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Il mestiere di leggere
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E-book129 pagine2 ore

Il mestiere di leggere

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Il mestiere di leggere è un saggio lucido, ironico, culturalmente elevato, capace di incuriosire e contemporaneamente far tirare un sospiro di sollievo al lettore meno esperto, a volte intimidito dal pontificare esagerato dei cosiddetti critici. Troppo spesso la letteratura ci costringe a concentrarci sullo scrittore, sulla sua biblioteca, dove viene ritratto, o sulla sua scrivania, per non parlare delle letture d'infanzia e attuali: Rogelio Guedea decide che è giunta l'ora di affrontare la categoria del lettore, perché varia e sempre in evoluzione. L'autore si sofferma sul piacere del lettore, piacere che dovrebbe provocare la lettura, sottolineando come lo stesso libro può diventare buono o cattivo a seconda del momento, del luogo, del nostro stato d'animo. Tanto che, secondo Guedea, sono i libri a cercare il lettore, e spesso li scelgono a caso. Divertente, Il mestiere di leggere affronta la cultura della letteratura con ironia sfrontata, riuscendo contemporaneamente a puntare l'attenzione sui capolavori intramontabili che ancora oggi accompagnano la sua storia.
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2012
ISBN9788897010357
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    Anteprima del libro

    Il mestiere di leggere - Rogelio Guedea

    Prima parte

    Non leggere domani quello che puoi leggere oggi.

    Sono i suoi occhi che risaltano nella fotografia. Due occhi grandi che vorrebbero abbracciare tutto. È la prima immagine che ricordo. Per un momento dubito se sia Julio Cortázar o Gabriel García Márquez, i cui occhi vorrebbero abbracciare tutto. Sto parlando della fotografia che appare in copertina del Vivere per raccontarla. È nella sua biografia che ho visto quella foto? Il bimbo con la mano poggiata sul bracciolo di una sedia, che guarda in avanti, che cerca di vedere dentro quella scatola vuota ma piena di immagini che è la macchina fotografica. Sono due fotografie unite dalla distanza. Ora che ci penso gli sguardi di Julio Cortázar e di Gabriel García Márquez s’incrociano tra queste parole mentre cerco di fissarle nella memoria. I loro sguardi che leggono edifici verbali e storie incredibili. La realtà si trasforma nei loro occhi, reinventandosi nuovamente. Inizio a constatarlo al termine di tutte queste parole che ho scritto: leggere è dare alla memoria la possibilità di vivere due volte.

    Una campagna contro la lettura. Tutti i lettori del mondo, ubicati in zone strategiche, iniziano a parlare dei danni causati dai libri. Muoia la Divina commedia di Dante. Muoia il Paradiso perduto di Milton. Muoiano i Saggi di Montaigne. Nei parchi si distribuiscano volantini con pene contro quanti osino leggere libri. Come si fa con le droghe, le sigarette e l’alcol: una campagna che proibisca ogni uso e ogni tipo di letture, soprattutto quelle che godono di più reputazione. E che invece di affiggere cartelli che esortano alla lettura ai semafori e agli angoli delle strade, se ne affiggano per segnalare i danni per la salute del lettore. Una campagna più grande che abbia, come unico fine, l’amore e il rispetto per i libri.

