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La sorella sbagliata
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E-book184 pagine2 ore

La sorella sbagliata

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Info su questo ebook

Luciana è andata via da Milano appena ha potuto. Sua madre dava sempre ragione a Giovanna, sua sorella. Perché Giovanna era la figlia preferita. Perché Giovanna ha un carattere impossibile. Perché Giovanna è spastica.
Così Luciana si è trasferita a Bologna, dove insegna in un liceo e ha iniziato una nuova vita. Si è tinta i capelli di nero e adesso gli amici la chiamano Biancaneve. Finché, una mattina mentre è a scuola, riceve una telefonata. Deve tornare a Milano. È successo all'improvviso. Sua madre non c’è più. Lo spaesamento, il funerale, Giovanna. Giovanna che le urla contro perché non c’era, Giovanna che le chiede di fare un viaggio in onore della loro madre. La meta deve essere Stromboli, dice. Ma Stromboli per Luciana è troppo lontana, così propone di ripiegare su San Benedetto del Tronto.
Tra antichi rancori e nuovi litigi, per le due sorelle inizia così un viaggio destinato a cambiare per sempre le loro vite. Tra imprevisti e contrattempi, mentre tutta Italia cerca di capire il luogo dove Aldo Moro è sotto sequestro, Luciana e Giovanna – quest’ultima con Briciola, la sua inseparabile cagnolina paraplegica – troveranno sulla loro strada inattesi compagni di viaggio, come Ivan, giovane stralunato innamorato dell’India, dove peraltro non è mai stato, e Rossano, che, nonostante sia intrappolato nel corpo di un omaccione, in realtà è Rosy, affascinante travestito. Tutti e quattro diretti verso l’inevitabile resa dei conti.
LinguaItaliano
Data di uscita3 set 2020
ISBN9788830514775
La sorella sbagliata
Autore

Camilla Filippi

Camilla Filippi (Brescia) è un’attrice italiana. Inizia la sua carriera giovanissima recitando in numerosi film e serie televisive di successo come Tutto può succedere (2015-2018), In fondo al bosco (2015) e Il processo (2020). La sorella sbagliata è il suo primo romanzo.

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    Anteprima del libro

    La sorella sbagliata - Camilla Filippi

    invade.

    1

    Ogni giorno è il giorno in cui la tua vita potrebbe cambiare, non sai se in positivo o in negativo, ma potrebbe cambiare. Questo è il pensiero che sfiora alcuni, ma per molti, invece, ogni giorno è un giorno come un altro.

    La mattina del 2 maggio, attraversavo i portici di via del Pratello che erano stranamente deserti, camminavo a passo svelto perché ero in ritardo, avevo trascorso una notte piena di incubi e l’ultimo doveva essere stato il peggiore di tutti perché a svegliarmi erano stati i miei stessi singulti. Piangevo senza ricordarmi cosa avessi sognato e questo mi angosciava ancora di più. Non sono il tipo di donna che tende a drammatizzare, eppure quella desolazione in giro mi inquietava.

    Non avevo fatto colazione, e non avevo certo il tempo per farla, ma mi ero comunque affacciata al Barazzo. Vedere la mia famiglia bolognese avrebbe forse cancellato l’apprensione che mi si era aggrappata al cuore nella notte. Ciò che amavo di quel posto è che nessuno faceva mai domande, non erano interessati al passato ma semplicemente a quel che portavi nel momento in cui lo portavi. Potevi essere chiunque.

    «Buongiorno» dissi sporgendo solo la testa al di là della porta, per evitare di farmi tentare e fermarmi.

    Non avevo fatto in tempo a voltarmi e riprendere la mia strada che li avevo sentiti in coro: «Biancaneve!».

    Era così che mi salutavano sempre i quattro avventori storici del mio bar, accompagnandosi con un cenno del capo, ma quella mattina qualcosa nella routine aveva stonato, mi voltai di scatto e mi accorsi che mancava una persona.

    «La Dani?» chiesi con fermento.

    «Non si è vista.»

    Rimasi stupita e ripresi il cammino.

    Daniela era la prima persona che avevo conosciuto dopo essermi trasferita a Bologna, ci eravamo incontrate proprio in quel bar che era un po’ il suo ufficio. Dopo due settimane che ci andavo lei mi aveva guardata e aveva detto: «Ti devo levare quel colore dalla testa!?».

