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Era mia madre
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E-book344 pagine5 ore

Era mia madre

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Info su questo ebook

Fabio è in procinto di partire in viaggio con moglie e figlia al seguito. Saluta la madre che versa in condizioni di salute precarie, legata alla bombola dell'ossigeno da anni, particolarmente stremata ed afflitta. Arrivato a destinazione, trascorre una giornata in pieno relax, ma una telefonata in piena notte lo scuote: la madre si è spenta improvvisamente. Oltre al dolore, forti rimorsi di coscienza lo assalgono. Di ritorno a casa, rivede sconvolto la madre sul letto di morte. Trascorre la notte successiva nella casa materna e sente una serie di strani rumori che gli fanno avvertire i passi della madre nell'abitazione.

Col passare dei giorni, Fabio ritrova gran parte dello spirito ed intraprendenza che aveva perso, spinto proprio dalla presenza occulta della madre che lo guida in ogni sua azione, infondendogli sicurezza e creatività. Fino al punto di cavalcare vecchi sogni, come la scrittura di romanzi e a diventare uno scrittore di successo. Spinto dal sostegno di un misterioso editore americano, che lo nomina responsabile della filiale a Milano della casa editrice americana, Fabio si dedica completamente alla nuova attività, trascurando però col tempo sempre più la famiglia.

Nell'Aprile del 2023 esamina una proposta editoriale: la storia autobiografica di una donna che, profondamente delusa dal marito, è quasi decisa a lasciarlo e sta frequentando un altro uomo. Leggendo l'opera, Fabio capisce che le vicende lo riguardano in prima persona: il libro è stato scritto da sua moglie Laura sotto mentite spoglie!

Sconvolto, si troverà di fronte ad un bivio: scegliere tra le ambizioni lavorative ed il ritorno ad una vita familiare serena. Con il timore che sia troppo tardi…
LinguaItaliano
Data di uscita5 feb 2020
ISBN9788831655170
Era mia madre

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    Anteprima del libro

    Era mia madre - Gianni Brandi

    sempre.

    CAPITOLO I

    «Mamma, noi partiamo, stammi bene». Saluto mia madre, seduta con l’aria stanca e spossata nella cucina di casa sua, attaccata all’immancabile bomboletta dell’ossigeno. Muove lentamente le palpebre. Una pallida luce solare filtra sul suo viso, quasi a volerla destare dopo tanto struggimento. Abbozza un faticoso respiro. China il capo quasi in segno di resa, conscia dei suoi annosi mali. Dal naso di colpo trabocca l’inquietante mascherina, privandole del tanto agognato ossigeno.

    Rantola. Quasi incredula rimette nelle narici il suo congegno salva- vita. Rialza il capo. Apre il palato: la giallastra dentiera che lascia i segni del tempo leggermente si divincola dai ganci dentari e la sua voce d’improvviso diventa rauca e gutturale.

    Lentamente si ricompone. Poggia la mano destra sull’orlo della tazza ancora sporca di orzo solubile e l’altra mano sulla tavola semi-imbandita per la colazione, quasi in cerca di un’ancora di salvataggio.

    Non una leggiadra visione dinanzi a miei occhi, eppure ne son ormai avvezzo. Ogni giorno più volte le faccio visita. Abito con mia moglie e mia figlia in un grazioso attico al terzo piano del fabbricato. All’esterno il Vesuvio in primo piano di fronte sembra osservar durante il dì tutti i nostri movimenti. La veduta è tanto suggestiva quanto malinconica, specie al crepuscolo, quando nidi di corvi si svuotano e gli uccelli svolazzano beatamente intorno agli alberi. Siamo in procinto di partire per una mini vacanza con destinazione Chianciano Terme. Tra due giorni, il 16 Dicembre 2015, ricorre il quarantesimo compleanno di Laura, mia moglie.

    Eravamo incerti fino all’ultimo sulla destinazione. Laura anelava ad un viaggio in Umbria, a Gubbio, allettata dalla suggestiva atmosfera natalizia del luogo e memore del soggiorno di cinque anni fa, quando era incinta di quattro mesi ed in una confortevole struttura alberghiera festeggiammo il suo trentacinquesimo compleanno. L’esperienza, nonostante i limiti fisiologici di mia moglie, fu molto piacevole.

