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Sei bellissima
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E-book237 pagine4 ore

Sei bellissima

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Info su questo ebook

Primi anni Settanta, campagna Toscana. Nel breve volgere di un’estate Marchino, dodici anni, comunista per nascita e per vocazione, ha scoperto l’amicizia, il sesso e l’amore. Ma tra poche ore dovrà lasciare la vecchia casa di Ponte agli Stolli per trasferirsi con la famiglia a Figline in un appartamento con un vero bagno e le piastrelle di ceramica. Quella che lo aspetta è un’ultima, interminabile notte di ricordi, di paure e di domande. Lo tiene sveglio il pensiero di Luana, la giovane vicina già sposata e vagheggiata senza rimedio. E lo tormenta un grande cruccio: questa paura del futuro, del nuovo, non è certo da veri rivoluzionari…

Sorretti dalla forza espressiva del dialetto, i personaggi di Sei bellissima animano un romanzo corale, mentre lo sguardo di Marco, Gian Burrasca di campagna, raccoglie scene di una vita ormai tramontata, schegge di un passato ancora vivo. Con perfetti tempi comici Bigi compone un rocambolesco amarcord, il ritratto affettuoso di un’Italia divisa tra desiderio di modernità e tradizione, tra Casa del Popolo e parrocchia e ci porta con leggerezza verso la memoria dell’infanzia e la dimensione mitica della libertà.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2015
ISBN9788897012337
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    Anteprima del libro

    Sei bellissima - Marco Bigi

    www.lantanaeditore.com

    Prologo L’ultima notte

    Quel tempo era finito e io non ne avrei dimenticato un’ora. Quanti giorni erano passati lentamente, attaccati, incrociati, appiccicati uno sull’altro, saldamente, come i mattoni che uno a uno formano una casa. Sarebbe stato il momento di piantare il tricolore sul tetto e fare la festa della copertura, il rialto, come lo chiamano i muratori, ma nel mio cuore non c’era abbastanza gioia per festeggiare il termine di un’impresa simile. La prima casa della mia vita, penso. E devo dirle addio. La nonna continua a russare, mezzanotte è suonata da un bel po’, e io mi giro e mi rigiro nel letto. Tra poche ore arriverà il camioncino di Altiero, e il babbo, io, la mamma e Gostino ci caricheremo sopra le ultime cose da trasportare nella nuova casa di Figline. 

    È questa l’ultima notte che passo qui, l’ultima alba che attendo in questa camera, l’ultimo mattone. I ricordi m’investono fino a serrarmi la gola, con la loro scia di odori, colori, suoni. Come in una moviola che riavvolge il nastro, rivedo tutto e non riesco a fermare niente, le cose e gli eventi si accavallano, si mischiano alla rinfusa, accatastati come un mucchio di suppellettili in attesa di un’adeguata sistemazione. So che questi ricordi dovrò prenderli in mano, uno per uno, e trovar loro il giusto posto nella casa che ho appena finito di costruire, dove rimarranno per sempre. 

    Mi chiedo come faranno la mamma e il babbo, la nonna, ad affrontare questo trasferimento. Mi domando se anche per loro è lo stesso, se anche loro provano quello che sento io. Del resto, di ricordi da mettere a posto ne hanno molti più di me. Perché allora parlano di questo trasloco, di andare via dal Ponte, con tanto entusiasmo? Sono l’unico che ha paura di questo cambiamento, l’unico che se lo sente dentro come una disgrazia inesorabile. A Figline la vita sarà più semplice per tutti, senz’altro più comoda: il bagno luminoso e con tutti gli accessori, il riscaldamento, l’acqua calda dal rubinetto, ma quante cose non ci saranno più? 