    Non sopporto le persone che si permettono di giudicare, di esprimere con leggerezza il proprio parere su qualcosa di irrilevante, perciò l’avevo guardata con un fastidio che doveva aver colto chiaramente.

    «Sei così una bella figliola! Ti mortifica, ascolta me.»

    Il suo tentativo di aprire un varco, con gentilezza, non mi aveva comunque convinta, lo aveva capito dall’impassibilità con cui reagii.

    «Te lo faccio io gratis, qua nessuno vuol venderti niente, stai serena.»

    Poi mi aveva sorriso, e la sua bocca era così grande che nello spalancarsi mi aveva mostrato il suo cuore buono, al quale cedetti subito. Ci avevo rivisto un sorriso, quello di Mamma.

    Così il mio caschetto cenere venne tinto di nero, trasformandomi per tutti in Biancaneve.

    Faceva la parrucchiera a domicilio, la Dani, ed era fidanzata con un pugile di professione; uno dei suoi obiettivi era cercare di fidanzare anche me con amici del suo moroso o figli zitelli delle signore che pettinava, tra i miei, invece, c’era restare da sola.

    «Questo chi era, un giornaliero, un settimanale o c’è speranza?» mi diceva quando mi vedeva passare trafelata davanti al bar con ancora indosso i vestiti del giorno prima, capendo che a casa ci ero passata solo per prendere la borsa con i libri.

    «Chi vive sperando…» rispondevo io mentre me ne andavo, e lei aggiungeva sempre: «Dovremmo far due chiacchiere sul tuo babbo, prima o poi».

    Come se il problema della mia vita fosse mio padre!, dicevo tra me e me, ma poi per fortuna non se ne parlava mai.

    Se quella mattina non c’era significava una cosa sola: stava partorendo. L’ultima volta che ci eravamo viste mi aveva detto che era questione di giorni. Trovai conforto in quel pensiero, pensando che l’agitazione della notte passata fosse una specie di premonizione: avevo avuto la sensazione che sarebbe accaduto qualcosa e quel qualcosa era certamente il suo travaglio. Ripresi a camminare a cuor più leggero, ma con passo più svelto per cercare di non aggravare il mio ritardo.

    Sembrava che per strada ci fossi solamente io, nonostante fossero le 8.25, io e la voce della radiolina che mi portavo sempre appresso, e che nelle volte sopra di me riecheggiava: «Pressante e duro appello della famiglia Moro alla DC dopo l’arrivo di sette lettere del prigioniero delle Brigate rosse. Nel comunicato della famiglia parole durissime per la Democrazia cristiana: Sappia la delegazione democristiana che il comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa ratifica la condanna a morte».

    Moro era stato rapito da quarantasei giorni, si viveva sospesi, in attesa. Si andava tutti a lavorare, la vita scorreva, ma quando si aveva un attimo di tempo si guardava il telegiornale e ci si confrontava.

    Svoltando per via del Borghetto, all’angolo di piazza San Francesco trovai il piccolo presidio del mio collettivo. Eravamo un gruppo di donne unite da un unico ideale, la libertà in tutte le sue forme, soprattutto quella per le donne, che vivevano una condizione ancora troppo subordinata. Ci si batteva per la legge sull’aborto con l’obiettivo di aprire un consultorio.

    «Buongiorno Biancaneve!» mi urlò la Chiara mentre attraversavo la piazza, il che significava che voleva fare due chiacchiere.

    Risposi al saluto con un cenno della mano, sperando di cavarmela e tirare dritto, anche se ogni volta che non le prestavo la giusta attenzione mi sentivo in colpa. Lei iniziò a sventolare un foglio che teneva in mano e che mi costrinse ad avvicinarmi.

    «Eccolo qua! È il comunicato che abbiamo scritto. Ieri mi sono dimenticata di dartelo, in tutto quel trambusto.»

    Lessi solo l’inizio: Bisogna lottare per l’effettivo riconoscimento del diritto all’aborto. È una battaglia per il progresso, per l’uguaglianza, contro la discriminazione e l’oscurantismo.

    «Poi lo leggo con attenzione.»

