è franata, ma non s’è visto nessuno… Non è una novità, è da sempre che è così».

    «Si spieghi meglio, signor Vidillo».

    L’uomo si passò la mano tra i radi capelli grigi: «Io sono il custode di Villa Ada da quasi venticinque anni: sono arrivato nel 1990, ma già allora nessuno era interessato a quelle che ora chiamano pomposamente le catacombe. E pensi che non c’è mica solo questa. Tutta Villa Ada è piena di gallerie, anche dentro la Villa Reale. Io le ho scoperte da solo, una dopo l’altra… Questa all’inizio era chiusa con un lucchetto. Un giorno, poi, qualcuno lo forzò e allora io scesi a vedere. È una di quelle meglio conservate, e secondo me arriva fino a quelle di Santa Priscilla». L’uomo sembrava aver concluso il suo racconto, ma poi, dopo essersi sfregato la fronte, riprese: «Ma alla mia povera moglie questa storia delle catacombe non è mai piaciuta, e mi pregò di interrompere le mie esplorazioni… Averle così vicino a casa le dava ansia. Come custode io ho diritto a un alloggio nel parco, ma lei non era contenta. Me lo ripeteva sempre: Se avessi saputo che c’era questo cimitero, non ci sarei venuta. Lei, povera donna, aveva una specie di sesto senso…».

    Nicola Serra si rese conto di non riuscire più a seguire le chiacchiere del Vidillo e con un gesto della mano lo fermò: «Rilasci la sua deposizione alla sottotenente Vittorini», disse e si allontanò per raggiungere il ragazzino che aveva trovato il cadavere.

    Il piccolo era di corporatura molto minuta. Aveva accanto il brigadiere Lamanica, e tratteneva a fatica il grosso cane lupo che strattonava il guinzaglio.

    Serra rivolto al brigadiere chiese: «Come si chiama? Quanti anni ha?».

    Ma il ragazzino fu più veloce del carabiniere, disse: «Mi chiamo Tano, Tano Sani. E ho dodici anni».

    Il tenente, sorridendogli, tese una mano verso il muso del cane, che la odorò e leccò con entusiasmo. «È un bel cane, come si chiama?»

    «Rex. E mio nonno dice che mi protegge meglio lui che un esercito di guardie del corpo!». Rise, mettendo in mostra una dentatura incerta.

    «L’hai chiamato come il cane di quel poliziotto della tv», osservò Serra.

    Tano accarezzò con orgoglio l’animale, che agitò la coda e rispose con un guaito alle sue attenzioni. «Il mio Rex è intelligente, pure più di quello!».

    «Ed è stato lui a trovare quella donna?».

    Tano fece un cenno affermativo con la testa.

    «Ma come ha fatto ad entrare? La porta non era chiusa?», insistette Serra.

    Tano scosse il capo con decisione: «No, signore, era aperta. E appena siamo arrivati qui, Rex si è precipitato nella catacomba. Io l’ho chiamato, ho fischiato e urlato, ma non mi ha dato retta. Allora sono sceso e l’ho trovato accucciato accanto a… quella».

    Serra riprese ad accarezzare il cane. «Ma oltre a te e a Rex, c’era qualcun altro qui intorno? Hai visto qualcuno?»

    «Era presto, signor tenente. La domenica a quell’ora sono tutti ancora a casa. Io per questo vengo presto: posso lasciare libero Rex senza che nessuno mi sgridi perché è senza guinzaglio».

    Serra riprese: «Ok, va bene. Ma ora torniamo a quello che è successo oggi: tu lo sapevi che quella era una catacomba».

    «Lo sanno tutti, signore… Quando io ero piccolo, con i miei compagni ci andavamo a chiacchierare e a prendere fresco. Poi uno scemo, Roberto, lo ha raccontato a sua madre e quella ha dato l’allarme a tutti i genitori. Così anch’io ho dovuto promettere a mio nonno che là sotto non ci mettevo più piede».

    «Nient’altro? Non hai toccato nulla, non ti sei spinto in giro, magari in uno di quei cunicoli? Sembra ce ne siano diversi».

    «Li conosco bene, ma oggi me la stavo facendo sotto e poi la puzza era tremenda…».

    «E dopo cos’hai fatto?»