    Tutti questi vantaggi a me paiono niente al confronto di quello che sto perdendo. La campagna, gli ulivi, il paese con le sue storie e i suoi anfratti, le pietre, gli odori, i suoni a cui sono abituato, le cam-pane a festa e l’or di notte, Gostino, la caccia, l’odore dei camini a bruzzico, i pomeriggi al convento, il pane di Rino, le ore trascorse con Sandrino, il sole così bello e caldo del mio paese, i bagni al fiume, il panello con l’uva. 

    Quando la nonna ammazzava polli e conigli, o il maiale, veniva sempre organizzata una festa: si festeggiava la vita nuova che da ogni morte scaturisce. Ed è una festa che ora non riesco a celebrare. 

    Mi ripeto che dovrei essere contento, perdio! C’è stata la grande avanzata del Pci, il mondo sta davvero cambiando, forse il socialismo è più prossimo di quanto non lo sia stato mai, prima di oggi.

     La gente, dice mio padre, comincia a capire che l’egoismo non è la via giusta. Dovrei essere pragmatico e rivoluzionario, andare audacemente verso il nuovo, accidenti! Invece eccomi qui, perso nelle mie paure e nostalgie. Dovrei rassegnarmi al fatto che ormai sono successe troppe cose – tutte quelle che dovevano succedere – e indietro non si torna più. Ma è una lotta contro me stesso ed è dura da vincere.

     Possibile che una volta tanto che nella mia famiglia si fa per davvero la rivoluzione, io – proprio io – sia contrario? Sarà che non sono affatto un rivoluzionario, che non riesco a essere un vero comunista come loro? Aver paura del nuovo non è certo roba da rivoluzionari! 

    Una sola volta ho tirato fuori il coraggio, quando ho rincuorato Sandrino dopo l’operazione alla spina dorsale… Com’ero stato zelante ad aiutarlo a vedere il mondo in positivo, a ribellarsi allo stupido pregiudizio che voleva uno come lui – povero e infelice – inerme di fronte alla sorte. Ma adesso che tocca a me tirar fuori le palle, casco in terra come una pera cotta, una donnicciola, e per cose molto meno difficili di quelle che ogni giorno lui supera e affronta! No, non è un atteggiamento da comunista, nemmeno un po’, ma certo né il partito, né il babbo, niente può adesso aiutarmi. Tante volte, durante quest’ultima estate, ancor prima della morte della Maria di Ghigo e prima ancora, avevo sentito far capolino questo stato d’animo, e quante volte mi ero inquietato, quante energie m’erano servite per cacciarlo lontano da me.

     Ora ne sono completamente prigioniero e l’unica cosa che posso fare è solo ricordare, ricordare e ricordare. La nonna si sveglia ansimando, la sento sedere sul letto e ripren der fiato, prima di raggiungere il gabinetto. «Nonna… che fai?» «Eh? Che un tu dormi?» «No, nonna!» «Vo a far pipì, dormi bischero, che ancora è buio!» 

    La nonna si alza brontolando tra sé, come fa sempre, e si infila nel bagno; sento che tira lo sciacquone e torna in camera stendendosi sul letto che scricchiola. «Non ho dormito tutta la notte, mi sento strano nonna… Ho tanta voglia di piangere… e te?» «T’ha voglia di piangere? Poerini mia! Ma sentite voi… Gliè bell’e un omo e ha voglia di piangere! Ma va’ via, bischero, o perché Marchino dici così?» «Mi dispiace andar via di qui, da questa casa, dal Ponte… E a te, nonna?» «Io – nini – son vecchia! Che voi che ti dica? Peggio un si starà, la casa l’è bella e grande, con quelle mattonelle lisce che le si puliscan proprio bene! E poi lo vedi che da qui vanno via tutti, una volta s’era tante famiglie, ora semo rimasti in pochi!

