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La storia della Chiesa in 100 vite
La storia della Chiesa in 100 vite
La storia della Chiesa in 100 vite
E-book465 pagine6 ore

La storia della Chiesa in 100 vite

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Info su questo ebook

La loro storia ha riscritto la storia

Le vite dei 100 personaggi che hanno fatto la storia della Chiesa

Uno straordinario viaggio di oltre duemila anni attraverso le vite di coloro che hanno lasciato un segno, determinato una svolta o accelerato cambiamenti e crescita della Chiesa, dalla sua fondazione.
Chi furono coloro che rimasero incantati dalla personalità e dalle parole di Gesù di Nazareth dando inizio alla prima comunità cristiana? Quando sono vissuti e che cosa hanno scritto i Padri della Chiesa? Quali sono stati i papi, cardinali e vescovi che, attraverso i secoli, hanno determinato scismi, si sono avventurati in riforme e hanno gettato i semi di battaglie e guerre che hanno cambiato il corso della storia? Tra i cento nomi dei personaggi a cui in larga parte si deve l’istituto della Chiesa moderna, ci sono anche quelli di uomini e donne che hanno abbandonato famiglie e sicurezze per seguire il richiamo della fede, il desiderio di aiutare il prossimo e la volontà di aderire alle indicazioni delle sacre scritture. Una raccolta di vite che si intreccia con lo scorrere delle epoche e che ha fatto del cristianesimo la comunità religiosa più popolosa e diffusa del mondo.

I 100 personaggi che hanno fatto la storia della Chiesa

Tra i 100 personaggi:

• Maria di Nazareth, una ragazza madre e il suo promesso sposo
• Marco, l’evangelista che aveva paura
• Saul, Paolo di Tarso, l’uomo di legge che scoprì la misericordia
• Policarpo, l’epoca dei martiri
• Lattanzio, dalla misericordia alla maledizione
• Costantino, le bugie dell’imperatore
• Silvestro II, il papa mago che studiò dagli arabi
• Gregorio VII, le “investiture”: orgoglio e umiliazione
• Gioacchino da Fiore, profeti nella storia
• Innocenzo III, il potere e la spada
• Valla, l’uomo che svelò l’antico inganno
• Calvino, una città secondo Dio
• Enrico IV, «Parigi val bene una messa»
• Bernadette Soubirous, la teologia alla grotta
• Teilhard de Chardin, la scienza, la Chiesa, il Cristo totale
• Teresa di Lisieux, la santità alla prova del quotidiano
• Lucia di Fatima, le profezie e la lotta contro il male
• Luigi Sturzo, il sogno di una democrazia cristiana
• Giovanni XXIII, la scommessa di un povero prete
• Madre Teresa, la “chiamata nella chiamata”
• Giovanni Paolo II, muri che cadono, muri che crescono
• Francesco. I migranti, le docce e un giubileo
Natale Benazzi
è nato nel 1961 a Legnano. Vive a Milano. Teologo, ha collaborato con l’Ufficio beni culturali della Conferenza Episcopale Italiana ed è membro della Fondazione Sant’Ambrogio per la cultura della Diocesi di Milano. Nell’ambito della storia della Chiesa ha curato l’antologia Archivum. Documenti della storia della Chiesa dal I secolo a oggi e ha pubblicato molti volumi tra cui: Il libro nero dell’inquisizione; La Chiesa non risponde; Dieci domande scomode a Gesù e 1001 fatti della storia della Chiesa e La leggenda del Santo Imperatore.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2016
ISBN9788854199354
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    Anteprima del libro

    La storia della Chiesa in 100 vite - Natale Benazzi

    451

    Prima edizione ebook: novembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9935-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Natale Benazzi

    La storia della Chiesa in 100 vite

    Le vite dei 100 personaggi

    che hanno fatto la storia della Chiesa

    Newton Compton editori

    Nota

    Questo libro nasce per raccontare, in modo semplice per quanto è possibile, la storia della Chiesa attraverso cento fra i suoi protagonisti. Ciò presuppone qualche breve considerazione preliminare.

    I cento protagonisti sono stati scelti in quanto interpreti di un’idea, di un periodo, di un ruolo; si poteva, in alcuni casi, decidere diversamente? Certo. Sarebbe interessante che ogni lettore ricostruisse una sua personale storia della Chiesa con altri cento personaggi; ne scaturirebbero idee interessanti di lettura, di rilettura, forse anche meno scontate e più affascinanti.

    Cento vite sono molte, ma per 2000 anni sono pochissime. Impongono quindi rinunce dolorose: una su tutte riguarda le Chiese d’Oriente, in questo volume quasi completamente assenti. Ce ne dogliamo, e potremmo con onestà affermare che la presente è, più propriamente, una Storia della Chiesa occidentale in cento vite.