    Il caratteristico albero di Natale che, come ogni anno, scendeva dal monte con l’effetto delle luci incastonate sui pendii, fece da ammaliante attrattiva. Molto suggestivi pure i presepi con i maestosi personaggi che giacevano sulle strade dei borghi cittadini. All’epoca un manto nevoso ricopriva i viottoli e parte delle abitazioni, rendendo il tutto decisamente romantico.

    Mesi fa anche l’idea di un romantico viaggio a Parigi ci balenò per la mente, ma fummo poi dissuasi dai crudeli attentati del 13 Novembre 2015. Abbiamo alla fine optato per Chianciano, cullati dai bei ricordi del Capodanno trascorso cinque anni fa, anche per il maggior agio del percorso stradale. Nell’ultimo periodo, poi, le condizioni di salute di mia madre sono state a dir poco altalenanti. Già in preda agli acciacchi, una caduta in piena notte di due mesi fa le ha lasciato il segno. Ad Ottobre si è accasciata sul pavimento del corridoio di casa nel maldestro tentativo di soccorrere mio padre, anche lui steso per terra.

    Come se fosse davvero in grado di aiutarlo. D’altronde la generosità di mia madre è sempre stata resistente ai suoi mali. Anche nelle sue sofferenze si è sempre prodigata per noi familiari. Afflitta da oltre quindici anni da un’orrenda malattia, la broncopneumopatia cronica ostruttiva, convive con l’inquietante apparecchiatura dell’ossigeno per quasi l’intero arco della giornata. Ha ormai imparato a tollerarla, ma da qualche giorno accusa persistenti crisi respiratorie, intollerabili anche per lei. Una bombardante miscela di antibiotici e cortisonici a fiale invade il suo corpo cagionandole perniciosi effetti collaterali, quali l’aritmia e l’innalzamento della glicemia, due giorni fa schizzata fino a 300.

    Sono io a controllarle quotidianamente i valori glicemici con un apposito apparecchio domestico, non avendo i suoi conviventi, mio padre e mia zia, alcuna dimestichezza con lo strumento. Ed è per questo che la mia assenza, anche se temporanea, la lascia sovente nel panico.

    Lei, celando momentaneamente i suoi malesseri, con una tenera espressione da bambina esterna il suo stupore: «Ma non dovevi partire stasera?».

    «Veramente ti avevo detto che sarei partito stamattina, mamma», le rispondo. Non mi allarmo più di tanto. Da qualche giorno alterna momenti di lucidità ad altri di appannamento. Saranno tutti i medicinali che prende. Un elenco interminabile! E uno scaffale nel bagno che sembra il deposito di una farmacia. D’altronde lei è stata sempre, per così dire, ipocondriaca, anche prima della terribile BPCO.

    Ha sempre abusato di farmaci, non ricordo mai di averle sentito dire: Oggi mi sento proprio bene.

    Con aria corrucciata rivolge poi la parola a mia moglie: «Laura, volevo farti un regalo per il compleanno, ma non sono stata bene. Volevo darti almeno dei soldi. Spero quando tornate».

    Laura la fissa attonita, imbarazzata, ma riesce a mantenere un tono pacato: «Non preoccupatevi, pensate a stare bene. Quando torniamo, con calma».

    Mia madre, ancora pensosa, mi fissa con un’aria commiserevole che gradualmente si incupisce. Lasciando forse volare a mille i suoi battiti cardiaci già particolarmente accentuati, esclama poi in tono lapidario: «Fabio, chissà se quando torni mi rivedrai». Tali parole raggelerebbero chiunque, non me però. Le ha pronunciate tante di quelle volte…

    Oltre quindici anni fa uscì dal tunnel della rianimazione quando la davano quasi tutti per spacciata. In due ospedali diversi. Prima a Scafati, dove implorò i medici di farmi entrare. «Fabio, Fabio… Voglio vederlo», disse ansimante ai sanitari, che accolsero la sua disperata richiesta. A vederla tremante col tubo dell’ossigeno in bocca, uno shock emotivo stava quasi per assalirmi. Cercai di non farlo trapelare.