     Te tu cresci, e vedrai se un ti piace di più stare a Figline, poi!» «E te? Senza polli e coniglioli come tu farai, nonnina?» «E coniglioli li volevo smettere anche prima, troppo impegno, troppa cura e poi moiano uguale! I polli m’ha detto i’ tu’ babbo che si possano tenere, dice che un su’ amico, parente di’ Pocchia, gli dà un pezzo di un su’ orto, lui dice che l’è un po’ acciaccato e allora… Pare ci sia anche una bella capanna… Boh! Si starà a vedere, disse i’ cieco! E poi anche se un tenessi più e polli icché me ne frega, qualcosa da fare ce l’ho lo stesso… 

    Dormi ora, che oggi e s’ha da lavorare! Pensa al futuro e guarda avanti, camminare co’ i’ capo addietro ti fa batte nelle cantonate!» «Ma io stavo bene qui! I’ Bello mi piglia in giro e mi dice, Vai perso tra la nebbia anche te! Quande tu torni al Ponte un ti ci si vole più. L’unico gliè Sandrino, che mi dice, Beato te tu vai a Figline! Ci potessi andare io come sarei contento, via da qui che non c’è nulla. Io invece gli dico che ha avuto fortuna a costruire la casa nuova al Ponte, invece di comprarla bell’e fatta a Figline!» 

    La nonna mi guarda con il braccio adagiato sulla fronte. «Gliè più furbo di te e di qui’ bischero di’ Bello! Sandrino, lui poero infelice, capisce bene la fortuna che tu hai a andare via da qui! Lui sa che se fosse a Figline camminerebbe per la strada bene anco da solo o per lo meno troverebbe qualcuno con cui parlare, è sempre chiuso in casa, qui dove voi che vada con quelle gambe, poerino, l’è tutta salita e non c’è più un cane, solo vecchi e bischeri! E poi, ci pensi te? Lo sai che quello che era non è più e non sarà più, nemmeno se si resta qui. 

    Anzi, io dico che visto si cambia era meglio andare a Firenze!» Rimango zitto, le parole della nonna mi hanno sconvolto e, se anche hanno il loro senso, non mi sono per nulla di conforto. Ripenso a Luana, chissà se sarebbe più tornata al Ponte? Chissà se l’avrei mai rivista, dopo ciò che era successo. Ancora ne sento l’odore, le parole, l’inflessione della voce languida, le carezze. I primi momenti, subito dopo quella fatidica notte, mi sentivo prostrato dal dolore e dalla vergogna per ciò che era accaduto. Pensavo che la mamma fosse stata ingiusta a trattarla in quel modo; che male – poi – mi aveva fatto? Perché la mamma se l’era presa tanto? Perché si era trasformata in una nemica? Sicuramente era convinta d’aver agito a fin di bene, ma io non ero una cosa sua, non poteva decidere lei per me. Ignoravo cosa avesse detto a Luana, ma immaginavo che non fossero complimenti. 

    Ciò che aveva detto a me, il modo in cui aveva umiliato quel sentimento, senza pudore, sfrontatamente e con una violenza della quale non la facevo capace; tutto era incomprensibile e inaccettabile. Luana, dolce, tenera, bellissima Luana, perduta e persa per sempre dentro un sogno, che a tratti si trasformava in incubo. Anche lei ossessionante e, come la mamma, tramutata in un serpente che mi soffocava per ingoiarmi. Dov’era quel Marco a cavallucci sulle spalle del babbo? Dov’erano i soldatini, le sere d’estate passate a rincorrersi per le viuzze del paese giocando a nascondino? «Oh che dormi?» «No nonna, penso… e sto male». 

    «Pensa a stare bene, bischero! Ora tu sei grande e le cose cambiano anche per te! Che pensi a quella disgraziata? Eh?» «No, cioè… Sì, nonna, ci penso… E la mamma… è cattiva!» «Sì, cattiva! Ma sentite voi icché si deve sentir dire! La tu’ mamma l’ha fatto quello che t’avresti fatto te, se tu eri ne’ su’ panni! L’ha t’ha fatto un piacere, a te e a quella poco di bono! E poi che l’è stata una cosa giusta quella della tu’ mamma, lo dice quello che è successo all’Alba!» «Perché poco di bono? Chi, Luana? E che vorresti dire quello che è successo a Alba?» «Più che poco di bono è meglio dire povera scema, oh che credeva di fare con te? 

