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La famiglia di Kolè
La famiglia di Kolè
La famiglia di Kolè
E-book284 pagine3 ore

La famiglia di Kolè

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Info su questo ebook

Il romanzo “La famiglia di Kolè” è un’appassionata ricostruzione psicologica del dramma di chi si trova a vivere nella contraddizione di una religione nuova, liberante, a cui contrasta una concezione tribale così profondamente radicata nel fondo dell’animo da prevalere in situazioni drammatiche.
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2014
ISBN9788897469438
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    Anteprima del libro

    La famiglia di Kolè - Silvestro Volta

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    La famiglia di Kolè

    Prefazione

    Parte Prima

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    XXV

    XXVI

    XXVII

    Parte Seconda

    XXVIII

    XXIX

    XXX

    XXXI

    XXXII

    XXXIII

    XXXIV

    XXXV

    XXXVI

    XXXVII

    XXXVIII

    XXXIX

    XL

    XLI

    XLII

    XLIII

    XLIV

    EPILOGO

    DELLO STESSO AUTORE

    COLLANA

    I LIBRI DELLA FONDAZIONE SANGUANINI

    ROMANZI – SAGGISTICA – TEATRO

    Gilgamesh Edizioni               Fondazione Sanguanini Rivarolo Onlus

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    È vietata la riproduzione non autorizzata. Le riproduzioni potranno essere concesse dall’editore con specifica autorizzazione e soltanto con un numero di pagine non superiori al 15% del volume.

    In copertina: Progetto grafico di Dario Bellini

    © Tutti i diritti riservati

    I LIBRI DI PADRE VOLTA

    I ROMANZI, IL TEATRO, LA SAGGISTICA

    La famiglia di Kolè

    Gilgamesh Edizioni Fondazione Sanguanini Rivarolo Onlus

    Prefazione

    Il Padre Silvestro Volta fece la sua prima esperienza missionaria in Cina, dal 1948 al 1951, quando vi fu espulso, insieme agli altri missionari. Dopo un periodo passato in Italia, nel 1957 andò in Scozia per apprendere la lingua inglese, in vista della Missione della Sierra Leone, in Africa occidentale. Partì per quella missione nell’aprile 1959 e vi rimase fino al 1961, quando fu costretto a tornare in Italia per ripetuti attacchi di malaria. In Sierra Leone esercitò la sua professione di medico nell’ospedale di Lunsar.

    Trovandosi, per la prima volta, a contatto con popolazioni africane, la sua prima preoccupazione fu di capire gli africani, più ancora che farsi capire. Così scrive nel suo romanzo. Egli voleva conoscere come sono gli Africani di Sierra Leone, che cosa pensano e come vivono e quali sono i loro problemi. Frutto di questa ricerca, fatta di osservazioni, di registrazione di fatti e di induzioni psicologiche, è nato questo libro che, oltre a tener vivo il continuo interesse del lettore, stupisce per la percezione della mentalità dell’africano.

    La prima cosa che balza agli occhi dell’osservatore straniero, in Africa, è la poligamia, con la figura del capo famiglia, che appare come il padre-padrone. Pur ammesso che la convivenza di più mogli sotto lo stesso tetto sia generalmente pacifica, in certi casi, come nella famiglia di Kolè, appare penosa perché la seconda moglie, proveniente da altra tribù, ha saputo accaparrarsi l’affetto del marito in modo tale che la prima moglie è trascurata e, nell’impressione del figlio, perfino maltrattata.

    Il secondo fatto che condiziona la famiglia della Sierra è la religione musulmana che il capo famiglia esige sia praticata da tutti con rigore. Kolè, nell’estimazione dei maestri di scuola è un ragazzo di buona intelligenza e perciò il padre fu consigliato a iscriverlo nella scuola cattolica, che oltre a una buona educazione, era atta a preparare i giovani per ulteriori studi. Kolè viene quindi ammesso alla scuola cattolica, dopo assicurazione da parte del missionario, che non sarà indotto a diventare cristiano.

    Il Padre Paolo sarà molto rispettoso della coscienza di Kolè. Nasce una vera amicizia.