    «Lo facciamo uscire domani. Oggi non c’era spazio.» E subito aggiunse: «È stata una bella manifestazione ieri, mai vista così tanta gente. È triste che ci sia bisogno di un evento così drammatico per trovare una forza unitaria».

    Chiara, la più vecchia del gruppo, aveva sessantotto anni ed era anche la più incazzata di tutte. Per cinquant’anni aveva sopportato le umiliazioni e le botte di un marito che la accusava di non essere capace di rimanere incinta, ma dopo due anni dall’entrata in vigore della legge sul divorzio aveva trovato il coraggio e lo aveva mollato. Partita da Palmi in Calabria, era arrivata a Bologna per stabilirsi da una cugina rimasta vedova; non aveva mai lavorato in vita sua, ma si era tirata su le maniche inventandosi una nuova vita: andava di casa in casa a fare le punture a chi aveva bisogno, faceva gli orli ai pantaloni, raccoglieva la cicoria nei campi e la vendeva per strada, senza mai scoraggiarsi. Pur essendo fisicamente tanto diversa dalla mia Mamma, in qualche modo me la ricordava, e anche per questo mi ci ero molto affezionata.

    «Scusa, Chiara, scusami tanto, ma sono in ritardo» dissi, accorgendomi che dall’altro lato della piazza, immobile come un mastino nel suo grembiule azzurro, presidiando il portone della scuola in cui insegnavo, la bidella già mi guardava.

    Le andai incontro con passi lunghi e veloci.

    Concetta Catena, così si chiamava, era emigrata da un paesello della Sicilia per seguire il marito; madre di quattro figli, faccia scorbutica e un italiano tutto suo, ma per fortuna aveva un cuore buono. La puntualità non era il mio forte e lei, che mi aveva inquadrata fin dall’inizio, quando ero di prima ora mi faceva la cortesia di ritardare la chiusura del portone.

    Arrivai sussurrandole: «Scusa, scusa», ma quando le fui davanti mi sbarrò la strada. Devo ammettere che mi fece un po’ paura, era comunque una donna di una certa mole, con delle braccia grosse quanto quelle di un muratore, e da parte mia io vivo sempre con l’ansia di aver fatto qualcosa di sbagliato.

    «Mi deve aiutare!» esordì, «voglio andare a parlare con la preside, e vorrei che venga con me professoressa. Io non parlo bene. Poi mi agito e ci devo dire anche quelle cose della legge che mi avete scritto. Da sola non sono capace proprio. È arrivato il momento e non posso davvero più aspettare, la preside lo so che mi dice che non ha soldi e neanche le persone per ’sti ragazzini, per questo ci volete voi! Avete la lingua giusta!»

    Concetta era un fiume in piena, sapevo che probabilmente la mia presenza avrebbe cambiato ben poco le cose e provai a dirglielo, ma non ne volle sapere. Io l’avevo messa al corrente di quella legge e ora lei chiedeva che me ne prendessi la responsabilità.

    «Facciamo così, ci andiamo più tardi, in mattinata» tagliai corto, visto il ritardo i ragazzi dovevano già avermi smontato la classe.

    «Promesso?»

    «Promesso.»

    Mannaggia a me che non so dire di no.

    Arrivai in classe trafelata come sempre, ma con mia immensa sorpresa l’aula era intatta e i ragazzi già all’opera; non feci in tempo ad aprire bocca che mi rubarono le parole, in coro: «Scusatemi ragazzi».

    Scoppiammo tutti a ridere.

    Ero con loro da pochi mesi – avevo sostituito una collega entrata in maternità anticipata – e già mi conoscevano bene. Spiegai che in fondo lo facevo per renderli autonomi, e a riprova del fatto che i miei ritardi portavano dei frutti nella loro capacità di gestire il lavoro indicai i banchi disposti intorno alla sagoma del cavallo che stavano costruendo, ma non li convinsi del tutto.

    Alcuni ragazzini armeggiavano con la cartapesta lasciata a macerare da un paio di giorni e che riempiva la stanza di quell’odore di colla che mi faceva tornare bambina ogni volta che lo sentivo; altri avevano già iniziato ad attaccare fogli di giornale con lo scotch di carta alla struttura in fil di ferro, preparando la base su cui poi stendere la cartapesta e dare la giusta forma, volume e spessore a quel cavallo di Troia alla cui storia si erano appassionati. Il lavoro era suddiviso per gruppi, sei per lato lavoravano manualmente e altri quattro, due davanti e due dietro, sovrintendevano ai lavori con il progetto alla mano. Era tutto ben avviato.