    «Sono risalito e ho visto che era arrivata anche la signora Marta con Laika, la sua volpina. La sua casa è a un passo e le ho chiesto se poteva chiamare aiuto. E lei difatti è andata a chiamare i carabinieri, cioè voi».

    Serra si guardò intorno: «Qual è la signora Marta?».

    Il ragazzo si voltò verso il piccolo assembramento di persone. «Non c’è», rispose scuotendo la testa.

    «Dove abita?».

    Tano si alzò e indicò al tenente Serra una palazzina rosa appena oltre il muro di recinzione del parco. «Non so a che piano sta, ma quella è la sua casa».

    «Ok. Adesso la faccio cercare da un collega. Tu sei libero di andare via. Sono venuti a prenderti i tuoi genitori?».

    Tano chinò la testa.

    Serra si rivolse al maresciallo Prestigiacomo: «Perché nessuno si è preso la briga di avvisare i familiari del ragazzo? Devo dirvi tutto io?».

    Il graduato arrossì, si avvicinò a Serra e gli sussurrò: «C’ha detto che è orfano. Vive con il nonno che è molto anziano: era meglio non chiamarlo, poteva prendergli un colpo, tene’, e allora io ho pensato…».

    «Va bene, va bene così», lo interruppe brusco Nicola Serra che si voltò verso Tano. Il ragazzino non si era mosso. Il tenente gli mise una mano sulla spalla: «Scusami per i tuoi, non immaginavo».

    Il ragazzo sorrise tranquillo e gli rispose: «E di che si scusa, signore, mica sono morti per colpa sua! Ora posso andare?».

    Serra chiese a Prestigiacomo: «Abbiamo le sue generalità? Indirizzo, numero di telefono?»

    «Tutto fatto, tene’, stia tranquillo».

    «Allora fai accompagnare il ragazzo a casa», ordinò Serra. Poi, voltandosi verso Tano e consegnandogli il suo biglietto da visita, gli disse: «Se ti viene in mente qualcos’altro o se hai bisogno di parlarmi… chiamami, ok?».

    Tano, invece di rispondere, chiese: «Ma allora la multa non me la fa?»

    «Quale multa?»

    «Ho lasciato Rex senza guinzaglio».

    «Sono sicuro che le prossime volte te ne ricorderai tu, vero?».

    Tano scoppiò a ridere, una risata spensierata.

    La sottotenente Sara Vittorini stava ancora parlando con Pasquale Vidillo ma raccolse subito il cenno di richiamo di Nicola Serra e lo raggiunse all’ingresso della catacomba.

    «Ti ha detto qualcosa di utile?», le chiese il tenente, guardando l’uomo che nel frattempo si era acceso una sigaretta.

    «Qualcosa, sì: sembra che qualche giorno fa sia venuto un sacerdote per visitare proprio questa catacomba. Gli ha mostrato un permesso della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, una specie di ministero dell’apparato amministrativo del Vaticano».

    «Abbiamo il nome di questo sacerdote? E il permesso, possiamo vederlo?», chiese Serra, interessato.

    «Il Vidillo non si ricorda dove l’ha messo».

    «D’accordo, mentre io vado a vedere la vittima, tu lo accompagni a casa. Così lo aiuti a trovarlo. Intanto, di’ al sottotenente Caselli di andare a sentire la donna che ci ha telefonato. Si chiama Marta e vive in quella palazzina rosa», precisò Serra, indicando l’edificio appena oltre il muro di recinzione del parco.

    Il maresciallo Prestigiacomo li raggiunse. «Che vuole scendere, tene’?», gli domandò, con una smorfia.

    «Sì», rispose Serra, togliendo al collega la grossa torcia che aveva in mano e accendendola. «Il racis ormai dovrebbe essere a buon punto».

    Già a metà della scala, rozzamente scavata nel tufo, l’odore dolciastro della decomposizione assalì Nicola Serra. Scesi gli ultimi gradini, si trovò in un ampio andito illuminato come un set cinematografico dalle lampade alogene in dotazione al racis; in quello spazio stava operando una mezza dozzina di individui in tuta bianca.

    «È proprio come doveva essere nei tempi antichi, tene’, quando qui ci tenevano i morti freschi. Ci doveva essere la stessa puzza che sta facendo quella povera cristiana… Però chi ce l’ha messa doveva essere uno strano assai!», esclamò Prestigiacomo, dando libero sfogo alla sua parlantina.