    Quando Kolè entra nell’adolescenza, Padre Paolo avverte che è nata una simpatia verso una giovinetta cristiana, Cecilia, e il missionario se ne rallegra. Vede in quell’amore tenero e rispettoso, un fatto nuovo che lo fa ricredere su impressioni precedenti, che per gli africani esista il sesso e non l’amore. Riflette però sulle costumanze tribali della Sierra e conclude, dentro di sé, che per l’africano una donna non basta. Nell’anima di Padre Paolo rimane un’ansia per il futuro di quell’amore così tenero e sincero, ed egli scrive, C’è un’Africa nera che ingoia tutto.

    Dopo la scuola della Missione, Kolè fu mandato in un collegio a Freetown, nella capitale, diretto da un prete scozzese, piuttosto rigido, che obbligava i collegiali a partecipare alla Messa e alle altre preghiere cristiane, nonostante la maggioranza fosse musulmana. Questo fatto recò molto disagio nell’animo di Kolè e, in molti, creò un’antipatia verso il cristianesimo stesso.

    Ritroviamo Kolè qualche anno dopo, assunto negli uffici della Pipel, il complesso minerario della Sierra Leone che dava lavoro a cinquemila persone. Kolè è già sposato con Cecilia, divenuto cristiano lui stesso. Avevano una piccola casa tutta per loro e si amavano teneramente. Ma, dopo due anni di matrimonio, la piccola Cecilia, non aveva avuto alcuna gravidanza. Ricorsero a visite mediche e l’esito fu desolante: pareva che non potesse averne mai. Da qui il dramma. Cecilia pregava fervorosamente per un intervento divino, e Kolè si logorava al pensiero che la chiesa cattolica non permettesse la poligamia. Tutti guardavano Kolè e pareva gli dicessero – e qualche volta lo dicevano – << Prendi una seconda moglie, come tutti fanno. La Chiesa cattolica non tiene conto delle nostre costumanze, come invece ha fatto il musulmanesimo>>.

    A forza di sentirselo dire, cominciò a incontrarsi con un’impiegata della miniera, con un fisico prestante, ben diversa dalla piccola Cecilia. Quando questa donna intraprendente restò incinta si dovette passare al matrimonio.

    Padre Paolo ne fu sgomento. << Ma Padre Paolo – è scritto nel libro – era troppo bianco per capire la creta nera, un sangue che trascorre come un torrente in piena>>.

    Il padre di Kolè, invece, commentò: << La legge di Maometto è la nostra carne, come il cristianesimo è la seconda natura per l’Europa>>. Per la tribù, la sterilità è una maledizione di Dio.

    Kolè cambiò casa e vi portò la seconda moglie con il suo bambino. Cecilia fu costretta a vivere con loro, in una rassegnazione dolorosa, consolata solo dalla partecipazione alla Messa e alla Comunione eucaristica. Kolè, alla domenica, partecipava lui pure, ma restava in fondo alla chiesa e non faceva la comunione.

    Il libro chiude con un commento di un Sierra Leonese, cattolico di lunga data, ed è questo: << Da musulmano a cattolico il passo è davvero enorme. Di solito si casca male... Ma poi vengono i figli, i quali soccorreranno la debolezza della nostra razza>>.

    Il romanzo è un’appassionata ricostruzione psicologica del dramma di chi si trova a vivere nella contraddizione di una religione nuova, liberante, a cui contrasta una concezione tribale così profondamente radicata nel fondo dell’animo da prevalere in situazioni drammatiche.

    Parma, 8 maggio 2013

    Padre Augusto Luca

    Attendere è come amare

    Parte Prima

    I

    La sera si era già composta senza bisogno di attesa. La stagione delle piogge era nel pieno e non si poteva pretendere un tramonto regolare.

    Era appena stato concluso il rosario alla Missione; sì, Kolè doveva far presto a rincasare. Il papà, un fervente mussulmano, voleva che Kolè con altri suoi figli ramazzassero un mucchio di sterpi per studiare alla sera il Corano. In verità dovevano prepararne un altro anche per la mattina. Ciò che la sera aveva raccolto doveva germinare nella mattina. La notte non era che una materna incubatrice. Kolè sentiva molto la fatica di queste cose. Non avrebbe voluto ramazzare né per la sera, né per la mattina. Desiderava la notte star tranquillo sognando. La vita, come era, aveva delle esigenze strane.

    Padre Paolo, per esempio, domandava anche lui. Ma non troppo. Kolè sapeva le preghiere cristiane, piuttosto lunghe. Se non erano così lunghe come quelle del Corano, poco ci mancava. Perché tutto questo? Perché non avevano costruito una preghiera semplice, senza fatica, come giocare? Nascondersi dietro la siepe della Missione gli pareva più divertente, meno monotono che ripetere tante volte i versetti del Corano.

