I pettirossi non smettono mai di cantare
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Collana Sentieri - Narrativa mainstream
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I pettirossi non smettono mai di cantare - Margherita Firpo
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Uno
Quando questa mattina è suonato il telefono, ero ancora nel primo sonno. Stavo sognando di me, ero in una stazione affollata, faceva molto freddo e avevo i guanti di lana pesanti, quelli a manopola. Il mio fiato era spesso, nebbioso, precedeva i miei passi lasciandomi la faccia umida di vapore acqueo. Mi rovistavo nelle tasche per trovarlo poi mi ricordavo di averlo messo nella tasca interna della borsa. Quando riuscivo a prenderlo, la poca sensibilità che avevo con i guanti me lo faceva cadere, un colpo secco a terra, la cover da una parte, la batteria dall’altra e il vetro in tanti triangoli spezzati.
Mi giro, nel dormiveglia, e do un calcio a mio marito che ormai, dopo tanti anni, è abituato alle mie galoppate notturne.
Il fischio insistente della suoneria di Kill Bill mi riporta alla realtà. Sta suonando davvero.
Rispondo grazie, ho capito… è… è stato molto gentile a telefonarmi e, come in sogno, mi cade dalle mani e lo schermo si frantuma.
Un presagio forse, quasi a voler dire che la mia vita stava per finire in mille pezzi come il vetro del mio telefono.
Mi chiamo Elisabetta Morelli, ho quarantotto anni, tre figli, un marito, un cane e due gatti.
Ho un fratello, Filippo, una sorella, Serena e da oggi non ho più una madre. Mi ha chiamata per dirmelo il suo vicino di casa, quello del piano di sotto che ha perso qualche rotella molti anni fa.
Non gli ho creduto, ovviamente, subito. Però il dubbio me l’ha messo e allora ho telefonato a mia madre.
Ma lei non risponde mai, dice che ha perso l’udito ma sono tante le bugie che dice, la realtà è che ai suoi tempi viveva molto meglio senza le catene di un telefono intelligente che le rubava la libertà.
Sveglio mio marito, allora.
Nessuno dà peso alla telefonata del vicino pazzo, la nonna è sorda, mà! dice Olivia, la figlia di mezzo.
Nessuno crede che possa essere vero che la nonna sia morta, allora me ne convinco anch’io.
Mi gusto la mia colazione del sabato, quella tranquilla, che assaporo sulla poltrona in sala, con le gambe incrociate e il vassoio da tavolino, sintonizzata su canale cinque dove c’è una fiction in cui i protagonisti si arrabattano in un’improbabile vita di coppia.
Dico improbabile perché la mia di vita di coppia non è più degna di essere chiamata così da almeno dieci anni, da quando il mio infedele marito ha toccato il fondo andando a letto con la vicina del piano sotto.
La signora Tacchettini (come la chiama tutto il palazzo per il rumore del suo tacco dodici che non toglie mai) ha trentasei anni, una quarta (rifatta!) di reggiseno, un metro e un pezzo di gambe e un’altezza al garrese da vera puledra.
La carne è debole e gli uomini sono dei maiali, mio marito per primo. Perché l’ho perdonato? In realtà non l’ho mai perdonato, viviamo ancora sotto lo stesso tetto, ci sono stati lacrime, terapia di coppia, vasi rotti mentre i bambini erano a scuola e all’asilo, ma ormai ci siamo arresi. Siamo stanchi e pigri entrambi, lui per andarsene, io per mandarlo via e ricominciare una vita da sola.
Mio marito non è un buon marito, ma è un ottimo padre e i miei figli lo adorano, quindi va bene così. Diventare mamma vuol dire mettere sempre i figli prima di se stessa, almeno per me.
Ci vogliamo ancora bene ma l’amore, a patto che ci sia ancora, è sepolto sotto una slavina di neve ghiacciata.
Sto ridendo davanti alla stupidità di questa fiction, quando suona di nuovo il telefono.
Dallo schermo, rotto, non riconosco il numero.
Fiufiufiufiufiufiufiufiufiufiu.
«Pronto?»
«Signora Morelli?»
