Il giardino di Liza
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Anteprima del libro
Il giardino di Liza - Furio Travagli
racconti
Il giardino di Liza
I
Come e quanto aveva amato Liza suo marito!
Lei l'aveva sposato da giovanissima, ed era stato bellissimo entrare nella sua famiglia; prima, come compagna di scuola, poi compagna di università e infine come fidanzata e moglie. Quando ci pensava, e questo lo faceva spesso, si stupiva sempre del fatto che non si era accorta di come era passata da fidanzata a moglie.
Per lei che era orfana di padre da sempre, e con una madre assente e che era andata ad abitare in un'altra parte del mondo appena lei si era sposata, era stato naturale essere adottata dalla grande famiglia di Carlo, che consisteva in questo momento nella suocera anziana, nei suoi due figli sposati e nessuno dal lato paterno; anche il suocero non l’aveva mai conosciuto, dato che era mancato giovane. Altri cugini in seconda del marito erano troppo distanti per potersene ricordare. Questi cognati invece erano vicinissimi, in quanto lei e suo marito Carlo vivevano assieme a loro in due ville di proprietà che davano su un cortile-giardino comune, cintato da un muraglione diroccato dell'età stimata di quattro secoli. Loro stavano nella villa più piccola delle due.
Liza quando tornava dal lavoro, entrava nel cortile e richiudeva il vecchio portone di legno che teneva fuori tutti i rumori di quella periferia ormai quasi città; quindi si trovava dirimpetto all'ingresso del suo appartamento che distava una cinquantina di metri dal cancello, da attraversare ogni giorno come fosse un mare di alghe in un oceano in tempesta.
A sinistra entrando, c'era la casa detta casa madre, perché aveva tre piani e ci vivevano in cinque; in fondo al cortile, la casa di Liza e Carlo, più piccola e più umida, con un solo piano ed un ammezzato. Quelle case erano vecchie di quasi quattro secoli, e quindi molto rimarcabili sia per uno storico che per chiunque. Però a differenza delle altre villette dell’epoca, nessuno aveva mai seriamente pensato allo loro ristrutturazione, e ne risultava che le finestre erano di un legno senza data, i vetri antichi ancora ondulati, le porte di legno riverniciate a tutti costi, i muri di pietra rintuzzati di malte di ogni tipo ma che avevano assunto tutte lo stesso colore dell’umido verdastro.
La famiglia di Carlo non aveva mai ostentato una vera ricchezza, e quindi tutti i lavori di ristrutturazione erano stati rimandati di generazione in generazione, e lo sarebbero stati anche nel futuro. Ma sempre tutti nella famiglia si erano adattati a quel posto così come era, e nessuno sfortunatamente considerava negativo il mal comune mezzo gaudio.
Liza attraversava il cortile sulle pietre piatte del ciottolato steso tra le aiuole due o tre volte al giorno; le conosceva una ad una perché ogni settimana le spettava il turno deciso per la loro pulizia; conosceva anche le siepi per la stessa ragione, ma su queste era più positiva, anche se aveva tentato più volte di trapiantarne qualcuna vicino al suo portone per farla crescere e migliorare la privacy. Ma per un motivo o per l’altro aveva dovuto rinunciare. E quindi sia lei che chiunque dei suoi ospiti entrasse o uscisse, veniva notato da tutti, o anche solo da uno che poi riferiva agli altri. E comunque quando non c’era nessuno alle finestre o a rassettare le aiuole, ci pensava Carlo.
Carlo riferiva tutta la sua vita in ordine gerarchico, a partire dalla madre che talvolta sembrava non capisse più neanche dove fosse, e quindi ai fratelli, a cominciare dalla sorella. Liza si chiedeva spesso quando lo facesse, perché erano sempre assieme in casa, ma a lui gli bastavano pochi minuti e qualche volta anche solo una occhiata o un gesto per informare di tutto quello che stava facendo con lei.
Per quel motivo, lentamente Liza aveva cominciato a tacere sulla sua vita lavorativa, una vita di maestra di scuola elementare e poi anche sul resto delle poche altre cose che faceva, inclusi i concerti che frequentava ogni due settimane dato si era invaghita innocentemente del primo clarinettista, che guardava solo da lontano, tanto per fare lavorare la fantasia.
Carlo si era accorto di qualcosa, non certo del clarinettista, ma di avere cominciato a perderla, e la picchiava. Liza la prima volta che successe, patì sia fisicamente che emotivamente. La seconda invece solo fisicamente, e poi ci fece l'abitudine, anche perché Carlo non picchiava forte forte, ma tirava più a farsi sentire dai parenti. E presto fu smarrita la vera ragione delle violenze e della loro sopportazione.
Liza quella sera, come tutti i giorni, aveva quasi finito di pensare a tutto questo, e ora a letto sentiva il pene di Carlo che le riempiva la vagina che teneva rilassata. Aspettava che lui proseguisse con le mani come al solito, toccandole il clitoride che lui credeva di massaggiare con maestria, quando lo sentì irrigidirsi e lanciare un rantolo breve ed agghiacciante, per poi rimanere riverso con un respiro corto e molto leggero, non muovendosi più.