    Tornava quella sera con Abù, che era più semplice di lui ed era meno bravo a scuola. Ma questo non contava.

    Abù, quella sera che il tramonto era stato ingoiato per via dei nuvoli, gli aveva chiesto: – Tu saresti buono a giocare sempre?

    Kolè era rimasto perplesso dinanzi a questa frase. Abù non aveva grandi esigenze; perché ora gli faceva quella domanda in blocco? Pensa che non sarebbe stato capace nemmen lui. Ora a Kolè toccava rispondere. Ma non lo faceva. Si era proposto di chiedere, forse per guadagnare tempo.

    – Che cosa hai detto, Abù?

    – ...Guarda, Kolè, che a giocare sempre non si fa fatica. Non so se hai ben capito.

    Più che capito. Ma alla soluzione semplicistica di Abù bisognava cercare il bandolo.

    Lor due scendevano da una strada fatta di anfratti e cosparsa di ciottoloni. L’umido della pioggia e di una minuscola vegetazione la rendevano viscida. Non bisognava molto obiettare, né tentarlo, senza una grave ragione. Kolè aveva interrogato così:

    – Come faresti, Abu, ad attuare il tuo progetto contro i genitori che vogliono che studiamo il Corano e con Padre Paolo che ci minaccia se non accettiamo la scuola con serietà?.

    – Hai visto che stasera ho preso due scappellotti?

    – Padre Paolo è facile; ne ho ricevuto anch’io... ma ne prendo anche da mio padre. Ora non capisco come tu faccia quella domanda.

    – Sai, Kolè, che gusto matto provo a giocare! Io non so perché non hanno fatto una religione così.

    Benché Abu non fosse bravo a scuola sapeva dire delle cose interessanti come quella sera.

    Kolè aveva allungato il passo, perché sapeva che il papà Scirè non avrebbe scherzato, soprattutto non si sarebbe placato con una frase originale come quella di Abù. Si era consolato di essere arrivato al largo stagno. Ancora un centinaio di metri per vedere un volto, e anche una domanda. Da un mese circa suo padre si intestardiva in una domanda, e in ogni sera. Si era accorto che sua madre sfuggiva suo padre. Di questo, magari, era contento. Gli era saltato in mente di chiedere ad Abù: Perché un uomo ha più donne?. Ma poi non l’aveva fatto, perché si era accorto che non sarebbe stato capace di rispondergli. Abù era davvero più semplice.

    Meglio era seguire la sua domanda. Se i cento metri non si fossero accorciati, sarebbe valsa la pena di buttarcisi dentro a corpo morto... Ma, strano, Abù era arrivato sulla soglia della casa. Sua madre l’attendeva con un putto in braccio che tirava la mammella in una sazietà stanca. A Kolè, in quel momento, era venuta la strana voglia di una vita passata così per sempre. Bisognava vedere se Abù riteneva che quello fosse il vero divertimento.

    Kolè, in quella sera, non aveva salutato Abù mentre continuava la sua strada. Che strano Abù. Il gioco piaceva anche a Kolè, ma tentare una frase come quella ci voleva un bel coraggio.

    Era rimasto solo a camminare. Lo stagno aveva aperto un occhio sulla notte. Però era convinto che se il cielo si fosse incupito ancora un po’, avrebbe incominciato a piovere. Perché la notte era così avida di ingoiare tutto? Abù non c’era più. Si fa alla svelta a far tutto gioco; se la notte è così cupa... Perché non pensava più a suo padre? Perché non stava fermo nella notte magari per gridare ai passanti: Guardate che lo stagno è fondo.

    All’indomani l’avrebbe detto ad Abù. A suo padre non avrebbe detto niente. Cercava nella sera, ormai scesa, qualche manata di sterpi. A suo padre avrebbe potuto dire semmai che aveva fatto tardi per raccogliere legna per la lettura del Corano. Ma non era più il tempo in cui credeva sillabando, né in cui sorrideva a sua madre. Anche questa cosa aveva capito senza intenderne la ragione. Non riusciva a vedere che suo padre fosse in sua madre. E se era così, perché lui l’aveva presa? Abù, davvero, non era stato geniale nella sua frase. Come erano le cose, una frase simile non l’avrebbe mai detta e nemmeno che suo padre fosse di sua madre. D’altronde sua madre aveva altri bambini più piccoli e Kolè non avrebbe più potuto succhiare avidamente come il fratellino di Abù. E allora? La cosa migliore era cercare sterpi per far fuoco nella notte e poi dire: Allah, Allah.... Aveva appena finito di dire: Gesù, Gesù.... Era davvero un mondo strano.