«Sì, sono io, chi parla?»
«Signora, sono il Maresciallo dei Carabinieri di Savignone, mi scusi se glielo dico per telefono ma… abbiamo trovato sua madre… deceduta in casa. Dovrebbe presentarsi per il riconoscimento.»
«Oh… allora… certamente… mi dia il tempo di arrivare, vengo da Genova.»
«Non si preoccupi, c’è qui il marito. Nonostante l’età mi sembra piuttosto… sereno e rassegnato.»
Oh be’, certamente, il marito, nonché mio padre è morto da più di cinque anni.
Vivo una vita di fretta, in continuo ritardo, perennemente distratta e sovrappensiero.
Dopo che ho dato la notizia a Mario, si è alzato di soprassalto e mi ha detto: «azz…! Vengo con te!»
Non ho voluto, ho preferito rimanesse a casa con i bambini.
Così mi sono vestita di corsa, fa molto freddo oggi, ho messo la giacca più pesante che ho, la mia sciarpa rossa e, con una scarpa ancora in mano, sono uscita sul pianerottolo.
Sono un disastro nell’organizzare le cose, il fatto che abbia lavorato per anni da casa non mi ha aiutato molto nella gestione del tempo. Di mattina, una vestaglia, una risciacquata alla faccia e via, pronta per una giornata di lavoro.
Probabilmente è anche per questo che mio marito ha cercato la sensualità altrove.
Scendo a piedi fino a Corso Firenze, dove ho la macchina, non ho ancora realizzato bene cosa sto andando a fare, salgo e prima di mettere in moto mi ripeto nella mente quello che mi ha detto il Carabiniere.
Mia madre è morta. Mia madre aveva ottantasette anni e un cuore malandato da tanto tempo.
Tra Genova e Savignone ci sono otto gradi di escursione termica, passo la Galleria dei Giovi, il termometro della macchina emette un fischio e compare il simbolo del ghiaccio, meno due gradi.
C’è ancora la neve lungo i bordi delle strade, cielo pesante che dà l’impressione che da un momento all’altro mi cada sulla testa. Arrivo davanti a quella casa che è stata anche mia per molti anni e il Carabiniere è lì ad aspettarmi.
Mi guarda da dietro gli occhiali, io non do segni di essere scossa da quella notizia, faccio gli onori di casa, un po’ confusa, anche se lui è già entrato da prima. Continua a fissarmi, per scovarmi da dentro l’aria che hanno le persone tristi, io continuo a incespicare, mi mangio un po’ le parole ma non piango.
Arrivo in cucina e lei è lì, seduta sulla sua sedia davanti alla stufa, le tazze ancora della colazione, la testa appoggiata su una spalla.
Dorme serenamente. Mia madre è sempre stata serena, lei avrebbe dovuto chiamarsi così, non mia sorella.
«Signora Morelli, fino a poco fa c’è stato qui suo padre ma, non so dove sia finito… se n’è… andato.»
«Ispettore…»
«Maresciallo…»
«Maresciallo, quello non era mio padre. Quello è un vicino di casa. Veniva spesso qui, mi ha anche chiamato stamane ma… non gli ho creduto… mio padre è morto cinque anni fa.»
«Oddio, mi spiace moltissimo, signora, mi scusi… io non sapevo.»
«Non si preoccupi, nessun problema.»
E nessun dolore, come cantava Battisti.
Due
Io sogno.
Sogno da quando sono bambina, e non ho mai smesso.
Che poi si siano avverati tutti questo no, però non mi sono mai fermata davanti a niente.
Quando sono nata, mia madre mi ha sempre ripetuto, non era tempo per sognare; la seconda guerra mondiale, che si era conclusa molti anni prima, aveva comunque lasciato una tragica consapevolezza nelle persone. Sopravvivere era la cosa più importante, senza grilli per la testa, accumulare denaro, in caso di necessità, pensare a procurarsi il cibo come cosa primaria, dimenticarsi di ogni superfluità.
Immaginate quanto sono stati felici i miei genitori quando, in un bel giorno di festa, a Pasqua, ho annunciato qual era il mio sogno.