    Lei cercava disperatamente aiuto, fissandomi come fossi un angelo custode. E sembrava un agnello in procinto di essere sbranato da un branco di lupi. A stento riuscii a percepire la sua voce. Capii il senso delle sue parole solo osservandone i gesti.

    M’indicò l’angosciante tubo respiratorio con l’espressione indifesa tipica di un bambino lasciato solo in sala operatoria. Era il suo modo per chiedermi: Perché mi hanno fatto questo?. Celai in parte la mia inquietudine e per confortarla le dissi mentendo: «Mamma, è per ragioni di sicurezza, non preoccuparti, è solo per poco tempo. I medici hanno detto che le tue condizioni sono in miglioramento».

    Accolse con fiducia le mie parole, lasciandosi forse rassicurare dal mio sguardo protettivo. Fu poi dimessa da Scafati e portata al nuovo Policlinico di Napoli, sempre nel reparto rianimazione. Riuscimmo per una decina di giorni a vederla, osservandone movimenti, attraverso i monitor ubicati nella sala d’attesa. Io, mio padre, mio fratello e mia zia Mena, per incoraggiarla le facemmo più volte recapitare dei bigliettini con sopra scritto: Reagisci per noi, ti vogliamo bene, ti siamo vicini, ce la farai. Attraverso le telecamere notavamo che li leggeva commossi.

    Un giorno convinsi faticosamente la guardia giurata a farmi entrare per parlarle da vicino, violando il rigido regolamento del reparto. Era una calda giornata di inizio giugno, col sudore che mi grondava dalla fronte, ma, non appena vidi la sala rianimazione affollata di moribondi, intirizzii. Lei, sorpresa dalla mia visita, mi salutò commossa ed io altrettanto, forse di più. «Mamma, abbi coraggio, ce la farai, ne sono certo», le dissi fiducioso.

    Sembrava aver preso dimestichezza con l’ambiente. Si era perfino abituata al tubo dell’ossigeno. E si era quasi consolata nel guardare gli altri pazienti che giacevano in fin di vita a qualche metro da lei, forse pensando: In fondo c’è chi sta peggio di me. Per farla rallegrare le diedi poi una notizia alquanto lieta: «Lo sai che ho avuto l’esenzione dal servizio militare?»

    Era una sua assillante preoccupazione, strano a dirsi. Avevo fatto richiesta di servizio civile come obbiettore di coscienza, non sapevo però dove mi avrebbero spedito. L’idea di tenermi lontano per circa un anno non le andava proprio giù. E lei, con una risposta che mi rimarrà per sempre impressa nella mente: «Figlio mio, come sono contenta. Non fa niente che sto in queste condizioni…»

    Come? Non fa niente?! Viveva le pene dell’inferno ed era contenta per me! Un altro brivido attraversò fulmineo tutto il mio corpo. Furono proprio quei drammatici momenti a farmi capire la futilità delle nostre discussioni, corbellerie mosse da stupidi orgogli personali. Lei pensava solo al mio bene, mi assillava talora, ma in buona fede. E come tutte le mamme ha sempre voluto, fin tanto a pretenderlo, l’affetto da parte dei figli. In quei giorni un’altra lieta notizia alleviò le sue sofferenze: seppe che mia cognata aspettava un figlio, il suo primo nipotino.

    Non le sembrava vero. Pianse, attonita, traendo ulteriori stimoli per reagire. Il destino poi volle che fosse femmina ed otto mesi dopo nacque col nome di Annalisa, quello di mia madre.

    L’incredibile fede cristiana della mia genitrice contribuì a farle superare la più tribolata fase della sua vita. Lei, da sempre devotissima alla madonna di Pompei e Padre Pio, ha sempre portato con sé le immaginette dei santi, che le davano, e le danno tuttora, una grandissima forza spirituale.