    Anche delle Chiese sorelle d’Occidente, in realtà, qui parliamo pochissimo: del protestantesimo, anglicanesimo e di tutte le ramificazioni nordamericane non si fa cenno se non per i fondatori (e anche in questo caso, non di tutte le figure che meriterebbero un cenno); per cui potremmo dire che miglior titolo sarebbe: Storia della Chiesa cattolica d’Occidente in cento vite.

    E potremmo continuare, ampliando e specificando, così che si riveli, da un lato, la complessità della vicenda della fede cristiana nel tempo e, dall’altro, la nostra limitatezza, di cui ben siamo consapevoli.

    Di una cosa, però, ci sembra di essere certi: della volontà di mostrare, in queste vite, l’ombra e la luce che accompagnano da sempre la storia di una delle più straordinarie e discusse vicende che abbiano mai attraversato i secoli. Ombra e luce. Peccato e misericordia. Questa dialettica è centrale, per chi non voglia scrivere né una denigrazione né un’apologia.

    Checché si pensi (e parafrasando Benedetto Croce), in Occidente siamo tutti figli di una tradizione cristiana: mutata, tradita, consegnata, deturpata, ritrovata e nuovamente perduta.

    Buona lettura.

    1. Maria di Nazareth

    Una ragazza madre e il suo promesso sposo

    Tutto cominciò con un angelo e una ragazza madre.

    Può essere un buon esordio. Da qualche parte bisogna pur cominciare, e la domanda: «Quando cominciò la Chiesa?» è certamente una di quelle cui non è facile rispondere con un’indicazione precisa. Qualcuno sostiene che la Chiesa iniziò con l’addio che Cristo diede agli uomini, tornando al Padre, nell’attimo stesso dell’Ascensione; altri che la fondazione avvenne con la discesa dello Spirito Santo presso i discepoli riuniti con Maria nella camera alta, quella dove avevano celebrato giorni addietro l’Ultima Cena; altri ancora che la Chiesa era già stata generata proprio in quella drammatica Cena…

    Potremmo continuare a proporre date, inizi, ripartenze. Ma una cosa rimane certa: che se una ragazza di Nazareth non avesse dato ascolto a un angelo (lasciamo perdere, qui, ogni problema di critica storica, ogni discussione: consegniamoci all’avventura, per una volta), accogliendone il messaggio e vivendolo, poi, nella fatica dei giorni e della propria inevitabile solitudine di ragazza-madre, non ci sarebbe stato Cristo, né gli apostoli, né la passione morte risurrezione, né la Cena, né l’Ascensione, né alcuno Spirito donato agli uomini.

    O forse, sì: ci sarebbe stato ancora tutto, ma non nella maniera che ci è dato conoscere. Per cui, da questa donna è necessario partire, quando si voglia parlare della Chiesa e della sua avventura.

    Fu pochi anni prima della data che noi serbiamo come anno zero che a Nazareth di Galilea, un paesino che qualcuno persino dubita sia davvero esistito, una fanciulla ebrea di circa quindici anni si trovò «incinta per opera dello Spirito Santo». La frase è del Vangelo di Matteo¹, autore che contestualizza accuratamente i fatti e afferma con apparente naturalezza quel che ai più sembra impossibile: la ragazza era «promessa sposa a un uomo di nome Giuseppe», giovane carpentiere (benché le immagini che lo raffigurano lo indichino sempre come un vecchio), che doveva prestare la sua opera nell’importante centro di Sefforis (l’odierna Zippori), distante circa 6 chilometri.

    Pochissimo sappiamo e molto ci tocca immaginare, per ricostruire il più sensatamente possibile quel che poté accadere.

    Doveva essere tornato, dopo il lavoro, Giuseppe: Maria lo aveva atteso come ogni sera, per riaccoglierlo nel piccolo paese, un viculus, un villaggetto, come lo avrebbe chiamato san Gerolamo pochi secoli dopo. Gli sguardi che si incrociano sono quelli di sempre: stanco il promesso sposo; con un sorriso un poco preoccupato, la futura sposa. Ma la preoccupazione di lei, questa sera, non è la medesima di sempre: non è per lui, per la stanchezza che lo accompagna a casa; è per sé, per entrambi. Avrà detto, Maria, le parole terribili in quell’attimo? «Aspetto un figlio…», sconcertando l’uomo e ogni suo ideale di buon ebreo? O avrà cercato, innanzitutto, di scusarsi, come si fa quando si ha la percezione di un male inevitabile: «Non ti arrabbiare… devo dirti una cosa…». O, semplicemente, avrà posato la mano del fidanzato sul proprio ventre, lasciando intuire nel silenzio l’inevitabile? O, infine, avrà taciuto fino a che il ventre stesso fosse divenuto parola, col suo gonfiore?