    Nicola si limitò a chiedergli: «Perché Giovanni, cosa c’è di strano

    «Vedrà, vedrà lei stesso, signor tenente».

    Uno degli agenti del racis, spostandosi, permise a Nicola di scorgere il corpo della vittima. Si trattava della gamba sinistra della donna, allungata e distante dal busto. Il colore della pelle era grigio-verde e sembrava logorata, quasi corrosa. Con uno sforzo, Serra si avvicinò, fino ad avere una visione totale dei resti. Era una giovane donna e ciò che attirava subito l’attenzione erano i suoi lunghi capelli biondi, molto chiari, quasi bianchi. Ma si faceva fatica a stimare l’età di quel corpo martoriato sul quale erano evidenti i segni dei colpi inflitti dall’omicida; una serie ripetuta di tagli sul busto, che si concentravano soprattutto nel basso ventre, vicino al pube.

    «Ma secondo lei, tene’, è un’italiana? A me non mi sembra, forse…».

    Nicola lo interruppe ironico: «Cerca di non immedesimarti troppo nel commissario Montalbano, marescia’, e verifica invece se sulla scena sono stati repertati gli effetti personali della vittima. Per prima cosa dobbiamo identificarla».

    Liberatosi di Prestigiacomo, il tenente si avvicinò a un agente del racis che era chino sul cadavere, intento a inserire in un sacchetto di plastica la mano destra della vittima. L’aveva raccolta da terra, dove giaceva separata dal resto del corpo.

    «È l’atto di un maniaco? Sembra che l’assassino abbia infierito con ferocia sul corpo: mi corregga, se sbaglio», disse Serra.

    L’agente si voltò di scatto: si trattava di una donna di circa cinquant’anni.

    «Al momento, sono in grado di dirle solo che la vittima ha subito successive aggressioni, anche post mortem», gli rispose la donna, liberandosi della mascherina protettiva.

    «Sono il tenente Nicola Serra, incaricato delle indagini, Nucleo Operativo di piazza Mincio», si presentò, portandosi la mano alla visiera.

    «Sono il tenente Grazia Onori del racis, piacere di conoscerla. Ho sentito parlare molto bene di lei», si presentò a sua volta l’investigatrice mentre tornava a occuparsi di sigillare, con del nastro adesivo, il suo macabro pacchetto.

    Nicola, per un attimo, rimase stupito di quel commento lusinghiero. Ma tornò subito a concentrarsi sull’indagine: «Lei mi sta dicendo che si è trattato di una violenza che si è manifestata in momenti successivi?»

    «A un primo esame è evidente che vi è stata un’azione diretta che ha portato al decesso della donna. Dopo però il corpo è rimasto nella catacomba alla mercé di altri soggetti. Piccoli roditori, ma anche felini o cani randagi, forse… se erano affamati, non lo escluderei. Più di un animale, secondo me, ha colto l’opportunità di partecipare a questo banchetto inaspettato: ci sono segni evidenti di morsi. E manca la mano sinistra: forse uno degli animali più grossi, dopo essersene impossessato, è andato a consumarla lontano da qui».

    Nicola avvertì un fastidio alla bocca dello stomaco, ma continuò con le sue domande: «Potrebbe essere nelle gallerie adiacenti, le avete controllate?»

    «Sì, i miei ragazzi si sono inoltrati nelle diramazioni della catacomba, per capire se questa è la scena primaria del crimine o solo il luogo dell’abbandono. Ma la galleria più grande è ostruita da una frana. Non è un crollo recente, quindi l’hanno scartata. E nell’altra al momento non c’era nulla di rilevante».

    Grazia Onori mise il sacchetto con la mano in un contenitore a temperatura controllata. «Siamo in attesa dell’arrivo del medico legale, sembra sia bloccato su una consolare dal traffico del rientro a Roma».

    Già, si fermò a riflettere Nicola: era stata una splendida domenica di sole, l’ideale per una gita al mare. Ma alla collega chiese: «Quando saranno pronti i risultati dell’esame autoptico?»

    «Dopo l’accertamento del dottor Lusini il corpo sarà trasportato all’Istituto di medicina legale di piazzale del Verano per l’autopsia. Per il referto, credo, bisognerà aspettare domani. Tenga presente che, come di consueto, per gli esami istologici, invece, occorrerà più tempo».