    In questi lunghi quindici anni altre asfissianti fasi di crisi respiratorie l’hanno accompagnata, ma ne è sempre uscita, pur nelle sue annose sofferenze. La sua forza e voglia di vivere le hanno fatto assistere alla crescita dei figli di mio fratello, al mio matrimonio, alla nascita e primi passi un’altra nipote, mia figlia, nonché alle comunioni dei rampolli di mio fratello. Dopo tutto quello che ha superato, ti illudi che possa oltrepassare ogni sventura e che sia quasi immortale.

    È per questo che le parole Chissà se mi rivedrai, ancorché ripetitive, trasudano egocentrismo materno più che straziante agonia. Preso da un attimo di nervosismo, stupidamente le rispondo a tono: «Può darsi che muoio prima io».

    Tace, di nuovo intorpidita. La sorella che le sta accanto saggiamente mi riprende: «Fabio, non dire così. Noi non vogliamo il male di nessuno, tanto meno il tuo. Meglio che moriamo noi».

    Zia Mena, nubile per sua scelta, ha superato i 70 anni, ma portati bene. Bassina con capelli biondi, vive da anni a casa di mia mamma, condividendo gran parte delle sue sofferenze, anche se spesso per esasperazione battibecca con lei. In questi anni le è stata molto vicina, occupandosi di tutte le faccende domestiche e standole accanto nei momenti più bui.

    La fisso per qualche istante e mi lascio intenerire dalla sua mesta espressione. «Scusa, zia, capiscimi. Laura tra due giorni compie 40 anni e noi avevamo già prenotato l’albergo. E poi non credo che le condizioni di salute di mamma siano più gravi del solito» le sussurro in disparte.

    Abbassa lo sguardo poco convinta e proferisce esausta: «Fabio, non hai idea di quello che sto passando. Tua mamma sta giù, molto giù». E, dopo un attimo di pausa: «Sta sempre a lamentarsi e quando non si lamenta si mette a dormire. In tutte le ore del giorno. Forse dovremmo portarla in ospedale».

    «No, zia Mena, non mi sembra il caso. Di questi periodi, sotto Natale… Vuoi davvero farle trascorrere le feste natalizie in ospedale? La faresti solo affliggere».

    Rimane scettica, sentendo forse sulle sue spalle tutto il peso di una decisione a dir poco tormentata. Conclude lo scambio di opinioni con un titubante: «Speriamo bene. Non vorrei pentirmene…» nel mentre agita nervosamente un piccolo straccio adoperato per pulire il top della cucina. Mia madre osserva i nostri gesti e labiali, piuttosto turbata, ma senza interferire.

    Passa qualche attimo e zia Mena volge lo sguardo verso mia figlia: «Sofia, ci dai un bacio?». La piccola, impressionata forse dalla pesante atmosfera, è però da qualche mese restia a dar loro l’affetto che desiderano.

    Mia madre e la sorella guardano alquanto infastidite, mentre noi corriamo a salutare mio padre, anche lui in preda agli acciacchi. È malato da anni di diabete, che gli ha portato altri mali, quali una neuropatia cronica con notevoli difficoltà nella deambulazione e la demenza senile allo stato iniziale.

    Sta seduto nel confortevole soggiorno cimentandosi col suo consueto cruciverba appoggiato su un tavolo quadrato color ciliegio. Rappresenta ormai l’unica sua distrazione e gli tiene costantemente allenato il cervello. Un buffo berretto marrone ricopre la sua chioma biancastra. Mia figlia glielo sfila per diletto. Lui, dapprima infastidito, abbozza un sorriso, la carezza e ricambia cordialmente il saluto. Negli ultimi periodi non è di molte parole, a differenza della moglie, che le spende, però, quasi sempre per discorrere di malattie.

    In prossimità dell’uscio, odo un assordante rumore proveniente dalla cucina. Mia madre è alle prese ora con l’apparecchio di aerosol, come suole fare da quindici anni per ben quattro volte al giorno. Una nube di fumo circonda il suo affaticato viso. Incrocia di sfuggita nuovamente il mio sguardo. Una lacrima discende dalle sue pupille. Indugio. Ho appena il tempo di sussurrare un esitante: «Mamma» che esterna una richiesta di perdono, comprensione, quando sento una voce esclamare: «Scendiamo, Fabio, è tardi». È quella di mia moglie.