    Sono soltanto due i Vangeli che parlano di questo avvenimento: quello di Luca e quello di Matteo. E in nessuno dei due è riportato alcun dialogo. In entrambi, è come se ciò che sta avvenendo accada solo nei cuori, nel silenzio interiore, nell’improvvisa solitudine di quella coppia consegnata inconsapevolmente alla storia del mondo.

    In Luca, Giuseppe appare soltanto a cose fatte; la sua presenza ci viene rivelata mentre, con la sposa incinta, va verso Gerusalemme, per il censimento. Prima di quel viaggio, egli è l’uomo cui Maria è stata promessa, null’altro. Non ha voce in capitolo: esiste e agisce.

    In Matteo il suo ruolo è più complesso: viene a sapere che la futura sposa è gravida – e sa benissimo che il figlio non è suo; decide di rimandarla alla famiglia di origine, in segreto, per non esporla da subito alle critiche della gente del posto. Potrebbe denunciarla per adulterio (per legge, la sposa promessa ha i medesimi obblighi della moglie), esporla persino alla morte per lapidazione. Non ne ha il cuore. Non si capacita dell’accaduto, neppure vuole indagare. Non farti più vedere, vorrebbe dirle. Ma non lo fa. Non ancora. Lascia passare una notte. E in quella notte, secondo il racconto di Matteo, è a lui che appare l’angelo dicendogli:

    Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. […] il bambino che è generato in lei […] lo chiamerai Gesù […] salverà il suo popolo dai suoi peccati.²

    Così nasce la Chiesa.

    Gesù lo dirà con chiarezza, più di trent’anni dopo, quando predicherà il seme del Regno di Dio lungo le strade di Galilea: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»³. Maria e Giuseppe sono di questo genere: «due» che accettano di essere «riuniti nel nome» di quel Gesù, che stava per dividerli e che, invece, li unisce per sempre.

    2. Simone Cefa

    Una fragile pietra alla guida della Chiesa

    Sono trascorsi poco più di trentacinque anni dall’annuncio dell’angelo alla ragazza di Nazareth; Gesù, il figlio di quella giovane donna, ha già sconvolto la regione ebraica della Galilea con una predicazione mai udita prima. Le sue idee l’hanno portato alla morte, una delle più infami e infamanti: è stato crocifisso.

    I suoi discepoli, che l’avevano seguito per tre lunghi anni, si sono dispersi, inizialmente, per paura di fare la medesima fine del Maestro. Poi, attorno a un’idea che a molti appare folle, sono tornati a riunirsi, in una stanza, a Gerusalemme: la camera alta, così sarà chiamata. L’idea, affiorata dopo gli ultimi eventi, è che Gesù sia tornato dai morti, sia risorto. Alcune donne hanno trovato vuota la tomba dove era stato sepolto. Altri dicono di averlo persino incontrato; di avergli parlato; di aver mangiato con lui pane e pesci; di averlo, infine, veduto salire al cielo. Ora, cinquanta giorni dopo quei fatti, sono di nuovo tutti insieme. C’è anche la madre. E accade che

    venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.

    Il gruppo dei discepoli, sconvolto da questa improvvisa estasi, esce per le strade. Il primo a prendere la parola e a dare inizio all’annuncio di quella che è la neonata comunità cristiana, è un pescatore nato a Betsaida⁵, città della Galilea, che si affaccia sul lago di Tiberiade, a nord-ovest; egli è vissuto per anni a Cafarnao, dove probabilmente aveva anche preso moglie⁶. Il nome di quest’uomo è Simone, ma tutti ormai, nella cerchia dei discepoli di Gesù di Nazareth, lo chiamano Cefa, Pietro. Non è un uomo di cultura; non è un rabbino, un maestro della Legge; non è un personaggio dai nobili natali. Non fu il primo a essere chiamato, né colui che resistette con coraggio insieme a Gesù sotto la croce. Non ebbe nulla, Simone Cefa, per essere destinato a un ruolo primaziale all’interno della cerchia degli apostoli. Eppure la sua parola è forte, decisa. La tradizione lo consegnerà alla Chiesa come il primo papa e, quando ci si dovesse chiedere perché Gesù aveva consegnato proprio a lui «le chiavi del Regno dei cieli»⁷, si resterebbe senza alcuna risposta.

    Era stato chiamato, Simone, mentre stava svolgendo il quotidiano lavoro, ovvero pescava sul lago di Galilea, o almeno questa è la versione di Matteo e di Marco: «mentre camminava lungo il mare di Galilea», raccontano gli evangelisti,

    Gesù vide due fratelli, Simone e Andrea, che gettavano le reti; erano infatti pescatori. Disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini».

    Poco dopo, Gesù avrebbe chiamato, sulla medesima spiaggia, altri due fratelli del medesimo mestiere dei primi: Giovanni e Giacomo.