    Aveva scaricato la borsa dei libri sul ciglio del fosso e si era messo a raccogliere nel buio la legna che gli capitava sotto mano; la lasciava sul ciglio della strada. Una manciata sulle braccia non era una scusa sufficiente al ritardo. Avrebbe detto a suo padre: Ho raccolto tanta legna; ora occorrono altre braccia per metterla insieme e poi affastellarla. Forse suo padre sarebbe rimasto placato. Bisognava arrivare a non prendere botte. Ma non avrebbe fatto niente perché sua madre avesse avuto un sorriso da lui: sua madre doveva essere sua. Perché lui, suo padre, doveva averne due e Kolè nessuna? Voleva che sua madre non avesse sorrisi che per lui... poteva concederlo per i suoi fratelli, specialmente per l’ultimo che non sapeva ancora mangiare la cassava¹.

    Si era fermato a guardare lo stagno che si era illuminato a un cornetto di luna tra le dense nubi. Aveva pensato: Sarà felice lui?. Forse giocava nell’acqua come desiderava Abù per se stesso. Se la sera non fosse stata minacciosa per lui, si sarebbe fermato a guardare più a lungo nell’acqua, in silenzio; a guardare prima che i ranocchi avessero cominciato a gracchiare.

    Ma poi aveva concluso di essere più concreto: affastellare la legna che avrebbe accesa per vederci meglio a leggere il Corano.

    II

    Kolè era arrivato a casa che suo padre non c’era. Però i fratelli l’aspettavano sulla porta. Non potevano accettare che il figlio di un’altra madre non avesse concorso a preparare la piccola catasta per il fuoco della sera. Non doveva assolutamente dimenticarsi che il Corano era vero anche per lui e che doveva attizzare il fuoco per imparare tutta la verità.

    – Ce n’è voluto del tempo a tornare! – Era il maggiore della seconda donna, la preferita, a investirlo con malgarbo.

    Kolè aveva rintuzzato così: – Non sai che ho raccolto legna per la strada.

    – E dov’è?

    – Sulla strada.

    – Ma allora è come se non ci fosse!

    Kolè aveva buttato per terra la cartella dei libri e poi s’era voltato di nuovo sulla strada buia. Poteva arrischiare di non vedere niente, se non ci fosse stata qualche lanterna che mandava fuori una lingua di chiaro. Il cornetto di giovane luna era uno spiraglio da poco. Ma Kolè aveva un immenso orgoglio che gli avrebbe fatto trovare i piccoli fastelli anche in fondo a un pozzo. Non voleva essere meno dei figli di un’altra madre, lui che ormai era capace di leggere ad alta voce qualsiasi tavoletta. Suo padre di questo era orgoglioso. Mentre Kolè arrancava nel buio, aveva sentito la voce di sua madre: – Torna, piccolo, che per il fuoco ci penso io.

    Ma Kolè non era il fanciullo che sarebbe tornato, voleva convincere gli altri di non essere da meno, né sentirsi dire, mentre declamava i versi del Corano: Papà, Kolè legge bene, ma non ha raccolto nemmeno un fuscello per il fuoco.

    Aveva buttato sulla piccola catasta una, due, tre bracciate di sterpaglia e poi aveva aggiunto tre piccoli tronchi: Ora pensi che potrò leggere stasera?.

    Ma i fratelli erano già entrati. Nessuno voleva dargli la soddisfazione che avesse vinto, mentre avrebbero sempre potuto dire che di legna lui non ne aveva raccolta. Sua madre non era entrata. Teneva la sorellina dietro la schiena e aveva la cartella dei libri di Kolè in mano.

    – Scusa, perché non hai risposto alla mamma? Il Corano non ti ha insegnato questo?

    – Non capisci, mamma, che dovevo prepararmi il fuoco per leggere?

    – E perché sei venuto tanto tardi?

    – Anche alla Missione pregano, ma essi non han bisogno di legna, adoperano le candele.

