Il vestito della sposa
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Anteprima del libro
Il vestito della sposa - Margherita Antonelli
Contemporanea
Margherita Antonelli
IL VESTITO DELLA SPOSA
© La Memoria del Mondo Libreria Editrice
Via Garibaldi, 51 – Magenta (MI)
www.lamemoriadelmondo.it
edizioni@memoriadelmondo.it
ISBN 9788898414987
Tutti i diritti sono riservati
Margherita Antonelli
Il vestito della sposa
A mia madre
Il futuro è rimasto per noi ignoto,
ma lo accettiamo senza perplessità.
L’amore ha vinto ogni perplessità.
L’amore determina il futuro.
La bottega dell’orefice
Karol Wojtyła
I
Karin non è bella né dolce né aggraziata. Karin è Karin. In paese si dice che il padre, alcolizzato e violinista, quando l’ha concepita, le ha passato quel puzzo di vino e musica che non ti togli più di dosso. Che attrae i ragazzi.
Karin odia gli uomini, ma ancor più odia dover piacere agli uomini. Con quel loro modo schifoso di sorridere all’inizio e di toccare dopo. E questo gliel’ha insegnato la madre: anche lei ha fatto i suoi danni alla ragazza. Non c’è vecchio sporcaccione in Kruševac che non conosca il calore delle sue cosce.
Tutte le mattine, bombardamento o no, Karin deve arrivare al municipio dove lavora come segretaria. Da quando è iniziato il conflitto, in paese non c’è più stato bisogno di un sindaco, di un municipio e tanto meno di una segretaria. Ma spesso occorre mandare fax scritti in modo leggibile con una vecchia Olivetti italiana e lei è l’unica in grado di farlo.
Ha fatto le scuole, quelle possibili per una ragazza serba, dalle suore salesiane. La simpatia che Suor Maria ha sempre provato per lei le ha permesso di arrivare fino alle superiori, dove ha imparato a scrivere a macchina molto velocemente. Le piace saper fare bene un mestiere. E sotto lo sguardo amorevole della consacrata, l’unico fino a quel momento della sua vita, Karin ha imparato quel semplice ma utile lavoro. Forse anche per contraccambiare l’affetto di Suor Maria. In ogni modo, oggi questo le consente di guadagnare i pochi soldi che le permettono di comprare pane, calze e sigarette.
Si annoda i capelli color del grano, si guarda di fretta nello specchio d’entrata, lancia uno sguardo al padre, abbandonato sulla poltrona in vimini come una cravatta che nessuno mette più, ed esce.
È una giornata con la luce bianca, fredda, insignificante, quella che Dio riserva alle giornate inutili. L’aria è densa d’umidità. E tutto è rallentato. Tutto triste e inutile, ma non lei. Con quel suo passo furioso, quell’andatura fiera, quel modo di guardare la vita con sfida, o presunta sicurezza, Karin guarda davanti a sé, con lo sguardo duro di chi deve sfondarla, la giornata. Come chi non ha voglia di chiedersi come sarà. Vive e basta. I jeans sempre più larghi, tenuti in vita da una cintura militare. La camicetta che sa di pulito, con grossi fiori fucsia ed un maglioncino che fa a pugni con tutto il resto, ma caldo e comodo. Un giubbotto di pelle con le maniche troppo lunghe e rimboccate: l’armatura goffa di una giovane guerriera. Ma Karin non ci bada. Il giubbotto l’ha preso smistando gli indumenti che la Croce Rossa fa arrivare al loro villaggio e che gente di malaffare vende al mercato; con pochi soldi si compra, per molti meno si muore. E Karin continua a marciare verso questa giornata sempre più plumbea. Forse pioverà, forse no, forse chissenefrega…
La città è divelta dalla guerriglia. Non c’è viale, angolo, piazza, vicolo che possa lontanamente ricordare com’era prima. Ma Karin non ci fa più caso, è abituata a vedere la città cambiare sotto i colpi. La sigaretta in bocca. Ne ha a disposizione cinque, oggi. Ottimo bottino della sera prima, rubate alla madre. I cecchini sono annidati dappertutto. Si dice in paese che arriveranno i caschi blu delle Nazioni Unite. Lo dice la radio. E intanto Karin va in municipio a battere a macchina lettere d’intervento umanitario in lingue che non conosce.
II
Tocco le gardenie, con riconoscenza. Ad occhi chiusi.
I petali sembrano di panna, nella penombra della sera. Il fresco entra dalle persiane.
Così tante, tutte insieme, non ne avevo mai viste.