    In Ritratti a memoria del filosofo Bertrand Russell, che convinse Wittgenstein a lasciare la fisica per la filosofia, c’è un bellissimo passaggio in cui il filosofo inglese parla del suo amico Bob Trevelyan. Dice Russell che Bob era la persona più libresca che avesse mai conosciuto. Un tipo alto, dal volto affilato e con occhi sporgenti, che trascorreva giornate intere a leggere nella sua pensione di Parigi. La sera Bob e Russell erano soliti camminare sulle sponde della Marna. Parlavano di autori noti e meno noti e di libri e libracci. Per Bob la vera realtà era nei libri e così, raccontata, gli sembrava interessante. Mentre la realtà vera, quel complesso di eventi senza connessione alcuna, era per lui la cosa più disdicevole e stupida del mondo. La pensione in cui viveva Bob aveva una finestra che dava su un piccolo giardino. Guardando fuori dalla finestra si vedeva la sedia sulla quale Bob leggeva senza tregua. In mattinata, dopo colazione, il giovane Bertrand lo trovava seduto sulla sedia, seminudo e con un libro tra le mani. Il piccolo appartamento era un disastro. Le librerie tappezzavano le pareti, fino al soffitto. Non c’era spazio nemmeno per uno spillo. Dal basso verso l’altro e da un lato all’altro: libri. Vieni, amico Bertrand, diceva Bob al futuro filosofo e premio Nobel. E Bertrand entrava, con stupore e coraggio nello sguardo, in casa di colui che, seppur in forma indiretta, lo avrebbe maggiormente influenzato dal punto di vista letterario. Bob Trevelyan aveva una conoscenza minuziosa della strategia e della tattica delle grandi battaglie storiche, sempre che queste battaglie, ovviamente, fossero raccontate in libri di buona reputazione. Casualmente durante la battaglia della Marna, Russell stava con Bob nella sua pensione. Era un sabato. Bob voleva andare in libreria ma era impossibile. Era accessibile solo un’edicola, ma si doveva camminare poco più di tre chilometri. Russell lo esortò ad andare, ma Bob rifiutò, affermando che quel che era pubblicato nei periodici era volgarità, e che mai avrebbe paragonato la narrazione di una battaglia scritta da uno storiografo rinomato a quella di un semplice giornalista da quattro soldi. Mai! Bob iniziò a camminare disperatamente nel living. Non poter fare la sua solita visita quotidiana alla libreria lo infastidiva e agitava. Russell lo vedeva quasi senza vederlo, certo che la crisi sarebbe passata da un momento all’altro. Quella sera, per distrarlo, gli pose una domanda che aveva utilizzato alcuni mesi prima per scoprire il grado di pessimismo di alcune persone. Russell disse: Se tu avessi il potere di distruggere il mondo, lo utilizzeresti? Bob, che girava intorno a un tavolino di legno e si grattava i capelli per disperazione, si girò e rispose: Come!Distruggere la mia biblioteca? Mai! Bob Trevelyan scrisse poemi che mai pubblicò e dei quali fu, ovviamente, l’unico e l’ultimo lettore.

    Ho l’impressione che gli scrittori mentano sulle proprie letture. È facile prendere in giro. Poiché nessuno li conosceva fino a quando non diventarono scrittori, possono fare del loro passato quello che vogliono. E bisogna credergli, giacché non ci sono altre opzioni. Sartre, per esempio, nella sua bella autobiografia Le parole, racconta che era solito scendere in cantina a leggere libri che suo nonno o suo zio o entrambi vi nascondevano, e lì, in cantina, leggeva assorto ogni libro che gli capitasse a tiro. Sartre narra che all’inizio rincorreva solo le macchie nere senza capire nulla. La sua vista seguiva i punti scuri messi uno di seguito all’altro che parevano stare lì solo per un istinto di sopravvivenza. Racconta che un giorno, mentre seguiva i punti neri, comprese improvvisamente il significato delle parole che, unite ad altre parole, generavano in lui un concetto più grande di lui e del mondo. E fu così che imparò a leggere. Il passaggio è bellissimo, descritto così come lo fa Sartre, però non ci credo del tutto.

    La letteratura attuale ha speso infinite pagine nel raccontarci come gli scrittori sono giunti a essere quel che sono. Quale giorno fu, per così dire, quello cruciale della loro vita, il giorno in cui diventarono scrittori. O quello in cui, essendo già scrittori, decisero di chiudere la porta a ogni altra attività. Ci sono romanzi interi che trattano questo tema, però c’è poco o nulla scritto su come i lettori sono giunti a essere quello che sono. Quale giorno fu, per così dire, quello cruciale nella loro vita, il giorno in cui diventarono lettori e decisero di chiudere la porta a ogni altra attività.