    Scendo titubante le scale. Laura mi fissa in volto, affermando, forse cinicamente: «Che scena patetica quella di tua madre». Un attimo di confusione attraversa la mia mente: E se non fosse la sua solita scena di autocommiserazione? Se mia madre stesse particolarmente male, stavolta? È giusto partire in queste condizioni?

    Ma è tutto pronto: ho caricato ieri sera anche l’auto di ingombranti bagagli. Poi la bambina ci rimarrebbe male. Per non dire mia moglie…

    Giunto al primo piano, incrocio mio fratello Lorenzo, di qualche anno più grande. Un patente stato d’ansia trapela dal suo viso scosso e frastornato, coinvolgendomi d’acchito. Pavido per la sua probabile reazione, lo informo laconicamente della mia partenza. Con aria seccata e senza remore alcune mi redarguisce: «Tua mamma sta in queste condizioni e te ne vai?».

    Accolgo con mal celato broncio la sua reazione, ma riesco per fortuna a trattenermi: «Non ti rispondo per educazione». E questo davanti a sua moglie, che gli fa cenno di desistere da vane discussioni. Legati da quasi vent’anni anche da rapporti di lavoro, entrambi avvocati, io e Lorenzo abbiamo lo studio proprio al primo piano del palazzo. E le discussioni, specie da quando c’è la crisi, sono all’ordine del giorno.

    Acquietatomi in parte, assumo poi un tono più indulgente: «Lorenzo, scusami se non ti ho comunicato la mia partenza in anticipo. Ma ero indeciso fino all’ultimo. E ho tuttora delle remore».

    E, dopo una pausa di riflessione: «Capisco la tua agitazione, ma starò fuori soltanto per qualche giorno. Giovedì torno. In fondo mamma ha superato delle fasi peggiori». Cambiando poi discorso: «Non mi sembra che ci siano scadenze imminenti né udienze, vero?»

    Cala lo sguardo verso il basso e poggia la mano destra nei suoi folti capelli neri, sollevando un leggero strato di forfora. Ancora infastidito, sbuffa leggermente, affermando: «Non ci sono cause, però dovresti preparare dei ricorsi e delle comparse per la settimana prossima. Ce la fai poi a scriverli in pochi giorni?».

    «Di che si tratta, mi fai vedere?».

    Entriamo nello studio. Una montagna di fascicoli è accatastata sulla mia scrivania, senza nessun ordine logico. Una serie di scarabocchi quasi illeggibili sui frontespizi indicano i rinvii e le fasi delle cause. Codici e commentari spiegati sembrano in trepidante attesa di essere analizzati e riletti. Esamino velocemente le pratiche ed i documenti relativi agli atti da redigere. Accidenti, mi ero proprio dimenticato delle scadenze, penso, la situazione di mia madre mi ha mandato proprio in tilt. Posso mica mettermi a lavorare adesso?.

    Sia pur ansimato, cerco di mostrami sereno: «Non preoccuparti, Lorenzo. Non ci metterò molto a preparare gli atti. Tu pensa a mamma, piuttosto. Stalle vicino, mi raccomando». Annuisce, non riuscendo però a celare il suo disappunto e le angoscianti preoccupazioni per le sorti della nostra comune genitrice.

    Scendo un altro piano e giungo finalmente alla macchina ferma in sosta nel portone. Possiamo finalmente sistemarci nella vettura. Di fianco a me, seduta al lato passeggero, la nostra gatta persiana, adagiata in una gabbia, mi fissa con i suoi splendidi occhi azzurrini. Si chiama Sissy, ma mia figlia per diletto l’ha sempre chiamata Titta. Ha superato i 7 anni, la bianca felina, ed è ormai abituata ai viaggi, anche ben più lunghi. Ormai giace nella gabbia quasi fosse una culla, abbozzando giusto qualche isolato miagolio.

    Sono le 10.30 circa, quando l’accensione del motore dell’auto mi appare come una fuga da Alcatraz.