    Ma il Quarto evangelista ha una storia diversa da proporci. Il contesto geografico è mutato: siamo in Giudea. Andrea è, qui, discepolo di Giovanni Battista e segue Gesù su indicazione dello stesso asceta, andando poi a invitare Simone e ad annunciargli: «Ho conosciuto il Messia!». È allora che Gesù vede il pescatore e gli muta il nome, da subito: «Tu sei Simone, figlio di Giovanni: sarai chiamato Cefa», che significa Pietro⁹.

    Nella varietà dei racconti, una cosa rimane certa: Simone e suo fratello Andrea, con Giovanni e Giacomo, furono i primi a mettersi sulle tracce del profeta di Nazareth ed ebbero sempre un ruolo centrale nella cerchia dei discepoli, fondamenta del gruppo apostolico e, inevitabilmente, della futura Chiesa.

    Simone doveva essere di carattere generoso, espansivo, immediato: uno di quegli amici che tutti desiderano avere, su cui si può contare per le piccole cose quotidiane; un uomo concreto, appassionato. I quattro Vangeli sono concordi nel riportare episodi in cui questa passionalità emerge nelle sue varie sfaccettature; Simone Cefa è davvero un personaggio a tutto tondo, di quelli che fanno la fortuna dei narratori.

    Il primo episodio in cui il carattere del discepolo emerge è quello della pesca miracolosa, narrato da Luca: il gruppo dei pescatori di Galilea è duramente provato, dopo una notte trascorsa in inutile attesa; Simone sta pulendo le reti, di buon mattino. Gesù lo invita a non rinunciare, a tentare ancora; Simone accetta; pur scettico, decide di fidarsi. Getta le reti e sembra, questa volta, che i pesci facciano a gara per entrarvi. Tutti sono stupiti, ma solo Simone trae conseguenze decisive per la propria esistenza: come può stare, lui, pover’uomo, di fronte a questo Nazareno che ha potere sul mondo animale? Si getta ai suoi piedi e si dichiara peccatore¹⁰.

    Le forze naturali, d’altronde, sono l’habitat naturale di Simone; egli sa bene quanto sia complesso avere su di esse anche piccole quotidiane vittorie. Nella natura egli è cresciuto, della natura e dei suoi frutti vive, per la natura e le sue resistenze ha rischiato più volte di morire.

    Una notte vede un’ombra avvicinarsi alla barca, e gli sembra d’essere allucinato: pare un uomo che cammini sul filo dell’acqua. Assurdo. Simone fa cenno agli altri compagni. Hanno tutti paura. Riconoscono Gesù, il Maestro, ma la faccenda è talmente sconcertante, che pensano sia un dèmone che sta ingannandoli, un fantasma che si spaccia per l’amico. «Sono io», dice Gesù. Simone Cefa vuole una conferma: «Se sei tu, fa’ che io venga da te sulle acque!». Gesù lo invita, allora, e Pietro osa l’inosabile, per puro istinto: scende dalla barca; poggia i piedi sulla liquidità del lago; affonda, come è logico che sia; si spaventa; affonda ancor di più; deve essere preso per mano e ricondotto in modo umiliante tra gli altri che non hanno tentato quella follia a tutti evidente, ma non a lui, che si prende anche un rimbrotto: «Uomo di poca fede!»¹¹. Sì, è vero: ha poca fede e lo sa; lo saprà sempre. Ma è anche l’unico che quella poca la mette in gioco tutta, a rischio della vita, oltre le proprie umanissime paure, senza rispetto umano, senza alcuna vergogna.

    Ancora un episodio, quello che cambierà il futuro stesso dell’apostolo. Gesù chiede cosa pensi la gente di lui, fa un veloce sondaggio, come diremmo oggi; si aspetta una sorta di feedback sulla propria missione. Le risposte sono le più svariate e fantasiose: Mosè, Geremia, Elia, qualche profeta tornato dalla morte, Giovanni Battista reincarnato…; poi chiede ai discepoli: «E voi? Chi pensate che io sia?». Possiamo immaginare un lungo silenzio imbarazzato: non doveva essere facile osare un giudizio su Gesù di Nazareth. Eppure Simone non sembra avere di questi problemi, e sbotta: «Tu sei il Messia, il consacrato di Dio!». Osa e riceve la ricompensa di una rarissima lode del Maestro e una vera e propria investitura per il futuro suo e della Chiesa:

    Beato tu, Simone, figlio di Giona, poiché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli!¹²

    Solo Matteo, in realtà, riporta questa missione petrina: gli altri evangelisti non ne fanno alcun cenno. Ma è proprio da queste affermazioni che la Chiesa percepirà il ruolo di Simone Cefa come unico e insostituibile; in questa affermazione sta gran parte della teologia del papato, fino a oggi. Simone detto Pietro ha ricevuto il potere delle chiavi, che sarà tramandato ai suoi successori, nei secoli.

