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Servono 35 anni per riconoscere l'uomo sbagliato
Servono 35 anni per riconoscere l'uomo sbagliato
Servono 35 anni per riconoscere l'uomo sbagliato
E-book173 pagine2 ore

Servono 35 anni per riconoscere l'uomo sbagliato

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Info su questo ebook

Sefora, in un momento di rabbia, cerca di fare un dispetto a un suo ex e finisce nei guai. Si ritrova davanti a un commissario di polizia che ha una intuizione geniale: la iscrive a un gruppo di sostegno per persone con ossessioni compulsive.
Questa punizione, apparentemente eccessiva e poco utile, si rivela provvidenziale e catartica: Sefora raccontandosi ripercorre la sua vita, i momenti difficili, gli aneddoti sugli uomini assurdi che ha incontrato e che l’hanno portata ad essere single.
Ben lungi dall’essere l’ennesima opera letteraria in cui una donna mette alla gogna il maschio moderno, si tratta piuttosto di una sorta di diario di aneddoti e pensieri, una riflessione sulla felicità, la vita e l’amore ai nostri giorni.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2020
ISBN9788835367628
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    Anteprima del libro

    Servono 35 anni per riconoscere l'uomo sbagliato - Sara Radaelli

    riservati

    SERVONO 35 ANNI PER IMPARARE A RICONOSCERE L’UOMO SBAGLIATO

    Fatti e personaggi sono parzialmente ispirati a fatti che mi sono accaduti e persone che ho realmente incontrato, tuttavia il risultato finale è frutto della fantasia e della rielaborazione dell’autore. Chi vi si riconoscesse non si offenda. Anche se crederà di essere il protagonista del racconto, in realtà molti dei personaggi e delle situazioni narrati sono il frutto di più incontri ed esperienze tra loro analoghi.

    PROLOGO: LA PRIMA SEDUTA E IL RACCONTO DI COME LA SFIGA EBBE INIZIO

    Osservo la punta delle mie scarpe, sono delle decolleté in vernice blu con i bordi gialli. Penso che le dovrei lucidare o quanto meno pulire con un fazzolettino di carta o una salviettina igienica, perché sono tutte impolverate, ma in questo momento non è il caso. Il commissario penserebbe che sono un po’ stramba e ora è fondamentale che io lo convinca dell’esatto contrario. Il dramma è iniziato in un’afosa giornata di fine agosto, di quelle che ti fanno sognare solo di tornare a casa e fare una doccia gelata e buttare tutti gli abiti in lavatrice. E ha preso forma in una palazzina elegante di un ricco quartiere milanese.

    Non avevo mai visto un commissariato di polizia, ero stata qualche volta in una caserma dei carabinieri per fare denuncia di documenti smarriti, ma in un commissariato mai, era la prima volta. Fra l’altro il luogo comune per cui i carabinieri siano tutti simpatici, buoni e di sinistra e i poliziotti cattivi e di destra me ne aveva ben fatto stare alla larga. È un ufficio molto spoglio e con arredi vecchi. Guardo il commissario e ripeto lentamente scandendo bene le informazioni: «Nel palazzo in cui mi avete trovata abita un amico, o meglio un conoscente. Volevo lasciare davanti alla porta del suo appartamento un libro, che mi aveva convinta a leggere un paio di anni fa e di cui ora mi vorrei solo liberare».