    Tu sei grande, ma ancora di strada tu ce n’hai da fare! Intendimi, perdio! Eh, le donne – nini – le saranno o i’ tu’ bene o la tu’ disgrazia o tutt’e due! Anch’io so’ donna come la tu’ mamma e si sa bene che pericolo tu corri! Tu vedrai tra qualche tempo se non ho ragione! Tu la ringrazierai la mamma! 

    E poi se la tu’ mamma non interveniva e te non fuggivi fino alla Cappellina… icché sarebbe successo a quella povera infelice? Invece a fà così la tu’ mamma, senza saperlo, ha fatto il meglio anche per Alba!» «Allora bisogna ringraziare anche Luana, perché se non ero con lei… la mamma sarebbe rimasta a letto!» La sento sospirare e tossire, poi parla sottovoce come per confidarmi un segreto. «Qualche volta – nini – il bene e il male vanno a braccetto… Si fa una cosa di bene e tutto va a finir male e se ne fa una di male e tutto finisce bene!» «Per me, nonna, il bene è… la Maria viva, la Balilla in casa sua… 

    Gostino a cena con noi.… che le cose rimangano come son sempre state! Perché non è possibile, perché?» «Perché, perché, perché! Ma che credi che io sia sempre stata nonna e vecchia? Oh bischero! Anch’io son stata piccina e poi so’ cresciuta come te… Anche i’ tu’ babbo! Che voi fermare i’ mondo? Che ti sembra d’essere lo stesso? Vedi che anima lunga tu sei? 

    Quando t’eri piccino tu le combinavi di tutti colori… Ma l’eran marachelle, e ora t’ha visto che guai tu combini? E meno male che in fondo l’è andata bene… Se un tu vo’ altro, a qualcosa di bono l’è servito!» Qualcosa di bono, quel qualcosa di positivo è Alba, salva, ancora viva e anche grazie a me. 

    Fino a quella notte, di Alba vedevo solo l’aspetto fisico, il suo essere come una bambola rotta. M’angosciava l’espressione della sua bocca torta, quell’occhio semichiuso, il braccio sullo stomaco con la mano ciondolante, quel suo esprimersi stentato, appallottolando le parole; eppure aveva delle belle forme, le sue labbra erano carnose e ben disegnate, odorava di buono e appariva sempre curata, ordinata e ben vestita, a differenza delle donne del paese. Del resto lei non faceva altro che perfezionare sé stessa, leggere libri, andare a messa e pregare. Alba, toccata da Dio, Alba deforme e zoppicante, Alba che inquietava. 

    Ora che grazie a Dio era viva, questo mi rappacificava col mondo e con la mia esistenza. La nonna, approfittando del mio lungo silenzio, si è girata su di un fianco, bofonchiando qualcosa e finendo per assopirsi; la sento che ha ripreso a russare placidamente. La luna filtra dagli scuri appena socchiusi e fuori i grilli si fanno ancora sentire. Fissando le ombre bluastre del soffitto m’abbandono al ticchettio della sveglia e alle immagini dei ricordi che ora emergono lente, chiare e calde come le lacrime che scorrono sulle mie gote. 

    Rivedo tutto sotto una luce limpida come quella dei film in bianco e nero. Tanti minuti fotogrammi di quel piccolo, unico e grande pezzettino di vita che ora prende nuova forma, per giungermi accompagnato dalla voce morbida e profonda di Gostino attraverso la buca, …sono un uomo alto un palmo, con la barba lunga un braccio, so’ i’ padron di questo palazzo… E il sonno arriva, finalmente, improvviso come un sasso in testa.