Liza si stupì della propria reazione di distacco che gli diede la sensazione che il tempo si dilatasse a suo piacimento. Si tolse Carlo da sopra con una forza inaudita che le fece contrarre lo sfintere sino a provare una unica fitta fino ai polpacci, poi si mise seduta sul letto e guardò fuori dalla finestra il panorama blu e nero: sempre lo stesso, anche ora.
Sempre da seduta diede un’occhiata a Carlo, che restava immobile come prima; Liza allora cominciò a rivestirsi lentamente e pensando che ora, alle 22 e trenta, era quasi due giorni che non amava più Carlo, e anzi, lo odiava. Prese il cellulare e chiamò l’ambulanza e poi, in ciabatte, scese lentamente in cortile. Quando fu sulla porta, accellerò il passo, anche per timore che tutti gli altri la vedessero così troppo tranquilla, e suonò a tutti, a uno per uno e disse loro quello che stava succedendo. Poi si mise al portone ad aspettare gli infermieri, passeggiando avanti e indietro.
Quando suonarono al portone, Liza premette l'interruttore del citofono e entrarono tre volontari, un infermiere e un medico. Intanto erano scesi i parenti di Carlo semisvestiti e in silenzio: si raccolsero in gruppo con una certa titubanza, e contavano tutti sul fatto che Liza li avrebbe preparato alla visita a Carlo, ma lei li piantò in asso in giardino dato che erano già arrivati i volontari a salvarlo. Così, con ritardo, entrarono tutti assieme nella stanza da letto, facendo confusione e facendo un coro di commenti, mezzi singulti e parole brevi sussurrate con voce profonda. Assordante.
Carlo era immobile come prima, ma respirava. Liza in un modo istintivo capiva che era stabile, e per quella mezz'ora decise di non preoccuparsi più. Né occuparsi, né preoccuparsi. Il medico non perdeva tempo e nella folla che occupava la piccola stanza faceva il suo. Alla fine rivolse gli occhi solo verso la moglie e le inviò una espressione neutra; vide che lei aveva capito e si mise ad occuparsi del trasporto. Liza non si avvicinò più a Carlo anche perché, probabilmente per la sola ragione che non era deceduto in quei minuti, ora tutti gli erano addosso, rassicurati. Ma lei ora doveva cercare sotto il letto le scarpe e nell'armadio qualcosa da mettersi, e questo le veniva difficile in quel marasma. La cognata Rosa la Rossa, moglie di Guido, il fratello di Carlo, allora la prese in custodia e se la portò in sala, in bagno, in cucina e poi di nuovo nella camera da letto, ormai deserta, facendole fare tutto quello che doveva per uscire, incluso mettere anche un pò di fard e di rossetto.
Rosa infatti era chiamata la Rossa per i suoi capelli e per la sua eleganza di tutte le occasioni e a tutti i costi, e in questo era identica a suo marito. Liza era trattata dai due come fosse una mezza orfanella, dall'alto di una condizione di agiatezza e serenità che loro a tutti i costi praticavano e dissimulavano di aver desiderato fortemente. Liza li filtrava attraverso Carlo, che provvidenzialmente arrivava sempre prima che succedesse qualcosa di irreparabile tra i due e la moglie. Ma ora questa protezione era svanita. Dall'altro estremo, Elvio e sua moglie Ada, sorella di Carlo, sembravano sperduti e si muovevano lenti e senza grandi successi in quella sgradita riunione familiare, dicendo cose che non erano, come al solito, mai ascoltate. E allora pregavano.
Il piccolo corteo scese le scale, con tre portantini come fosse già un funerale, ma che lavoravano con molta delicatezza, anche se Carlo non poteva emette suoni di nessun tipo e probabilmente non sentiva nulla. Dopo aver fatto un passo dalla suocera, per darle una notizia né tragica né rassicurante, Liza salì nell'ambulanza assieme a Rosa, e dentro si avvertì un intenso profumo di violetta mentre si dirigevano verso l'ospedale, a bassa velocità e senza sirena, come a dire che era tutto finito lì, per il momento.
II
Carlo doveva rimanere così, paralizzato e praticamente senza parola, per tutto il resto della sua vita. Nel corso della settimana di analisi e di consulti che precedettero la diagnosi, Liza non fece altro che andare tra casa ed ospedale, guidata da Rosa la Rossa, che coordinava gli orari, i vestiti, i mezzi, i trucchi, i capelli di questi avanti e indietro, assicurandosi che Liza avesse un appoggio. Appoggi formali ed inutili, ma pur sempre appoggi. A Liza non restava che starsene a guardare Carlo, ma da sola, perché chiunque la accompagnasse, poi restava fuori dalla stanza.
Specialmente Ada, che aveva infine deciso di passare il tempo in chiesa.
Venerdì, inadeguato giorno per una diagnosi, il primario convocò Liza, ma vennero anche Guido e Rosa la Rossa. Loro assolutamente vollero che quel giorno, Liza andasse a casa senza poter vedere ancora Carlo, e si assicurarono che lei se ne stesse dentro, e la seguirono anche dalla finestra di nascosto quando Liza uscì a fumarsi una sigaretta in giardino.
Alessandra, la mamma di Carlo, che viveva chiusa in casa, accudita da tutti i