    E glielo mostro. Si tratta di un libricino piccolo e di poche pagine, chiaramente un saggio. Sulla copertina grigia di cartone il titolo Ebrei e giudaismo a Bivona (1428-1547). Continuo a raccontare: «Ero quasi arrivata davanti alla sua porta, ma ho sentito un rumore e ho temuto che fosse lui che rientrava in casa. Presa dal panico e dal timore di trovarmelo davanti, mi sono chiusa nello stanzino delle scope, ma la serratura si è bloccata e sono rimasta lì chiusa fino a quando una condomina ha sentito che chiamavo aiuto e invece di aprire e liberarmi ha chiamato voi direttamente». Il comandante mi guarda, vedo che osserva il mio cappottino giallo anni settanta con dei grossi bottoni neri e che gli scappa da ridere: «Quindi Signorina Sefora Colombo, Sefora giusto?». «Sì, è un nome biblico, tanto per stare in tema religioso, Sefora era la moglie di Mosè. Quando era ragazza, mia madre era andata con sua sorella gemella al cinema a vedere I dieci comandamenti . Il film era piaciuto loro così tanto che erano rimaste in sala a rivedere lo spettacolo successivo e a casa le avevano date per disperse. Da lì l’idea di chiamarmi Sefora». «Capisco - annuisce il comandante - l’ho visto anch’io il film. La scena che mi è rimasta più impressa è quando Mosè col bastone apre il mar Rosso. Signorina, non divaghiamo però, se la persona a cui doveva recapitare il libro è un amico o conoscente che tra l’altro glielo aveva anche consigliato, perché non lo voleva incontrare per darglielo di persona? E perché mi dice che siamo in tema religioso?». Faccio volutamente gli occhioni tristi da cerbiatto, sentendomi ridicola, e gli dico «Guardi io e questo tizio siamo usciti insieme per alcuni mesi un paio di anni fa, lui era, anzi credo sia ancora, ma solo forse perché le persone sono volubili, ebreo praticante. Ha cercato di plagiarmi facendomi leggere un libro che parlava degli insediamenti ebraici nella Sicilia del 1400, o meglio degli insediamenti ebraici proprio nel paese di origine di mia madre che avevamo scoperto essere stato una importante colonia ebraica fino alla diaspora imposta dai sovrani spagnoli. Secondo lui avrei potuto scoprire le mie probabili origini ebraiche che avrebbero reso possibile una mia conversione all’ebraismo e di conseguenza una possibile nostra vita insieme. Lei conosce le regole degli ebrei praticanti? È fondamentale che la madre sia ebrea per perpetrare la stirpe ebraica. È la donna a trasmette la religione ai figli, in quanto questa viene passata loro tramite l’utero materno. Per un ebreo osservante sarebbe problematico sposare una non ebrea: i figli non verrebbero riconosciuti dalla comunità, non sarebbero ammessi nelle scuole ebraiche, dovrebbero affrontare il complicato percorso della conversione che fra l’altro non è ben visto, perché gli ebrei non fanno proselitismo. Era estate, io mi trovavo nel paese di origine di mia madre in Sicilia per passare una settimana di vacanza con lei e lui aveva appunto scoperto, o meglio lo avevamo scoperto insieme cercando in internet, che proprio lì c’era stata un’antica colonia ebraica poi sfollata dai sovrani spagnoli. E mi aveva fatto cercare il libro che aveva scritto un professore palermitano, Antonino Marrone, che secondo lui stava per Marrano. I Marrani erano i convertiti al Cristianesimo per imposizione dei sovrani spagnoli, ma che di nascosto continuavano a praticare la religione ebraica. Il libro me lo aveva portato il professore appositamente da Palermo, probabilmente colpito e lusingato da questo mio interesse. Era pieno di elenchi, dati sui nomi delle famiglie, le professioni più comuni dell’epoca. Una noia. Due mesi dopo, questo mio pseudofidanzato ebreo mi aveva detto che non mi aveva vista sufficientemente entusiasta nei confronti della sua religione e che avevo frainteso io tutta la situazione. Secondo lui non c’era stata nessuna relazione, avevamo fatto solo un paio di cenette e non era mai stata una cosa seria, quindi mi aveva scaricata. Per tornare alla mia incursione in casa sua, volevo solo ridargli il libro e liberarmene. Forse anche mandarlo affanculo. Mi dispiaceva buttarlo via dato che un professore lo aveva scritto con impegno e dedizione e volevo che lo conservasse lui per ricordarsi di quanto fosse stato stronzo e ambiguo, arrivando perfino a farmi leggere quel libro per poi dire che tutta la nostra storia era stata solo una mia proiezione mentale. Questo libro è la prova tangibile della sua calunnia.»