    Lo sguardo di Nicola Serra si fermò sui capelli della vittima. «Quanti anni aveva? Quando è stata uccisa?»

    «Vent’anni, forse qualcosa di più. Ce lo saprà dire con esattezza l’anatomopatologo, dopo aver verificato lo sviluppo della cartilagine e dell’apparato osseo. Invece sul momento in cui è stata uccisa e sul luogo…».

    Serra la interruppe: «Non è questa la scena primaria?».

    La Onori si chinò a indicare l’incavo della coscia sinistra del cadavere, vicino a una profonda ferita. «Guardi questo taglio, e guardi anche gli altri: sono molti e profondi, eppure non abbiamo trovato tracce ematiche. È chiaro che il suo assassino dopo averla pugnalata ripetutamente, ne ha lavato con estrema cura il corpo… Ma qui non ci sono fonti d’acqua, e allora come ha fatto? Al momento, possiamo solo supporre che l’omicidio sia avvenuto altrove. Là l’aggressore deve aver anche lavato il corpo e, solo in seguito, l’ha trasportato qui».

    Nicola osservò le ferite che risaltavano sulla pelle del cadavere.

    «Prima deve averla strangolata, e solo dopo pugnalata».

    «Che necessità c’era, se la donna era già morta?»

    «Non so ancora risponderle, ma è normale a questo stadio dell’analisi. Nelle prossime ore il quadro si chiarirà e saremo in grado di capire cos’è successo».

    Nicola aveva un’ultima domanda: «Accanto al cadavere… o nelle immediate vicinanze non avete trovato oggetti personali o documenti?»

    «Il corpo era del tutto privo di abiti e immagino che in origine sia stato deposto sul lenzuolo che vede… Non abbiamo repertato né gli abiti della vittima né alcun oggetto personale. Tantomeno documenti».

    Serra si guardò intorno. «Ma il terreno della catacomba non potrebbe aver assorbito il sangue? Dallo stato di decomposizione del cadavere, desumo che l’omicidio risalga almeno a qualche giorno fa…».

    «In questo punto della catacomba ci sono una temperatura e un tasso di umidità che possono falsare ogni ipotesi, ma direi che si può azzardare almeno una settimana».

    «E in una settimana, il terreno non avrebbe potuto assorbire il sangue?»

    «Mi sembra difficile, ma dopo aver finito con il corpo ci occuperemo delle analisi del terreno. Ripeto, appare evidente che il cadavere è stato lavato in modo meticoloso: neanche nelle pieghe della pelle sembrano esserci residui ematici», disse Grazia Onori raccogliendo in una provetta un frammento imprecisato.

    Nicola Serra seguì la sua attività per qualche istante, prima di obiettare: «Sì, ma anche trasportare qui un corpo esanime… non mi sembra una manovra priva di rischi per l’assalitore. Di notte il parco è chiuso e di giorno poteva essere visto».

    «Ha ragione, Serra, terremo senz’altro conto delle sue osservazioni… Ma, come immagina, è ancora tutto da verificare. Qui sotto, al riparo da sguardi indiscreti, l’assalitore potrebbe aver avuto modo di operare indisturbato per giorni».

    Serra assentì con un cenno. «Con i miei uomini possiamo esserle d’aiuto?»

    «Al momento no».

    Serra si voltò a cercare Prestigiacomo, ma il maresciallo doveva essere andato via mentre lui parlava con la dottoressa del racis. Dopo aver salutato la Onori, risalì velocemente in superficie. Fuori fu abbagliato dal sole e dal profumo intenso dell’erba. Schermandosi gli occhi chiamò Prestigiacomo, che lo raggiunse al piccolo trotto.

    «Dov’eri andato a cacciarti, maresciallo?», gli chiese, riprendendo via via confidenza con il parco, il vociare della gente, il volo radente di alcuni rondoni.

    «Ero a controllare che nessuno oltrepassasse il nastro di recinzione, e…».

    «La Vittorini è tornata dalla casa del custode?», tagliò corto Serra.

    «Non l’ho vista, tene’. Ora mi accerto».

    «Altrimenti vai a cercarla. Ho bisogno di alcune precisazioni da quell’uomo».

    «Perché, tene’, lei pensa che quello c’entra qualcosa con il massacro della ragazza?»

    «Ecco, di nuovo la sindrome del commissario Montalbano… Le indagini da quanto sono iniziate, Giovanni?»