    Il personaggio García Madero del romanzo I detective selvaggi dello scrittore Roberto Bolaño, che ho conosciuto un pomeriggio piovoso fuori della Casa de América, a Madrid, ruba libri. Ma non ruba i libri che lui vorrebbe, dice, ma quelli di cui gli capita l’occasione. Questa furia di leggere è quella che scopro in molti lettori del fine settimana, che cercano qualunque pretesto per non leggere. Se lo scrittore è ungherese, perché è ungherese. Se il romanzo è rosa, perché è rosa. Se i personaggi sono bisessuali, perché sono bisessuali. Ci sono lettori che, perfino, giustificano il proprio rifiuto con lo spessore del libro. Sono troppe pagine, dicono, incolpando lo scrittore per difetti stilistici e altre stupidaggini. A me non interessa l’oggetto amato se non l’amare, sembra dirci García Madero, personaggio di Roberto Bolaño, che ho conosciuto un pomeriggio piovoso fuori della Casa de América, a Madrid. È una buona idea per andare a letto.

    Ogni lettore che si vanta dovrebbe leggere i Notebooks di Samuel Butler.

    Il vecchio maestro dava al suo giovane alunno libri cattivi che sembravano buoni perché imparasse il mestiere in maniera cattiva, anche se buona all’apparenza. Così, mentre l’alunno apprendeva il mestiere con i libri cattivi, ma dall’aspetto buono, che gli dava il maestro, questi continuava il suo cammino con libri buoni, ma dall’apparenza cattiva, che lui stesso faceva venire dalla Francia o dalla Germania. Mattine, pomeriggi e notti, con tenacia ed entusiasmo, l’alunno portava a correggere al suo maestro l’opera che gli faceva sudare sette camicie e il maestro, dopo averla letta minuziosamente e metodicamente, cancellava qua e là quello che riteneva buono, facendolo passare per cattivo e aggiungeva qua e là quello che considerava cattivo, facendolo apparire come buono. Contrariamente a quello che sperava il maestro – che aveva sempre un sorriso beffardo sotto i baffi – l’opera dell’alunno iniziò ad avere moltissimo successo. Presto trovò un critico che la lodò, un lettore che la raccomandò e un teorico che la pose come esempio per i nuovi settori della ricerca filologica. Ancora stupito l’alunno si recò dal maestro per ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per lui. Parlarono per ore su questo e quello, fino a quando, poco prima di andarsene, l’alunno consegnò al maestro una copia autografata del suo libro, il quale, dopo aver chiuso la porta dietro di sé, non fece altro che metterlo, con noncuranza, sullo scaffale dei libri buoni che sembrano buoni e che mai, di sicuro, avrebbe letto.

    Dopo Continuità dei parchi, Julio Cortázar non è più tornato a sorprendermi. Né con Il gioco del mondo. Rayuela né con le sue Storie di cronopios e di famas. La lettura di Continuità dei parchi mi ha provocato lo stesso effetto di Manomorta di Graham Greene. In verità ho letto entrambi i racconti nello stesso giorno e quasi allo stesso momento. Li ho letti a Buenos Aires su una panchina del lungomare. Manomorta contiene tutti gli elementi che cerco in una narrazione: incertezza, suspense, porte socchiuse. Ma anche un pizzico di quell’immaginazione che sconfina nella fantasia. Quello che succede in Manomorta non potrebbe mai accadere in Continuità dei parchi. Voglio dire: non è che non possa succedere, è che sem plicemente il fuoco su cui viene cotto ogni racconto è tanto diverso che, paradossalmente, c’è un momento in cui entrambe le storie si uniscono, confabulano. A volte mi domando perché cado in questo tipo di associazioni e mi perdo in esse. I due racconti, i due autori sono tanto lontani che ho il sospetto che nemmeno hanno letto nulla l’uno dell’altro. Ma perché allora quando penso a Continuità dei parchi, oltre a vedere l’uomo che accoltellano di spalle, finisco sempre per associarlo al racconto di Graham Greene, un racconto nel quale qualcuno, nessuno sa perché, scrive lettere e invia messaggi e si dedica a rovinare la vita a una coppia che ha appena terminato di ricostruire la propria vita. La stessa sedia in cui stava l’uomo che leggeva la storia, la propria storia, è la sedia sulla quale l’uomo del racconto di Graham Greene legge i messaggi che gli invia la sua ex moglie, le lettere in cui parla delle masserizie e illustra i difetti della casa. Quello che nessuno ha visto in entrambi i racconti è questo ponte che va dalla sponda di uno a quella dell’altro e

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