    Morale: il commissario non è riuscito a capire nulla del pensiero ebraico, ma ha colto il punto sul fatto che lui fosse un grandissimo stronzo. «Signorina vada pure a casa e trovi il modo di non pensarci più, non ne vale la pena», dice. Quindi impietosito mi lascia andare. Ma qualche giorno dopo scopro che mi ha iscritta ad un gruppo di ascolto per persone con disturbi ossessivo compulsivi e che la mia partecipazione a quel gruppo è obbligatoria per evitare una denuncia della vicina dello stronzo per violazione di domicilio. Non avendo trovato un gruppo d’ascolto per donne che erano ossessionate da uomini ebrei praticanti, quello gli era sembrato il più adatto.

    Maledico me stessa per l’idea infelice che ho avuto. Ora mi trovo in questo terribile impiccio di dover obbligatoriamente frequentare gli incontri con qualche gruppo di probabili disturbati mentali. Le riunioni svolgono nel seminterrato di un edificio in una zona semicentrale di Milano. Una vecchia palazzina dai muri spessi come si costruivano una volta che d’estate mantengono il fresco all’interno dell’edificio, ma dentro i quali per questo stesso motivo in primavera e autunno, fin tanto che non vengono accesi i riscaldamenti condominiali, fa veramente freddo. Controllo due volte l’indirizzo, prima di ritrovarmi in casa di qualcuno per errore. Sono arrivata tutta trafelata dall’ufficio. Alle 17 c’era stata una riunione con dei direttori, che quindi non avevo potuto chiedere di spostare, e l’avevo passata controllando l’orologio tutto il tempo con il terrore che non terminasse entro un’ora. Fra l’altro, dovendo partecipare a questa riunione molto formale, avevo indossato con un tubino verde smeraldo e una giacca nera elegante. Entro e mi sento davvero in imbarazzo: fra l’abito e l’ambiente non so come comportarmi. La sala di solito viene usata per delle conferenze, c’è un piccolo palco e una serie di sedie schierate in una quindicina di file. Il gruppo che trovo occupa solo le prime tre e sembra davvero composto da personaggi usciti da un fumetto fantastico. Entra una tizia che probabilmente ha cinquant’anni, ma che cammina e sorride come una bambina. Indossa una gonnellina a portafoglio e calza degli stivaletti col tacco. Mentre cammina mi accorgo che conta le piastrelle e posa accuratamente il piede su una sì e una no. Mi sorride e io le sorrido con dolcezza, ma spero che non si sieda vicino a me, non ce la potrei proprio fare a intavolare una conversazione con lei. Ci sono altre cinque persone già sedute. Noto una donna sulla quarantina accuratamente abbigliata anni venti con una giacca rosa pastello e un cappellino che farebbero invidia alla regina d’Inghilterra, un tizio giovanissimo ma con aria da vecchio intellettuale di sinistra con giacca e pantaloni di velluto marroni a coste, una signora vestita in modo sciatto con un gonnellone e una maglia larga di cotone che sembrano abbinate un po’ a caso e un’altra giovane donna vestita con dei jeans e una t-shirt e i capelli tinti di viola.

    Prendo posto di fianco a un ragazzo, o meglio un uomo, ma che per via del sorriso e degli atteggiamenti bambineschi sembra più un ragazzo, non molto alto e con il viso paffuto. Ha i capelli ricci e la faccia simpatica. Mi dice che ho un bel vestito e sono molto elegante e di classe. Probabilmente è gay, ma non lo ostenta, sembra davvero simpatico e potrebbe diventare un mio fedele alleato per sopravvivere in quel gruppo. Fra tutti mi sembra il migliore. Poi arriva la moderatrice, la classica psicologa stronza che sa già tutto. Magari lo sa davvero, ma io non amo gli psicologi e la psicologia in generale. Esistono davvero troppe variabili nell’universo per poter inquadrare tutto in poche regole che riconducono tutto all’infanzia e al rapporto con i genitori. Credo inoltre che la teoria freudiana secondo cui una donna dica no anche se in realtà vorrebbe dire sì, sia la madre di tutti gli stupri. Qualche anno prima ero dovuta scappare da uno psicologo che si era invaghito di me. Il professionista della psiche pensava che io gli dicessi che non mi interessava, ma invece il mio subconscio pensasse il contrario. Secondo lui mi ero vestita bene sapendo che lo avrei incontrato e che quindi ero attratta da lui. Invece gli avevo dovuto spiegare che quello che indossavo era il vestito più casual che mettevo di solito in ufficio.