    Non era del tutto vero quello che diceva, anche se il particolare delle candele poteva contribuire a farlo credere. Kolè si era divertito con Abu e altri a rincorrersi nei cespugli della piccola montagnola. La Missione col grande prato e con intorno un delizioso boschetto basso poteva bastare per un fanciullo come Kolè. D’altronde il Padre della Missione non sforzava nessuno a entrare in chiesa per la preghiera della sera.

    La madre si era ritirata in casa come se ci avesse creduto. Le rincrescevano solo i rimbrotti del marito. Essa presso di lui non godeva la posizione di una volta... e l’altra in casa lo mostrava con soddisfazione: l’ultima arrivata, una piccola fula², che possedeva tutta l’arte di femmina procace. La madre di Kolè non aveva che due occhi larghi e nemmeno un tentativo di protesta. Aveva pianto in silenzio qualche volta, non per l’uomo che le veniva portato via, ma per la sua giovinezza che le era stata tolta senza credere a nessun futuro. Kolè la toglieva da questo affanno; ma gliene dava un altro: che il padre si stancasse di lui come aveva fatto con lei.

    Essa aveva tenuto in caldo una grossa scodella di riso impastato di olio di palma. Kolè aveva fame anche se aveva bevuto un’ora prima il latte della Missione. Due cucine, come aveva due religioni. In fondo era tutto a posto. Bisognava far presto a ingollare quella capace scodella. E lui s’era messo con lena, mentre borbottava alla madre frasi come questa: Preparami le tavolette del Corano. Perché il papà non è in casa?.

    A sapere dove era il papà, era un po’ problematico e ancora più difficile sarebbe stato per lei dirglielo.

    – Hai fatto bene a scuola, mio piccolo?

    – Guarda che non voglio che mi chiami piccolo.

    – Ti chiamerò il mio omino.

    – Nemmen questo.

    – Stasera sei in voglia di cose grosse.

    – Dopo un minuto di silenzio Kolè si era guardato attorno e poi aveva chiesto:

    – Il papà oggi non ti ha sgridato?

    – Tu, Kolè, cerchi di deviare per non dirmi come hai fatto a scuola.

    – È tanto semplice, sono sempre il primo.

    La madre non aveva rintuzzato quel piccolo orgoglio fanciullesco. Sentiva di godere, e lo esternava con più libertà per via dell’oscurità e in quanto il suo sentimento non riusciva ad essere scoperto da Kolè.

    – Mamma, allora, mi rispondi per il papà?

    Veniva tolta da un altro piccolo orgoglio, quello materno. Cosa le restava da rispondere? L’uomo che l’aveva portata via un giorno dalla capanna del bush³, non le aveva lasciato nessun assillo. Aveva sopportato il rango di prima donna alla nascita di Kolè... e poi era entrata nell’ombra perché la piccola fula aveva tante moine per garantirsi un possesso incondizionato. Essa era diventata madre per altre due volte da quando lavorava e mangiava in quella casa. È difficile poter dire di più; però si era aggrappata ai figli, specialmente a Kolè come una piccola scimmia al suo ramo e sapeva difenderlo fino all’ostinazione contro tutti. Era stata lei che aveva insistito perché Kolè fosse iscritto nella scuola della Missione cattolica. Il marito aveva ceduto a un sol patto, che il fanciullo non fosse battezzato. Ciò non aveva importanza per lei. Che importava era vincere la partita nel figlio, là dove non era riuscita a vincerla nel marito. Kolè dimostrava buona volontà e talento. La fula non aveva un figlio intelligente per contendere.

    Kolè stava pulendosi le mani, unte di olio di palma, nei capelli crespi e duri come una rete metallica. Le tavolette erano già lì che lo guardavano. Si sentiva di fuori lo scricchiolio di legna che si muoveva. I fratelli erano già fuori per attizzare. Doveva far presto per non rimanere indietro. Aveva infilato le due tavolette sotto il braccio e poi aveva guardato per l’ultima volta sua mamma:

    – Allora non potrò proprio sapere se il papà ti ha sgridato...

    – Kolè, e che ti salta in mente? Non pensi che hai da studiare il Corano? È l’impegno che mi son presa io con tuo padre.

    – E perché l’hai fatto?

    – Non avresti potuto studiare.

    In quel momento gli era venuto in mente Abù. Come sarebbe stato più semplice il suo modo di vivere. Si sarebbero messe in discordia due religioni per una povera volontà di studiare? Kolè non capiva che nell’incosciente.

    Non sarebbe potuto

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