Le accarezzo come chi ne riconosca il colore al tatto. Sono loro così grata…
E poi, tutte intorno al mio letto, ricordano un antico rito indiano.
Per quell’ultima notte.
Non potrei ricevere regalo più gradito che delle gardenie morbosamente in fiore.
«Come farai, poi, a prendere sonno con questo profumo?» dice mia madre, entrando in camera mia.
Ma chi dorme, stanotte, mamma?…
penso.
Domani cambierò casa, quartiere, città, lavoro.
Chi dormirà?
Una giostra di pensieri rotea dentro il mio cervello.
Un matrimonio è questo. È anche questo. Ma, tutto sommato, sono calma.
Sarà la presenza delle gardenie.
Sono serena. Abbastanza serena.
È strano come in un’intera vita ci siano pochi momenti in cui si deve guadare
il destino, in cui i passi devono essere fermi ma balzellanti, e poi si cambia per sempre panorama.
Sì, certo, con me ci sarà Giovanni. Lo amo… così. Tanto.
Giovanni è un uomo solido, sicuro di sé, sempre così presente al presente. Così avvolgente. Non ho saputo resistere alla sua risolutezza.
Mi affascina questo di lui. Io, di contro, una libellula a pelo d’acqua. Di concreto, di solido, neanche il conto in banca. Neanche il lavoro. Ma forse è proprio questo che fa di noi una coppia singolare, varia, anche benvoluta a modo suo. Gli amici ci chiamano il gigante e la bambina
… E io non sono di sicuro il gigante! Ma stanotte sono sola a salutare questa casa.
Non c’e più la bambina. E non mi sento una donna.
Stanotte sono una che deve salutare. Deve congedarsi.
Mi sento come una che vuole essere felice, ma non ricorda quando ha sofferto. Avrò vissuto il necessario per prendere una decisione così? O forse ci si convince di esseri certi?
Lascio questa casa, dove ho vissuto i miei primi trent’anni.
Quanto l’ho amata, quanto l’ho odiata…
Quante cose sono successe? Quante cose accadono in una frazione di vita, se vogliamo.
Ma sono calma, credo. Ci sono le gardenie.
La mia è una casa al piano terra. Una casa popolare fatta negli anni ‘30. Il sole, al mattino, lo intuisce. C’è un piccolo davanzale dove non cresce mai niente. Niente che si possa considerare vita vegetativa. Qualche volta vi si accovaccia la mia gatta, ma per poche ore, di sera. Quando non passa più nessuno. Osiride è molto riservata. Scontrosa ma morbida. Occhi grandi, buoni, intransigenti, quasi alteri. Osiride è terrorizzata dai bambini. Ma quando si fa sera, in primavera e in estate, lei salta sul davanzale e guarda in alto le rondini che sfrecciano, gridando. Come le piace! Passa ore a rincorrerle con lo sguardo, attenta, quasi a volerle trovare in fallo per una virata troppo brusca.
Ed io sono qua. Da sola. Sul letto.
Letto e gardenie, in questa stanza. Assieme ai miei ricordi.
Salutando tutti con sorrisi e lacrime. E abbracci. E strette di mano.
«Me ne vado, ma poi torno» dico con il respiro pesante come marmo.
Come da bambina, quando uscivo anche per breve tempo e guardavo mia madre che dalla finestra mi salutava: «Vado ma torno, mamma! Non ti preoccupare… Sto attenta.»
Ripenso a quelle manine che salutavano. Nella penombra le riguardo quelle manine cresciute. Le sfrego come se mi mettessi dell’unguento.
Anche adesso, madre, vado ma torno. E tento di non farmi troppo male. Capisco che sono contenta ma la felicità, ogni tanto, fa male. E il nostro amore durerà per sempre. E io ci voglio credere. Giovanni me lo ha promesso e me lo prometterà, domani, in chiesa. L’amore determina il futuro
; non l’ho detto io. Mia madre, in questi giorni, mi guarda girare per casa. Sta in silenzio, non mi dice niente. È una donna così, solida… mia madre. Così donna, così madre. So che mi mancherà. E lo sa anche lei. Ogni tanto la sorprendo a guardarmi: vede la bimba che sono stata e si stupisce che quella ragazzina scapigliata e ribelle, ora, se ne vada. In questa settimana, lei è invecchiata tanto. Ed io cresco.
Adesso basta parlare. Sono stanca. Le due. È tardi. Gli occhi si chiudono. Il letto si fa barca. Verso quale orizzonte navigherò, quale futuro? Tranquilla come chi non ha lasciato in sospeso nulla, mi lascio coccolare dalle sponde del sonno. Ho un leggero mal di testa, ma profumato di gardenia.