    Millenovecentosettantadue

    La mia casa è un appartamento piccolo e umido all’inizio del paese, al piano terra di una palazzina proprio a ridosso della provinciale del Chianti, sul ciglio di un’aspra curva che gira, stretta, tra le prime case di Ponte agli Stolli; non di rado le macchine si scontrano proprio in questo punto, e capita anche che qualche camion si schianti con il bordo del cassone contro le nostre mura, portando via la cantonata e facendoci tremare come per un terremoto. L’appartamento, tre stanze in tutto, si affaccia su una piccola piazzola di terra e sassi al confine con la strada. 

    L’ingresso – una cucina che è pure sala da pranzo – è quasi interamente occupato dal tavolo di formica e accanto, in bella mostra, c’è quello che noi chiamiamo il mettitutto: un mobile di legno poco pregiato, economico, pieno di cassetti e sportelli, nicchie, vetrinette. Dalla cucina si passa alle altre due stanze della casa: la camera dei miei genitori e quella della nonna, dove dormo anch’io. 

    E poi c’è il bagno – i’ gabinetto – uno sgabuzzino stretto, affacciato sullo scannafosso del palazzo, addossato a una parete in pietra.È una stanza buia, in cui si deve accendere la luce anche di giorno e dove non ci sono lavandino, né vasca, doccia o bidè. Ho quasi dieci anni e sto per assistere a una trasformazione irreversibile: nel Millenovecentosettantadue, nella nostra casa, viene finalmente installato un moderno water.

     Il primo, rivoluzionario, cambiamento era già avvenuto quattro anni prima, un mattino di febbraio del Millenovecentosessantotto, quando gli idraulici del Comune erano venuti a montare il rubinetto dell’acqua potabile. Dalle nostre parti, almeno fino a quel giorno, per prendere l’acqua bisognava andare alle fontanelle pubbliche, le pompe, e a Ponte agli Stolli ce n’erano solo tre: una all’inizio, una al centro e una alla fine del paese. 

    Le donne ci andavano con le brocche di rame, le mezzine, che riempivano tra una chiacchiera e l’altra per poi tornare a casa a riempire vasi e tinozze.

     Per lavare i panni, invece, si andava al fiume, trasportando lenzuola e vestiti sporchi dentro catini tenuti in equilibrio sulle teste; era un’operazione faticosa, specie d’inverno, quando il fiume era ghiacciato e sulle mani venivano i geloni. Però era bello starle a guardare, quelle donne, e sentir cantare, laggiù nel fiume, per delle ore, Fiorin fiorello l’amore è bello vicino a teeee / fiorin dipinto s’amava tanto… Per lavarci la faccia, ora che c’è l’acqua corrente, usiamo l’enorme acquaio di granito in cucina, dove però c’è solo il rubinetto dell’acqua fredda: quella calda è conservata in un contenitore dentro la stufa a legna. 

    Per fare il bagno completo usiamo la tinozza grande, la zangola per lavare i panni, che d’inverno viene sistemata nel posto più caldo della casa, in cucina accanto alla stufa, vicino ai fornelli su cui cuciniamo. D’estate invece ci si lava nella capanna dei conigli, nell’orto: lì c’è un bidone di metallo che viene riempito d’acqua fin dal mattino; il sole ci batte durante tutto il giorno, la sera l’acqua è caldissima e noi ci facciamo il bagno.

     Senza lavandino, vasca, doccia o bidè, i’ gabinetto serve a una cosa soltanto, e per questa cosa uno strumento solo lì dentro c’è, la buca, il luogo indispensabile per l’espletamento delle funzioni corporali. È alta circa mezzo metro, in muratura, e ha una lastra di marmo bianco con al centro un’apertura circolare, detta appunto buca, che teniamo chiusa con un tappo di marmo come il ripiano. 