A turno, io e i miei fratelli dovevamo proclamare, alzandoci in piedi, con le mani giunte, i capelli ben pettinati e il vestito buono, quale era il cambiamento (positivo, ovviamente) che ci aveva regalato il Signore Risorto.
E il mio era stato: ho trovato cosa voglio fare da grande! Scrivere! Voglio vivere di sole parole e diventare una famosa scrittrice!
Non sono mai stata brava a organizzare la mia vita, figuratevi un funerale.
Già cinque anni fa, quando è morto papà, aveva pensato a tutto Filippo, anche mia sorella Serena non aveva avuto la forza.
Il dolore per la perdita di papà era davvero insostenibile sia per me che per lei; se Filippo, il maschio di casa era sempre stato il cocco di mamma, io e Suri lo eravamo state per papà.
Oggi, in questa chiesa addobbata di fiori e paramenti violacei, con l’odore di incenso che mi stringe la gola come una mano forte e mi fa tossire, non sto pregando ma sto pensando. A Dio, certo, ma sono troppe le cose che non capisco.
Non su di lui, non c’è niente da capire, mi ripeteva mia madre, la fede è cieca! O credi o non credi.
E va bene, credo.
Mia figlia Olivia si sta scaccolando, Lavinia, la grande, ha lo sguardo fisso nel vuoto e Federico, il piccolo, sta giocando con una moto sulla panca facendola rombare avanti indietro; gli cade, gli s’infila sotto la panca, lui si allunga per prenderla, si rialza e picchia con la testa contro il legno. Piange e si lamenta. Mario mi guarda storto perché è sempre colpa mia se i bambini non sono ben educati, allora prendo mio figlio per mano ed esco.
Un’ottima scusa per respirare aria buona, aria di vita. È insostenibile ciò che si respira in chiesa ai funerali, non ho mai potuto sopportarli, in più ci si mettono l’incenso e la gente che canta Io credo Risorgerò.
Mia madre mi direbbe: Betta, se fossi una cristiana come si deve, sapresti che dopo la morte c’è la vita eterna!
Evidentemente mi manca qualche punto per arrivare a essere una cristiana come si deve.
Comunque sia, riposa in pace, mamma.
Tre
Io e la mia famiglia d’origine abbiamo vissuto a Savignone da sempre.
I miei genitori sono nati e cresciuti lì, si sono conosciuti da bambini, sono diventati adolescenti insieme, si sono innamorati, sposati e sono morti lì.
È strano come certe cose con cui convivi da una vita rimangano silenti per anni e poi, di punto in bianco, ti tornino alla mente e, pum, non si riesca più a mandarle via.
La morte della mamma ha scatenato nella mia mente una tempesta di ricordi.
Io ho vissuto bene in campagna, ma il mio sogno mi ha sempre portata lontano, non solo con la mente, ma anche con le gambe. Un buon scrittore deve viaggiare se vuole scrivere, non può scrivere solo per sentito dire.
Così me ne sono andata da lì, poco più che diciottenne, nei mitici anni Ottanta.
E molte cose non le ho portate con me, ma le ho lasciate chiuse nella mia vecchia camera, nel cassetto della mia scrivania, nei miei diari sotto il letto. Libri, vestiti, cianfrusaglie e ricordi.
Non ho avuto una brutta infanzia, non ho subito traumi infantili, i miei genitori si sono sempre voluti bene e rispettati, ma la mia indole era malinconica, sono fatta così.
Ogni cosa mi creava uno stato d’ansia, quegli spazi aperti davanti alla finestra di camera mia, invece di darmi la sensazione di libertà, mi soffocavano, mi sembrava che oltre tutto quel verde non ci fosse niente, che la mia vita fosse destinata a snocciolarsi tra quegli ettari pastello e tra quelle montagne coperte di neve da novembre a marzo, come Heidi.
Non potevo credere che fossi venuta al mondo solo per vedere quei paesaggi.
Per questo i miei sogni sono stati fondamentali, senza di loro non avrei mai avuto il coraggio di andarmene. E finalmente abbandonare la mia malinconia.
Una volta persa quella, dentro