    Qualche scrupolo mi è rimasto, però: dal volto di mia madre trapelava tanto strazio e sconforto, come se non avesse più voglia di lottare. Eppure come per inerzia confido che si riprenderà. Imbocchiamo l’autostrada del sole in direzione nord. La giornata è tiepida, seppur invernale, con un sole affievolito da una digradante foschia. Questo mese di dicembre è, come raramente accade, finora mite e siccitoso. Follie del tempo: il riscaldamento globale sembra mutare animi e stagioni.

    Dopo oltre mezz’ora di viaggio, una coltre di nebbia, prima soffusa e poi sempre più fitta, si imbatte sul tratto autostradale tra Caianello e Frosinone. E la nebbia filtra anche tra la mia mente. La tensione accumulata m’impedisce di avere la dovuta calma e lucidità: evito per un soffio, con brusche frenate, l’impatto con altri veicoli che mi precedono. Laura e Sofia assistono dal lato posteriore attonite, impaurite, esortandomi invano a fermare l’auto. La visibilità poi gradualmente migliora ed il viaggio prosegue senza intralci né imprevisti. Dopo aver superato la diramazione Roma Nord, bisogni fisiologici di mia moglie e mia figlia inducono però a fermarci.

    Io, immobile nell’auto ad aspettare, penso nuovamente: Chissà se ho fatto bene a partire. Mi viene più volte l’istinto di digitare sulla tastiera del cellulare il numero di mia madre, ma non ne ho il coraggio. Non mi va di sorbirmi le sue lamentele né quelle di zia Mena. E di esser tacciato per uno strafottente. Certo, non sono un mammone, ma, sia pur a volte nell’insofferenza, l’ho sempre tenuta in debita considerazione.

    Le faccio visita tutti giorni e quando posso l’accompagno dappertutto, specie per controlli medici, che diventano col tempo sempre più frequenti e seccanti. Ma per lei non è abbastanza, vorrebbe che stessi ore intere al suo fianco. Forse meriterebbe maggiori attenzioni, specie adesso?.

    Sarà, ma non riesco proprio ad accontentarla. Probabilmente non se ne rende conto, ma sta continuamente ad affliggermi con i suoi malesseri. Dovrebbe capirlo: non sono più un bambino, ho la mia vita, che è già di per sé complicata. I miei annosi pensieri vengono interrotti dal rientro di mia moglie e mia figlia in auto. Riparto celermente. Il viaggio prosegue ora con traffico scorrevole: d’altronde è lunedì, il fine settimana è alle spalle. Arriviamo, dopo poco più di tre ore di viaggio, al casello di Chiusi-Chianciano Terme. La confusione mentale è tale che non riesco a trovare il biglietto d’entrata. Noto, controllando sul cruscotto, tanti oggetti poggiati alla rinfusa: chiavi di casa, cellulari, carica-batterie portatili.

    Si frappongono dinanzi alla mia visuale anche dei dépliant informativi, leggermente stropicciati, ad ostacolare la mia ricerca, nel mentre sento il suono, dapprima soffuso e poi sempre più persistente, dei clacson degli automobilisti spazientiti per l’attesa.

    Rovisto nervosamente poi nel disordine e noto un minuscolo porcello bianco di peluche di mia figlia. Lo sollevo quasi divertito e rinvengo il biglietto. Lo poggio sul palmo della mano sinistra e guardo per un istante la scritta indicante il luogo di entrata del casello autostradale. Mi riporta con la mente alla zona in cui vivo e dove sono cresciuto, ai tanti anni trascorsi con miei genitori. E alle sensazioni di stamani, all’immagine di mia madre logora, stremata, quasi senza stimoli, desiderosa d’aiuto. Sento quasi di aver abbandonato una nave che stava affondando e di esser in prossimità del porto più sicuro, almeno per me. Inserisco, esitante, il biglietto nella cassa automatica.

    L’interfaccia segnala: 25 euro e dispari. Già, 25… Il numero mi rimanda al 25 Dicembre, al Natale, alle tavolate con la famiglia riunita, agli anni in cui i miei genitori lo potevano festeggiare ancora in salute. Chissà quest’anno come andrà. Spero che mia madre possa trascorrerlo con minori sofferenze, senza pagare troppo dazio. Nel frattempo pago il mio pedaggio, che non necessita di sforzi disumani per essere onorato, bensì di volgari pezzi di carta troppo spesso sopravvalutati.