Sulla gruccia, appeso ad un’anta dell’armadio semiaperto, vedo il mio vestito da sposa.
III
«Che merda di vita!» esclama ad un trattò Yuri, alle sue spalle.
«Taci, prima che la peggiori!» risponde Karin.
«Al peggio non c’è fondo. Vero, Karin?»
«No, al peggio c’è la morte… E tu.»
«Ti sei alzata di buon umore. Vero, biondina?» Si avvicina a Karin, in modo talmente viscido da sembrare lo strisciare delle sanguisughe.
«Non ti avvicinare troppo, Yuri! Ti hanno raccontato cosa è capitato al tuo amico Aljoša?»
«Sì, brutta puttanella… Fossi stato lui, a quest’ora i tuoi biondi capelli li avrei trasformati in imbottitura di cuscino. Forse Aljoša pensava che ti diverti alla maniera di tua madre…» Scoppia a ridere, rivelando quel maledetto dente d’oro.
«Speriamo che tu rida con lo stesso gusto, quando ti spareranno alla schiena, stronzo!»
Yuri si avventa su di lei, dà un calcio alla sedia e lei cade sul pavimento. La prende per i capelli e con il fiato che presagisce putrefazione le grida:
«Ricorda bene, piccola e tenera Karin… Puttana da due soldi… Se mai arrivassero i caschi blu e gli raccontassi ciò che sai, ti giuro sull’icona della Madonna che hai davanti, ti giuro che ti riempio quel bel pancino di tutto quello che mi capita tra le mani, non escluso il mio bel cazzo!»
Le sbatte la testa contro il pavimento e, alzandosi, esce dalla porta dell’ufficio.
«Figlio di puttana…» sussurra, asciugandosi il rivolo di sangue da una tempia. «Non può continuare così, non può…»
Si spolvera la gonna, si rimette a posto la camicetta. Si alza e va in bagno. Cosa saranno questi crampi che le vengono al ginocchio? Sarà l’umidità, sarà quel maledetto letto che condivide con Goran, suo fratello, che ogni notte si piscia a letto e ha gli incubi, e scalcia… Non ne può più di sentirlo piangere!
«Che muoiano di lebbra gli uomini che non hanno i coglioni! Come quelli che picchiano le donne. Vero, Madonnina?» esclama a bassa voce la ragazza, guardando la figura lignea, accomodandosi i capelli ora scomposti come spighe falciate. Si risiede alla scrivania. Apre un cassetto. Estrae una pistola… «La prossima volta, giuro, la uso!» ammette a se stessa.
«Ma hai l’imbarazzo della scelta. Vero, Karin?»
Dietro alle spalle compare Irina. Esile, eterea, con addosso una camicetta a righe ed un pantalone grigio; niente che non si possa dimenticare in un minuto. Con un abbigliamento sempre così anonimo, che stride con la sua faccia color del burro, Irina entra nell’ufficio quasi tutte le mattine alla stessa ora. Porta con sé una borsa in vimini e torna dal mercato. Irina è semplice e sofistica, inconsistente e gracile, sorridente e triste allo stesso tempo. Sui capelli corti porta una piccola molletta con dei fiori, che la rendono buffa e di altri tempi. Come certe cartoline che si trovano nei bar. Non sa truccarsi Irina.
«Tu litighi con il rossetto tutte le mattine!» sentenzia Karin sentendola arrivare. «Che ci fai qui? Tra poco c’è il coprifuoco…»
«Sono venuta a trovarti, abbassa la guardia! Ma che è successo? Cos’è questo sangue sulla camicetta? Dio mio, Karin, chi è stato?»
«Quello stronzo di Yuri… Ha palle solo per prendersela con una donna!»
«Karin, non provocarlo! Lascia perdere… Lui…»
«Lui cosa? Lui cosa? Credi che mi faccia paura? Credi che basti quello che ha fatto a te, a mia madre? Arriverà il suo tempo; basta solo aspettare e stringere i denti…»
Le due amiche si abbracciano, stringendosi quasi a togliersi il fiato.
«Ti prego, promettimi che non lo insulti, che non lo minacci… Yuri è troppo potente per noi. Ti prego, Karin! Karin… io non posso perderti!»
Finalmente, vedendo le lacrime dell’amica, si può permettere anche lei di piangere. Piangono. Piangono di smarrimento. Piangono perché è l’unico modo per sentirsi vive. Si accarezzano i capelli a vicenda. Karin tenta di