    Il mio primo giorno in quella classe, trovandomi davanti sedici ragazzini svogliati, avevo pensato di affrontarlo semplicemente stando insieme, per conoscerci, chiacchierando e senza far nulla, ma i loro sguardi mi avevano persuasa che la mia gentilezza avrebbe potuto essere scambiata per debolezza, così avevo aperto subito il registro, puntato il dito a caso e chiamato accanto a me Ampelio Zilioli. Era un ragazzino magro magro, dalla pelle olivastra, con un cespuglio nero al posto dei capelli, stretto in una polo beige sbiadita, evidentemente ereditata da un fratello maggiore; Ampelio si era trascinato accanto alla cattedra, trascinato letteralmente, perché non alzava mai la gamba per fare il passo, mettendo a dura prova la mia pazienza. Ne ho sempre avuta molta, ma c’erano piccole cose che mi davano alla testa, e quel trascinarsi altro non era che indolenza, perciò mi urtava. Per poco non gli avevo urlato di darsi una mossa e svegliarsi, che non si poteva affrontare la vita in quel modo. Ma dopo quel primo istinto, fortunatamente soppresso, mi ero resa conto che era solo timido, anche se lo nascondeva bene.

    Quando gli avevo chiesto a che punto fossero con il programma, aveva lanciato un’occhiata complice alla classe e mi aveva guardato serio dicendo: «Troia, siamo arrivati lì, mi pare».

    La classe era esplosa in una risata, sedici ragazzini uniti e pieni di quella forza che solo il gruppo sa dare. Non ero certo una che si faceva mettere i piedi in testa così, senza reagire. Ero scoppiata a ridere anche io, spiazzandoli, al punto che era calato subito il silenzio. Avevo chiarito che non ero sprovvista di ironia, ma se avessero provato a mancarmi di rispetto un’altra volta li avrei rasi al suolo. Tutto era stato detto in modo molto credibile. Da allora mi ero guadagnata il loro rispetto e giorno dopo giorno eravamo arrivati alla costruzione di quel cavallo.

    Marescotti, che era il nostro giovane vecchio, e in quanto tale aveva subito scelto la direzione dei lavori, valutando la manodopera un lavoro fisicamente troppo debilitante, chiese quanto fosse stato realmente grande il cavallo; i compagni iniziarono a sparare numeri a caso, mentre io li ascoltavo e li incoraggiavo a ragionare. Non eravamo a conoscenza del numero preciso di Achei entrati nel cavallo, dissi, c’erano fonti discordanti, potevano scegliere un numero che fosse ragionevole, e optarono per una trentina, allora chiesi loro in quale figura geometrica potevamo rinchiudere un uomo e qualcuno disse una palla.

    «La palla in geometria si chiama sfera» fece notare qualcun altro, ma visto che nessuno ricordava la formula per calcolarne il volume, e che il nostro fine appunto era individuare una misura realistica per un cavallo di fantasia, suggerii che lavorassero su figure di cui conoscevano almeno le formule, riservandomi al più presto di fare due chiacchiere con la loro prof di matematica.

    Iniziarono a confrontarsi e a collaborare, qualcuno chiamò in causa persino l’uomo vitruviano di Leonardo, con mio grande stupore, quindi si stabilì che l’uomo stava in un quadrato, e via con le formule. Era meraviglioso vederli ragionare, collaborare. Gli feci notare come tutte le materie fossero collegate, letteratura, geometria, matematica, tutto è collegato come nella vita, e in quel momento qualcuno bussò.

    «Avanti.»

    Concetta spuntò dalla porta. Pensando fosse venuta a chiamarmi per accompagnarla dalla preside, la anticipai dicendole che saremmo andate più tardi, com’era stabilito, ora no, non era veramente il momento, visto che eravamo nel mezzo di calcoli complicatissimi che probabilmente avrebbero cambiato il sapere dell’umanità.

    I ragazzi

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