    Se tutto si fosse concluso in questo modo, sarebbe semplicemente l’apologia di un potere. Ma, come per tutti gli uomini, anche per Simone la fede proclamata dovette fare i conti con la dura realtà. D’altronde, proprio in questo sta il complesso mistero di Pietro e, con ogni evidenza, il mistero medesimo della Chiesa.

    Quando Simone Cefa aveva detto: «Sei il Cristo», la sua definizione era vuota; era un modo di dire disincarnato. Toccava a Gesù riempire quel che mancava. E il Messia venuto da Nazareth comincia, in effetti, a spiegare ai discepoli che dovrà molto soffrire, a Gerusalemme, e venire ucciso, per poi risorgere il terzo giorno. È allora che Simone prende il suo Maestro in disparte e, dopo averlo riconosciuto come inviato di Dio, lo rimprovera per quegli strani discorsi, incomprensibili. Simone è irritato: «Che discorsi sono questi? Tu sei una guida, e le guide non muoiono! Abbiamo bisogno di un profeta vivo, positivo, che infonda speranza; di un Messia che ci liberi, non di un Cristo che ci abbandoni morendo come chiunque!». Ne viene, fra i due, un vero e proprio scontro, durissimo, in cui Gesù, potremmo dire, rimette Simone al proprio posto: «Torna a stare dietro di me, Satana! Mi sei di ostacolo! Perché tu non pensi al modo di Dio, ma degli uomini».

    La Chiesa nasce così (la Chiesa di Simone Cefa e quella di ogni giorno): nella dialettica della comprensione e dell’incomprensione; nella certezza della presenza divina e nella fatica ad accettare che questa presenza non asseconda il potere dell’uomo, ma ne rimane ferita, ne viene uccisa. Questo scontro tra due modi di comprendere Dio, quello di Gesù e quello di Pietro, quello del Maestro e quello del discepolo, troverà il suo epicentro il giorno dell’arresto del Nazareno nell’Orto degli Ulivi.

    La notte del Getsemani, che segue l’Ultima Cena, vede nuovamente Simone Cefa prendere il ruolo dell’antagonista tragico. Chiamato da Gesù, insieme a Giacomo e a Giovanni, a stargli vicino nella sua ultima, triste preghiera prima di essere arrestato, Pietro si addormenta, con gli altri due e, nel sonno, viene trovato da Gesù che torna dal colloquio col Padre: «Non siete stati in grado di vegliare un’ora con me?» è il commento, mesto, del Nazareno¹³. Poco dopo, quasi per reazione a quell’umiliante episodio notturno, quando i soldati giungono a catturare Gesù, Pietro si lancia in un goffo tentativo di difesa dell’amico: estrae una spada e colpisce uno della guardia del sommo sacerdote, tagliandogli un orecchio. Ma anche questo sembra che al Maestro non vada bene: «Rimetti la spada nel fodero», lo redarguisce nuovamente Gesù, prima di porre la sua mano sul ferito. Sarà l’ultima volta che Gesù guarirà un uomo¹⁴, e quell’ultimo, sanato, è proprio Simone ad averlo colpito. In quella notte di tradimento, sembra che Pietro si perda, inesorabilmente, passo dopo passo; in quella notte in cui il suo Maestro se ne va in silenzio, come il peggiore degli assassini, egli non sa più che parte prendere.

    Non si rassegna ancora, però: e insieme a un altro discepolo segue Gesù fin nel cortile della casa del sommo sacerdote, dove sta per essere messo in scena il processo religioso. Lì, attorno al fuoco, Simone Cefa viene avvicinato da tre servi, uno dopo l’altro, che sembrano riconoscerlo come uno dei seguaci del profeta di Galilea. Per tre volte gli domandano: «Sei anche tu un discepolo di Gesù?» e per tre volte, Simone il perduto, Simone lo spaventato, Simone nega, in un crescendo vorticoso che culmina nella rabbia di una risposta secca, spezzata: «Non so neppure chi sia quest’uomo!».

    In qualche modo è vero: Pietro non sa più chi sia quel povero Cristo che stanno maltrattando, nel quale non riconosce più il redentore sognato. Ogni speranza si è allontanata, ormai, come i giorni meravigliosi del lago di Galilea.

    Eppure, in quell’abbandono dell’amico, che pare senza possibilità alcuna di remissione, in quella notte tragica, Simone Cefa ha un ultimo sussulto: sente cantare un gallo, che gli ricorda come il Maestro gli avesse annunciato: «Prima che il gallo canti, mi avrai rinnegato per tre volte»¹⁵, e scoppia in lacrime, come un bambino.