    Tornando a quella sala fredda e piena di gente stramba, iniziano le presentazioni: il mio vicino di posto si chiama Aldo, la signorina anni venti si chiama Margherita. Memorizzo giusto i nomi delle persone con cui mi potrei alleare. Presto arriva il mio turno e prendo la parola cercando di respirare regolarmente. Mentre lo faccio mi sento davvero fuori luogo in quel gruppo di scappati di casa: cosa ci faccio qui? Ma alla fine penso che, tutto sommato, i miei racconti possano solo strappare qualche sorriso a quel gruppo di strambi e di certo non saranno loro a giudicarmi. Mi rilasso e decido di entrare in modalità oratrice brillante. Penso che loro, i partecipanti in balia della strizzacervelli stronza, probabilmente devono avere avuto delle sfortune reali nella vita, io invece sono una persona fortunata e sono stata pienamente artefice del mio destino. Che idea del cavolo quella di fargli ritrovare il libro davanti alla porta di casa, mannaggia a me e a lui.

    Decido di presentarmi così, con profonda onestà rispetto a quello che sono e anche con un po’ di spavalderia nel raccontarlo. Comincio. Non posso certo incolpare la cattiva sorte di essere arrivare single a trentacinque anni. Più semplicemente in un universo relazionale sempre più dissoluto, i treni buoni che passano sono ben pochi e per una decina d’anni io sono stata impegnata a diventare qualcuno piuttosto che la moglie di qualcuno. Pochi giorni dopo essermi laureata, ho iniziato a lavorare nel campo dei media. Facevo l’editor freelance per pubblicità e televisione, ma speravo di iniziare presto a fare la producer. Avevo già avuto qualche esperienza professionale prima della laurea. Avevo partecipato alla realizzazione di un documentario, che era stato poi selezionato per una rassegna nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Prima ancora mi ero occupata di un piccolo festival cinematografico indipendente, per il quale avevo lavorato praticamente gratis, ma grazie a quel lavoro avevo conosciuto un’umanità varia e diversa di registi e attori. Inoltre avevo fatto un viaggio divertente e surreale a Los Angeles per organizzare lì una piccola rassegna. Avevo visto davvero quella realtà raccontata nei telefilm americani di aspiranti attori, leccapiedi, connazionali immigrati lì a cercare fortuna nel mondo del cinema. Avevo realmente partecipato a quelle feste in casa organizzate con il passaparola, in cui nessuno conosce nessuno e tutti aprono liberamente il frigo per prendere la birra fresca. In pochi mesi ero stata travolta da un uragano di esperienze e di umanità totalmente diverse dalla realtà piccolo borghese e provinciale del luogo nel quale ero cresciuta. Avevo avuto un cambiamento repentino della personalità. Poco tempo dopo essere tornata a casa avevo scaricato il ragazzino che frequentavo allora, Alberto, il quale pensava che mi avrebbe sposata entro un paio di anni, appena mi fossi laureata. Suo obiettivo finale: prendere una casetta insieme e vivere per sempre in provincia felici e contenti. Magari nella sua testa io avrei rinunciato a fare la producer e avrei cercato lavoro come impiegata vicino a casa, per poter terminare alle cinque e prendermi cura dei nostri figli. Ovviamente lui era contrariato e spaventato dal mio nuovo atteggiamento cosmopolita, dalla mia ambizione di vivere in città e di fare carriera. Quindi si era alzato un muro di ostilità fra di noi e la storia era terminata.

    Diciamo che per essere una venticinquenne, non ero esattamente la donzelletta che veniva dalla campagna, anzi avevo l’occhio lungo ed ero già abbastanza critica verso il genere maschile e l’umanità in

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