    «Un paio d’ore, signor tenente».

    «Bene, allora… diamoci tempo».

    «Vado a cercarle la Vittorini, signore».

    * * *

    La guida di Angelo Lamanica era tranquilla, come sempre. L’anziano brigadiere non aveva bisogno di strippare il motore. Dopo trentacinque anni di onorato servizio nell’Arma, ad attenderlo c’era solo il traguardo della pensione e il successivo ritorno al paese d’origine in provincia di Isernia. Unica nota stonata: i nipotini, che lui e sua moglie Elvira adoravano. I piccoli sarebbero rimasti a vivere nella capitale con le rispettive famiglie e avrebbero potuto vederli raramente, perlopiù nelle feste. Era la realtà e bisognava adeguarsi senza sognare l’impossibile, e Angelo Lamanica aveva uno sviluppato senso della realtà. Anche lo stile di guida rispecchiava il suo carattere e per riaccompagnare il signor tenente a casa, quella sera, avrebbe impiegato almeno mezz’ora. Un tempo adeguato affinché Nicola Serra potesse prendere le distanze da quel pomeriggio. La faccia ambigua del custode, il Vidillo Pasquale, e la parlantina sconclusionata del maresciallo Prestigiacomo, e non ultimo il visino delicato del piccolo Tano Sani. Ma su tutto predominava l’immagine del cadavere della donna uccisa.

    Il tenente Serra, difatti, era rimasto con i suoi pensieri nella catacomba di Villa Ada davanti al corpo senza vita della giovane vittima. Uno a uno continuava a rivedere i particolari della violenza che l’aveva uccisa, quella follia insensata. Di quel cadavere martoriato, gli tornavano in mente i capelli, così biondi da assomigliare a quelli di un bambino. Il resto – il colore innaturale della pelle, il corpo scomposto e smembrato, i segni delle ferite inferte – sembrava appartenere più al set di un film dell’orrore.

    Forse per cancellare quelle immagini, il giovane tenente si trovò a ricordare un altro corpo di donna: quello di Marion.

    Marion. C’erano sempre dei punti interrogativi nella sua relazione con lei, e quella sera la domanda era: l’avrebbe trovata ancora a casa?

    Uscendo dall’ascensore e avvicinandosi alla porta dell’appartamento Nicola cercò di non farsi illusioni. Sua madre glielo ripeteva sempre quando era piccolo, come una specie di mantra: non farti illusioni per non avere delusioni!

    Lasciando da parte le opinioni materne, infilò la chiave nella serratura, ma oltre la soglia lo raggiunse la musica della radio che dalla cucina si riversava in salotto. Trovò Marion, alle prese con un fascicolo di parole crociate, che canticchiava sulle note dei Queen: «We are the champions, We are the champions, No time for losers, Cause we are the champions…».

    Un’espressione sorpresa illuminò il viso della donna. «Non ti aspettavo così presto! Che bello che sei già a casa».

    Si chinò a baciarla, poi, liberandosi della cravatta, le sedette accanto.

    «Ora tu sei stanco e avrai fame, mon cher. Vai a toglierti la divisa, e vite vite la cena sarà subito in tavola. Così poi mi racconti per bene il tuo pomeriggio».

    Il racconto di Nicola iniziò con una riflessione ad alta voce: «Stavo pensando al tipo che ho incontrato oggi. Uno che fa la parte dell’ingenuo sprovveduto, del povero disgraziato, e invece mi sa che è solo un gran figlio di mignotta!».

    «È uno che hai conosciuto sul luogo del delitto?», chiese Marion, fattasi attenta.

    Nicola aveva finito i tortellini ma, invece di servirsi l’insalata che lei aveva messo in tavola, si alzò per prendersi un amaro.

    «È un sospettato?», insisté la donna.

    «No, per ora è solo una persona informata sui fatti: siamo appena alle prime battute, è troppo presto per stringergli la rete attorno, e lui è uno furbo!», le spiegò mentre si versava il digestivo in un bicchierino di cristallo.

    «Non hai più fame?», gli domandò Marion.

    «No, grazie. Io sto bene così».

    Anche Marion si alzò. «Allora andiamo in salotto, allons-y… Così mi racconti il resto».