    La Chiesa, che nasce da Pietro, sa di essere comunità non sempre fedele. Perciò deve essere Chiesa capace di lacrime, che leniscano le ferite e aprano il cuore al perdono. Poiché il perdono, per Pietro e per gli altri, non tarderà a venire.

    Se, infatti, i giorni della passione di Gesù si chiudono nel drammatico modo che tutti conoscono, con la crocifissione impudica, con la violenza del potere religioso e di quello civile uniti, con l’abbandono degli amici; i giorni che seguono sono quelli della speranza, nonostante tutto. Simone Cefa è nuovamente protagonista: è lui, secondo il Quarto Vangelo, a entrare per primo nel sepolcro e a constatare che il corpo di Gesù non è più lì¹⁶. Ma è lui, soprattutto, a farsi incontro, nuovamente e come un tempo, al Risorto che si fa presente in quella che, ormai, è la prima comunità cristiana. L’episodio avviene nuovamente di notte: una notte che sembra triste come quella del Getsemani, ma che avrà ben altra conclusione. È sempre il Quarto Evangelista a narrare¹⁷: Pietro e gli altri sono tornati a fare i pescatori e, mentre stanno chiudendo l’ennesima notte di poco frutto e di tanta fatica, ecco che vedono un uomo sulla riva. La scena si ripete come un tempo: lo sconosciuto invita i delusi pescatori a gettare la rete sul lato destro della barca. Il risultato è straordinario al punto che le reti sembrano spezzarsi per la quantità di pesci raccolta. Simone Cefa non ha più dubbi: «È il Signore!», e con la solita passione si getta a nuoto per raggiungerlo, mentre gli altri portano lentamente a riva la barca. I pescatori e il risorto siedono, insieme, alla mensa improvvisata sulla spiaggia, e si nutrono dell’insperato frutto del lavoro. Poi Gesù prende Simone Cefa in disparte e, per tre volte, lo interroga sul suo amore, sulla sua fedeltà: «Simone figlio di Giona, mi ami?». Tre volte Pietro ribadisce un amore fraterno, di amicizia, ben sapendo di non essere in grado di dare al Maestro la dedizione assoluta che gli chiede: non ha mai saputo amare, Pietro, ora ne è consapevole. Eppure, alla fine di questo colloquio, Gesù gli affida la sua Chiesa: «Pasci i miei agnelli!» Ricordando al pescatore di Galilea che gli agnelli non a lui appartengono (ma sono di Cristo), Gesù lo invita a prendersene cura.

    Colui che aveva per primo riconosciuto il profeta di Nazareth come il Messia, ora ha la responsabilità della comunità che nasce. La sua fragilità è divenuta forza, poiché alla fine della vicenda egli sa cosa significhi accettare il mistero di Gesù; e avendo conosciuto il male per averlo commesso di persona, proprio per questo è il miglior pastore possibile della Chiesa futura. Non peccherà più d’orgoglio; non avrà più vergogna delle proprie ferite. Quando, dopo la discesa dello Spirito Santo, uscirà a parlare con coraggio al popolo; quando annuncerà quella morte di Cristo che non voleva comprendere; quando accoglierà per se stesso la medesima fine del Maestro (secondo un’antica tradizione, Simone viene crocifisso a Roma, a testa in giù), egli sarà davvero e finalmente Pietro.

    Un ultimo accenno, inevitabile. Quando Gesù aveva affermato: «…su questa pietra edificherò la mia Chiesa», non stava parlando di Simone. Ma di ciò che Simone aveva appena detto: «Tu sei il Cristo». È questa confessione la pietra che fonda la Chiesa; è l’affermazione messianica su Cristo, non il discepolo stesso, a fondare la comunità dei credenti.

    La leggenda del Quo vadis

    Una delle pagine più belle e intense che la tradizione ci abbia lasciato su Simone Cefa e il suo martirio è contenuta in quell’apocrifo che va sotto il nome di Atti di Pietro, scritto probabilmente nella seconda metà del ii secolo. Secondo questa narrazione, Pietro è a Roma, quando esplode la persecuzione neroniana: invitato da altri amici e condiscepoli, decide di abbandonare la capitale dell’Impero per salvarsi la vita. Ed ecco che, mentre esce dalle mura, vede il suo Maestro farglisi incontro e prendere decisamente la direzione della città da cui lui sta invece fuggendo.

    Pietro lo ferma e gli domanda: Quo vadis, Domine?, Dove vai, Signore?.

    Gesù risponde di stare andando a Roma, per essere crocifisso nuovamente.

    Pietro allora comprende: il suo Maestro gli ha donato la vita e lui non può fare di meno, ora che ha capito il senso del Vangelo e dell’amore. Torna sui propri passi e si consegna al martirio.