    Seguo le indicazioni stradali. Un ampio cartello, con freccia direzionata a sinistra, segnala: Chianciano Terme, km 8. Dopo aver imboccato la strada principale, un attimo di défaillance dovuto ai tanti pensieri che affollano la mia mente: vedo uno spartitraffico, ma per errore lo imbocco sul lato sinistro.

    Il lampeggiamento di un’auto di fronte mi illumina. Sterzo bruscamente sulla destra ed evito l’urto con i veicoli dell’opposto senso di marcia. La mia manovra, tuttavia, non passa inosservata. Una volante della polizia mi ferma. Accidenti, ora rischio grosso!. Gli agenti mi chiedono come al solito patente e libretto. E mi domandano in tipico accento toscano: «È questo il modo di guidare? Non ha visto lo spartitraffico?».

    Mia moglie, preoccupata per le conseguenze, tenta di scagionarmi: «Scusate, ma mio marito è stato distratto dai movimenti della bambina. Lui di solito è molto attento alla guida».

    La risposta di uno degli agenti non si fa attendere: «Signora, veramente la bambina dovrebbe star seduta e ferma nel seggiolino».

    Pure questa… Ora si mette male, penso. Adocchiata la patente, il poliziotto più giovane proferisce: «Lei usa le lenti a contatto?».

    Cavolo! Ha visto impressa sulla patente la scritta obbligatorio guida con lenti. Io non le uso mai, anche perché ho a malapena qualche decimo di miopia e astigmatismo. Speriamo che non approfondiscano i controlli, se no sono rovinato. Se vogliono, possono pure sequestrarmi il veicolo e ritirarmi la patente continuo a rimuginare.

    Sto quasi per sfidarlo: Senta, io vedo molto meglio di lei. Vuole mettermi alla prova? ma, timoroso per la sua probabile reazione da pubblico ufficiale in divisa, soprassiedo.

    Lo fisso in volto. Dietro l’atteggiamento impassibile e il fisico robusto tipico delle autorità, si nasconde forse un indulgente senso di umanità. Gli rispondo quindi: «Sì, certo, uso le lenti a contatto». Mai fatto uso delle lentine.

    L’agente non batte ciglio. Lancia poi uno sguardo sulla carta di circolazione del mio veicolo e con aria seriosa mi allerta: «Si ricordi di fare la revisione entro fine mese». Pure questo ha visto. Meno male che non è scaduta. Non è che io abbia vinto il premio dell’automobilista più ligio nel rispetto delle regole. Dopo un po’ il tizio fissa l’altro agente come per chiedergli: Cosa dobbiamo fare?.

    Attendo trepidante. Non mi mancano certo i mezzi per difendermi, da avvocato, quando però sono in viaggio non voglio seccature. E non riesco proprio a stare senz’auto. Il cenno dell’agente più esperto è quello di lasciarci andare, nel mentre tiro un forte sospiro di sollievo.

    Mi rimetto alla guida. Allontanata la tensione, dopo qualche chilometro dalla sinistra un paesaggio collinare mozzafiato fino alla Val d’Orcia illumina i miei occhi. Il pittoresco stacco di colori dal verde chiaro al verde scuro è reso viepiù suggestivo dal riflesso solare sulla rigogliosa vegetazione sempreverde.

    I caratteristici cipressi della zona, ben disposti ed amalgamati, si sposano perfettamente con l’incantevole cornice ambientale. Il paesaggio, immerso nella quiete più totale, è quasi come immagino il paradiso: ci manca solo un ruscello d’acqua ed un’impetuosa cascata a fare da contorno. Vorrei tanto immortalare tutto ciò che mi suggestiona, ma il tempo stringe e non sono solo.

    Altri dieci minuti ed arriviamo finalmente a destinazione. Esco dalla vettura ancora titubante, ma mi lascio gradualmente trasportare dall’atmosfera di relax del posto. Cerco di stemperare la tensione accumulata in queste ore, giovandomi dei piacevoli ricordi che la location custodisce per me.