    «È un tipo davvero strano. Ha una facciata, ben costruita, ma si capisce che ne nasconde molte altre», le precisò Nicola, sedendosi sul divano. «Si chiama Pasquale Vidillo, è il custode di Villa Ada. In sostanza, è quello che si occupa della manutenzione ordinaria del parco».

    «Ma perché non ti piace?», chiese Marion, sedendosi nella poltrona di fronte a lui.

    «Non c’è una ragione precisa. Non mi piace… a pelle! La sottotenente Sara Vittorini lo ha accompagnato a casa per un documento che volevamo controllare e mi ha detto che sembra l’antro di un animale: è tutto sporco e in disordine».

    «È lui che ha trovato il corpo?»

    «No. Il cane lupo di un ragazzino».

    «E tu l’hai interrogato questo custode?»

    «Sì, certo. Ma non mi ha detto nulla di utile, e alla fine l’ho scaricato alla Vittorini».

    «Ed è brava la sottotenente?»

    «È una molto risoluta. Una donna decisa, che non si ferma davanti a niente».

    «Oh, allora mi piace, me la devi far conoscere!», esclamò Marion con entusiasmo. «Nel tuo gruppo è interessante che ci sia anche una donna, non è frequente in Italia».

    «Le cose stanno cambiando, anche da noi… Lei è arrivata solo da poche settimane», precisò, bevendo ancora un sorso. «E neanch’io la conosco ancora molto bene».

    «Allora una sera la invitiamo a cena, lei e il suo compagno».

    «Vedremo, non sono ancora entrato in confidenza con lei; potrebbe sembrare una forzatura».

    Nicola Serra si interruppe, si alzò e andò ad accendere lo stereo. Scelse un cd di cool jazz.

    «E la tua collega, cos’ha scoperto sul custode?»

    «Su di lui ancora nulla, ma è riuscita ad avere un paio di notizie interessanti. Anzi, una di queste potrebbe rivelarsi un’informazione passe-partout!».

    Di seguito le aveva fatto un racconto dettagliato delle prime ore di quell’indagine, quasi un modo per riesaminarle lui stesso. A Nicola sembrò di avere ancora poco su cui costruire un’ipotesi investigativa, e la reazione di Marion, quindi, lo colse impreparato.

    «Due notizie che sono una lo specchio dell’altra… Voilà la soluzione: il Vaticano è implicato nel tuo delitto, cheri! C’est évident…».

    Nicola reagì con un debole sorriso. Era stanco ma Marion non sembrava essersene accorta: l’aveva seguito con interesse, interrompendolo più e più volte, per conoscere ogni particolare.

    Quando lui le aveva spiegato che le catacombe dipendevano dal Vaticano ovvero dalla Pontificia Commissione per l’Archeologia Sacra, lei aveva reagito con stupore: «Ma… ce n’est pas possible!… tu stai scherzando, Nicolà, non è possibile che sia il Vaticano a comandare sui ritrovamenti archeologici a Roma».

    «Ho chiesto alla Vittorini di informarsi bene, ma credo che la regola – quello che tu chiami comandare – riguardi tutte le catacombe in territorio italiano».

    «Toute l’Italie? Mais c’est vraiment fou!».

    «No, invece, credo sia ovvio: si tratta dei primi cimiteri cristiani. In molti di questi sono stati sepolti i martiri delle persecuzioni romane. E quindi sono luoghi sacri, di cui è normale si occupi la Chiesa».

    Marion si zittì, ma solo per qualche istante. Stava riflettendo. Quindi osservò: «Guarda caso, tutti – anche la Pontificia – si dimenticano di questa catacomba. La lasciano andare in rovina per anni… Giusto?».

    Nicola si limitò a un cenno di assenso.

    «Poi un giorno arriva un prete per fare un’ispezione alla catacomba… e dopo poco, guarda che combinazione, in quella stessa catacomba viene trovata una donna assassinata… Tu puoi pensare quello che vuoi, mon amour, ma in questo delitto… il y a l’ombre du Vatican!».

    «L’ombra del Vaticano?»

    «Ça va sans dire…».

    * * *

    Erano quasi le dieci di sera, quando il cancello di Villa Ada si aprì con un acuto cigolio.

    I due carabinieri appostati di pattuglia si diedero di gomito l’un l’altro.

    «Marcello, lo vedi?»

    «Sì, mi sembra il guardiano, ma non sono sicuro».

    L’ombra di un uomo

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