    Quando saranno sul punto di crocifiggerlo, sempre secondo il racconto degli Atti, Pietro avrà un ultimo desiderio, essere posto a testa in giù sulla croce, per significare la caduta dell’uomo verso la terra e la necessità di essere, nuovamente, da Cristo salvato.

    3. Giacomo il Giusto

    L’uomo che chiamavano fratello di Gesù

    La comunità che nasce a Gerusalemme, e che incarna il primo nucleo della Chiesa, ha una struttura più complessa di quel che oggi si tenda a pensare. I ritrovamenti degli scritti di Nag Hammadi¹⁸, su tutti, e la consapevolezza ormai acquisita che moltissimi testi antichi sono stati perduti, hanno portato gli studiosi a ripensare quasi da zero la storia della comunità cristiana primitiva.

    Tra le figure che certamente spiccano in questa ampia revisione di prospettive, c’è quella di colui che la tradizione ci consegna con il nome di Giacomo il Giusto.

    Nei Vangeli, i personaggi citati con il nome di Giacomo sono quattro:

    • il figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, identificato come Giacomo il Maggiore;

    • il figlio di Alfeo, apostolo a sua volta, detto il Minore per distinguerlo dall’altro;

    • il padre dell’apostolo Giuda Taddeo;

    • infine, Giacomo il Giusto, appunto, che Paolo di Tarso, nella lettera ai Galati, nomina come «il fratello del Signore»¹⁹.

    Alcuni ritengono che il Giacomo fratello del Signore sia anche il figlio di Alfeo; per costoro, dunque, Giacomo il Giusto, il fratello del Signore, e l’apostolo detto Giacomo il Minore, sarebbero la medesima persona. Già questo piccolo enigma basta a confermarci quanto possa essere complesso ricostruire il mondo dei primi anni del cristianesimo.

    Alcuni fatti paiono però accertati:

    - Giacomo il Giusto fu a capo della Chiesa di Gerusalemme dai giorni della morte e risurrezione di Gesù fino all’anno 62, quando subì il martirio per lapidazione, in seguito alla condanna comminatagli dal sommo sacerdote Anania;

    - egli è anche l’autore della Lettera di Giacomo che fa parte del Nuovo Testamento, quella stessa che Lutero rifiuterà di riconoscere, chiamandola lettera di paglia perché troppo legata al mondo legalistico giudaico;

    - è la figura con cui Paolo di Tarso ebbe maggiori tensioni, proprio a causa delle posizioni contrastanti sulla questione della Legge ebraica.

    Dal poco che sappiamo, dunque, Giacomo il Giusto fu uomo profondamente ancorato alla tradizione di Israele: la sua Lettera lo testimonia, come anche le ulteriori tensioni che vi furono tra i suoi seguaci, Simone Cefa e ancora Paolo. Tra tutte, la più significativa avvenne proprio in quella Antiochia che era, negli anni prima del 50, uno dei centri più importanti della giovane comunità cristiana. Simone Cefa, che vi si era recato in visita, aveva accettato di seguire alcune indicazioni di Paolo, strenuo sostenitore del fatto che i Greci convertiti al cristianesimo non dovessero sottostare alle leggi giudaiche, né per quanto riguardava l’obbligo della circoncisione, né per le regole di purità alimentare. Simone, mangiando a tavola insieme ai cristiani greci, aveva avallato, di fatto, la tesi paolina. I seguaci del partito di Giacomo consideravano, dal canto loro, questa posizione come una grave mancanza e sostenevano piuttosto la necessità della circoncisione per tutti i credenti in Cristo, anche per i non Ebrei, oltre all’obbligo di sottostare completamente alla Torah, alla Legge veterotestamentaria per chiunque diventasse cristiano.

    Quando dunque ad Antiochia giunsero alcuni emissari di Giacomo, Simone Cefa sembrò prendere le distanze da Paolo e non si fece più vedere a tavola con i non circoncisi, di fatto rimangiandosi la parola e lasciando l’apostolo di Tarso e i suoi a difendere, da soli, la tesi della libertà cristiana dalla Legge. È Paolo stesso, nella Lettera ai Galati, a raccontare di essersi adirato e non poco, in quell’occasione, prendendo posizione durissima contro Simone fino ad accusarlo di codardia²⁰.

    La questione montò al punto che dovette essere discussa in un concilio, fissato a Gerusalemme attorno al 49: lì, la prima comunità cristiana deliberò che, per entrare a far parte pienamente della Chiesa, non era necessario farsi prima ebrei, né rispettare le leggi ebraiche legate alla purezza cultuale e alla liturgia. Nel Concilio di Gerusalemme, se vogliamo, la primitiva Chiesa si emancipava dal legame stretto con il mondo di Israele, da cui peraltro veniva e in cui aveva le proprie radici. Il partito di Giacomo il Giusto usciva sconfitto; quello di Paolo di Tarso era vincitore. La conseguenza immediata segnò i decenni seguenti: la giovane comunità cristiana prendeva decisamente la strada del mondo greco e latino.