    Cinque anni fa, io e mia moglie festeggiammo qui il Capodanno 2011. All’epoca lei era a cavallo tra il sesto e settimo mese di gravidanza. Laura trasmetteva tanta tenerezza, con il pancione che gradualmente lievitava. Nelle serate con piano bar avvertiva i calci della nascitura incalzanti a ritmo di musica.

    Trascorremmo delle giornate in magnifico relax beandoci della confortevole piscina con idromassaggi. La condizione di gestante non permise a Laura di usufruire del bagno turco aromatico e della sauna, né della doccetta solare, ma non ne fece un dramma, pur avendo sempre adorato l’ingresso nei caldi ambienti. Fu uno degli ultimi periodi di quiete e benessere familiare. Contrariamente ai suoi timori iniziali, la fase della gravidanza è stata per mia moglie serena ed appagante. In condizioni economiche più floride viaggiavamo spesso, recandoci in meravigliose località di svariate parti d’Italia.

    Gli occhi di Laura rifulgevano di un’altra luce: assisteva con me, estasiata e commossa, alle varie ecografie in cui appariva il profilo di nostra figlia. Anche il battito cardiaco e i calci nella pancia materna della nascitura erano per noi un motivo di forte soddisfazione.

    Laura provò grandi emozioni quando scoprì che il figlio che portava in grembo era di sesso femminile. Pianse incontrollatamente dinanzi al medico che diede il responso durante l’esame ecografico: voleva una bambina a tutti i costi e fu accontentata.

    Eppure abbiamo aspettato cinque anni di matrimonio prima di concepirla, intenti entrambi a goderci la vita in beata spensieratezza. I nostri genitori invece spingevano: desideravano il nipotino da parte nostra. Ricordo quando mia madre diceva, con tanta tenerezza: «Fabio, prima di morire vorrei vedere qualche figlio tuo». Accolse con animo particolarmente gaudente lo stato interessante di mia moglie. Glielo annunciammo in Calabria a fine Luglio 2010, dove eravamo andati a festeggiare il suo onomastico (il suo primo nome è Anna), mentre lei era in vacanza. Mi guardò con fierezza e con un viso che trasmetteva un appagante Finalmente, era ora!.

    Il suo desiderio si era avverato. Col passar del tempo la crisi economica abbinata alle maggiori responsabilità ha portato me e Laura ad alterne vicende. Alcune spiacevoli ci hanno spinto a violenti litigi: gli animi si erano col tempo fortemente accesi. La bambina spesso si scuoteva e piangeva a dirotto, per poi poggiare le sue delicate manine alle orecchie ed allontanarsi terrorizzata. Negli ultimi periodi, io e Laura, turbati dalle reazioni di nostra figlia, abbiamo cercato di eliminare le frizioni personali, tenendo a freno le rispettive lingue.

    Sono le 14.15 circa. Ci vengono cordialmente incontro alcuni addetti dell’albergo: «Avete fatto buon viaggio? Avete bisogno di aiuto?».

    «Certo, grazie. C’è qualcuno che può aiutarci per i bagagli?», approfitto della loro disponibilità. Un giovane dipendente dell’hotel, moro ed aitante, si prende cura delle nostre ingombranti valigie, osservandole stupefatto. Abbiamo prenotato per tre giorni, ma guardando l’auto sembra che dobbiamo alloggiare almeno un mese. Mia moglie in viaggio porta con sé di tutto, come se dovessimo soggiornare nel deserto. L’addetto, giovandosi di un enorme carrello color dorato, trasporta con aria sorridente i fardelli in camera, sita al terzo piano.

    Entrati nella stanza, sistemiamo le valigie e liberiamo la gatta, che scorrazza gaudiosa e vogliosa di giocare. Saltella sulle pareti, scende, fa una serie di giri sul parquet, si nasconde sotto il letto, riesce e così via, diffondendo la sua ombra ed i peli dappertutto.

    La stanza è decisamente più confortevole rispetto a quella che occupammo cinque anni fa. Vi è ora anche un ampio divano letto rivolto verso una finestra in legno color castagno

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