    Dalla buca partono dei tubi in terracotta, che si infilano l’uno dentro l’altro per poi finire direttamente nella fossa biologica; niente ostacola il tragitto dalla buca ai tubi, se si prende una lampada e dall’alto della buca s’illumina il tubo che scende, si può vedere benissimo il contenuto della fossa. La buca è sempre stato il cruccio di mia madre, specie se c’erano ospiti; ogni volta temeva che qualcuno chiedesse di andare al bagno: mostrare quel cesso era una vergogna insostenibile, sebbene anche gli altri, almeno nella nostra palazzina, avessero tutti la buca in casa.

     Al piano di sopra c’era il gabinetto di Gostino, in tutto e per tutto uguale al nostro. I tubi di terracotta, che collegavano la sua buca alla fossa biologica, andavano giù dritti fino a incontrare quelli della mia. 

    Capitava spesso di trovarsi – io e Gostino – nello stesso istante, ognuno nel proprio gabinetto, a fare la medesima cosa. Succedeva allora che la buca oltre a servire per la funzione preposta fungeva anche da interfono; tramite il condotto di terracotta, mentre facevamo i nostri bisogni, potevamo anche parlare.

     Io sentivo la voce di Gostino forte e chiara e lui la mia, succedeva così di fare lunghe chiacchierate durante le quali ci scambiavamo parole e odori. Talvolta sentivo arrivare dalla buca il fischio di Gostino in lontananza, poi lo udivo aprire la porta del bagno e sollevare il tappo della buca; io restavo in ascolto. Se intendevo scendere solo la pipì, rimanevo in silenzio, ma se invece lo sentivo accoccolarsi sulla buca e accendere una sigaretta, lo chiamavo e potevamo parlare in tranquillità. 

    Allora si creava tra me e Gosto una notevole intimità, un’atmosfera ricca di sentimento, a volte d’autentica magia, che solo lì si poteva produrre. La voce di Gostino, dalla sua bocca, passava attraverso la tubatura giungendo al mio orecchio. Lungo l’oscuro tragitto si caricava di forza, di mistero, acquistando una tonalità fantastica. Allora spegnevo la luce e, se anche avevo finito il mio bisogno, rimanevo lì immobile ad ascoltare.

     Mi sembrava che a parlare non fosse quel Gostino che conoscevo io ma un narratore oscuro, che mi raggiungeva, in quel posto singolare, da chissà dove con le sue storie fantastiche. «Sono un uomo alto un palmo, con la barba lunga un braccio, so’ i’ padron di questo palazzo…», usava ripetere Gosto per iniziare le sue storie: l’ottava della Pia de’ Tolomei, quella del nonno morto, il casentinese e il fiorentino, oppure storie vere, quella di suo nonno Andrea e il Brigante Musolino, quella di Fagiolino, di Picchirullino e l’Orco, quella di Genoveffa, le storie di Potente e Fulmine, grandi eroi partigiani, quella di Pinocchio e altre che talvolta inventava lui stesso e che io ascoltavo avido, così a lungo accoccolato sulla buca da farmi venire il formicolio alle gambe. 

    Adesso, col water moderno, possiamo contare su un gabinetto presentabile, igienico, che ci toglie ogni imbarazzo, che fa apparire la casa più presentabile e la nostra esistenza più decorosa: in so-stanza, un gabinetto molto meno poetico. L’unico divertimento a cui mi posso abbandonare, col cesso nuovo, è quello di tirare la catenella. Roba da poco. 

    ***

    A Ponte agli Stolli cresce senza sosta il numero delle famiglie che lasciano il paese per trasferirsi a vivere altrove: chi nel vicino Comune di Figline, chi, addirittura, a Firenze. Ogni mese si assiste a qualche nuova partenza, «Vedrai tra un po’: niente contadini, tutti cittadini», commentano l’avvenimento i miei compaesani, «di questi passi qui al Ponte si rimane due o tre vecchi strulli a raccontarsi le disgrazie e basta!» 

    Le famiglie partono insieme ai camion carichi di mobili, materassi, suppellettili e cianfrusaglie, con le lacrime agli occhi e la promessa di non dimenticare il paese e la sua gente; giurano che torneranno, anche solo

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