    La morte di Giacomo il Giusto, nel 62, e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte delle truppe romane, nel 70, avrebbero significato, di lì a pochi anni, anche lo scomparire quasi totale del cristianesimo giudaico, del giudeo-cristianesimo. La Lettera di Giacomo, che entrò comunque a far parte del canone ufficiale degli scritti neotestamentari, fu l’unica sopravvivenza di un pensiero presto divenuto minoritario: quello della necessità della Legge, dell’obbedienza alla Legge, contro l’idea che bastasse un’astratta fede, una grazia divina disincarnata a salvare l’uomo.

    Avrebbe scritto Giacomo, lasciando ai posteri questo testo come monito:

    A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non opera? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e dite loro: «Va’ in pace, riscaldati e saziati», ma non date il necessario per il corpo, a che serve la vostra fede? […] la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.²¹

    Gesù aveva fratelli? (e, di conseguenza, Maria non era vergine?)

    Una parola va detta sulla fratellanza di Giacomo con Gesù, a causa delle conseguenze che essa trascinerebbe con sé per il dogma cattolico: nel Secondo Concilio di Costantinopoli, del 553, era stata infatti definita come verità di fede la Verginità perpetua (prima, durante e dopo il parto) di Maria, Madre di Cristo.

    Se Giacomo il Giusto, però, è fratello di sangue di Gesù, significa che è figlio di Maria, e che la stessa non fu sempre vergine. La messa in crisi di questa definizione non è per nulla banale a causa delle sue ricadute sul concetto stesso di dogma: se si dovesse infatti affermarne la non verità, cadrebbe di conseguenza, per effetto domino, un intero castello; se un dogma non è vero, di fatto ogni verità di fede è esposta al dubbio; se cede un mattone, potremmo dire, tutta la parete è a rischio.

    Che Gesù avesse fratelli è detto anche nei Vangeli: «Giunsero sua madre e i suoi fratelli», narra per esempio l’evangelista Marco²². Luca²³ e Matteo²⁴ riprendono l’affermazione, che in contesti diversi è presente anche nel Quarto Vangelo²⁵. Lungi da noi prendere, qui, una posizione su una faccenda tanto complessa e che ha fatto fluire fiumi di inchiostro. Ci basti riportare i termini della polemica: i sostenitori della verginità di Maria sottolineano il fatto che per fratelli si debbano intendere semplicemente i parenti: spesso il mondo ebraico indica la cerchia familiare con la terminologia della fraternità. D’altro canto, gli avversari del dogma della verginità perpetua di Maria sottolineano che il termine usato da Paolo e dagli evangelisti è adelphoi, che in greco indica propriamente una fraternità di sangue.

    La diatriba è ben lungi dal potersi considerare conclusa.

    4. Matteo

    Un esattore delle tasse va oltre la Legge

    Se ci fosse ulteriore bisogno di una conferma sulla complessità della Chiesa delle origini e sulla difficoltà che gli stessi discepoli ebbero nel comprendere il legame tra l’ebreo Gesù e la diffusione del suo messaggio nel mondo greco, cui abbiamo accennato parlando di Giacomo il Giusto, il Matteo autore del Primo Vangelo ne fornisce forse la più straordinaria e provocante testimonianza.

    Chi era Matteo? Anche in questo caso, come per Simon Pietro, si tratta di un uomo chiamato mentre fa il suo sporco lavoro, e per il quale la chiamata da parte del profeta di Nazareth – meravigliosamente immortalata dal Caravaggio, in un trionfo di sguardi e chiaroscuri – è completo mutamento di vita²⁶. Levi (così è anche conosciuto l’evangelista), era originario di Cafarnao, e venne invitato alla sequela di Gesù mentre stava seduto al banco delle imposte: faceva, di mestiere, l’esattore delle tasse per l’Impero romano; apparteneva, quindi, alla categoria dei pubblicani, disprezzata da scribi e farisei. I pubblicani, presenti in tutto l’Impero, approfittavano spesso del proprio ruolo per colpire gli strati più fragili della società, sentendosi sopra la legge, come accade spesso, da che mondo è mondo, a coloro che esercitano poteri amministrativi. In particolare, nel mondo ebraico, il lavoro dei pubblicani pareva odioso per tre precisi motivi: da un lato per il ruolo stesso (gli esattori delle tasse non piacciono mai a nessuno); in secondo luogo perché erano al soldo degli odiati Romani; infine, perché non rispettavano la tradizione di Israele, spesso usando metodi da usurai e non preoccupandosi di

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