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Scrivere: Autoritratto con figure
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E-book93 pagine1 ora

Scrivere: Autoritratto con figure

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Scrivere. In un mio libro ho scritto che uno scrittore scrive. È la sua ragione, è la sua vita. È anche la mia. Come Malone attaccato al suo mozzicone di matita? No. Malone, nel racconto di Samuel Beckett, inventa storie, come la maggior parte degli scrittori, poi scrive. Io non invento storie. Costruisco sentieri e percorsi che sono la striscia che la scrittura procedendo lascia dietro di sé come la bava di una lumaca sulla superficie di pietra di quel muretto. Quale muretto? Uno scrittore qui aprirebbe lo spazio a una storia. Io, al contrario, faccio l’inventario delle tracce argentee della lumaca. Ne seguo il percorso, anche se, nel giro degli anni, le volute si sovrappongono, e i molti itinerari sembrano sempre più un unico itinerario. Lungo questo itinerario i miei autori, che mi hanno sempre accompagnato.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita17 feb 2022
ISBN9788816803251
Scrivere: Autoritratto con figure
Autore

Franco Rella

Ha insegnato Estetica, soprattutto allo IUAV di Venezia, interpretando la disciplina come in territorio di frontiera e di transito tra la filosofia, la letteratura e le arti. Si è occupato di Rilke, Baudelaire, Platone, la tragedia, Nietzsche e Bataille. Ha scritto numerosi saggi, alcuni dei quali tradotti in più lingue. Da ultimo ha pubblicato Immagini del tempo (2016); Il segreto di Manet (2017); Forme di esistenza e Le soglie dell’ombra (2018). Con Jaca Book ha pubblicato Scrivere. Autoritratto con figure (2018); Territori dell’umano (2019); Immagini e testimonianze dall’esilio (2019), Immagini del tempo (2021) e ha partecipato al volume Cézanne/Rilke. Quadri da un’esposizione, Parigi 1907 (2018).

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    Anteprima del libro

    Scrivere - Franco Rella

    Scrivere. In un mio libro ho scritto che uno scrittore scrive. È la sua ragione, è la sua vita. È anche la mia. Come Malone attaccato al suo mozzicone di matita? No. Malone, nel racconto di Samuel Beckett, inventa storie, come la maggior parte degli scrittori, poi scrive. Io non invento storie. Costruisco sentieri e percorsi che sono la striscia che la scrittura procedendo lascia dietro di sé come la bava di una lumaca sulla superficie di pietra di quel muretto. Quale muretto? Uno scrittore qui aprirebbe lo spazio a una storia. Io, al contrario, faccio l’inventario delle tracce argentee della lumaca. Ne seguo il percorso, anche se, nel giro degli anni, le volute si sovrappongono, e i molti itinerari sembrano sempre più un unico itinerario. Lungo questo itinerario i miei autori, che mi hanno sempre accompagnato. Mi sembra di non riuscire a muovermi senza di essi, ripetendo le parole che in passato mi hanno aperto la strada, e che mi pare continuino ad aprirmi strade. O almeno a permettermi di scrivere, anche se forse la strada della scrittura non mi porta più, come in passato, a lande e a paesaggi nuovi. Scrivere per scrivere? Mi chiedo se questa non sia una maledizione. In un periodo di grande distretta, in cui sembrava – e sempre più spesso è così – che la lettura mi fosse preclusa, mi sono portato giorno dopo giorno su questa sedia, davanti allo schermo di questo computer. E ho scritto. E mentre la scrittura procedeva penetravo nei testi che avevo già scritto, come fossi guidato attraverso di essi, strappando loro, ancora una volta, le parole dei miei autori, quelle parole che avevo già citato e che mi avevano allora suggerito la lettura di testi nuovi da offrire in sacrificio alla grande lumaca, o forse al movimento serpentino di una lucertola. Ma sono certo che la mia scrittura non ha la grazia guizzante della lucertola là su quel muretto. Non più. Ancora.

    Credo che quel muretto abbia un senso. Se riuscirò a capire e a circoscriverlo ci tornerò. Ora vorrei rispondere a una obiezione, che d’altronde nessuno mi ha fatto ma che pure si è mossa dentro di me. Perché non riempire questa scrittura, che riflette – priva di storie – solo se stessa, con eventi, episodi, fatti della mia vita? E se questa vita contiene soltanto episodi senza spessore, riferire almeno i pensieri e le immagini che l’hanno attraversata?

    Ho decine, forse centinaia, di quaderni che occupano uno spazio considerevole nelle mie librerie. Sono pieni di scrittura. Le pagine sono nere, fitte, con qualche segno rosso a margine. Sono i frammenti dei libri che ho letto, commentato, catalogato, indicizzato, quando ancora la mia scrittura era leggibile, vale a dire quando io stesso riuscivo a decifrarla. Tra quelle decine di quaderni ce ne sono due o tre che contengono pezzi che potrebbero definirsi di scrittura diaristica. Ho distillato alcune di queste pagine e le ho affidate alla lumaca, che le distillasse ulteriormente in bava. Un mazzetto di pagine corrispondeva a mesi se non ad anni di tempo e di vita. Quando sono passato a tentare una sorta di diario aprendo un file sul computer, una trentina di pagine corrisponde a un anno, a cui segue un’interruzione, e la ripresa dopo anni o, come nell’ultimo caso, la fine definitiva. Mai più.

    Non so dunque tenere un diario. Sono poco interessato alla mia vita passata. Non sono in grado di inventare storie. La mia scrittura è destinata – lo ripeto – a rimanere inesorabilmente intransitiva. Ma anche, temo, a sopravvivere solo nella sua intransitività, vale a dire nella sua inutilità. Malone inventava storie e prolungava la sua vita. Sherazad si salvò la vita raccontando storie, anch’io mi sono salvato la vita, ovvero mi mantengo in vita scrivendo, ma – a differenza di Sherazad – senza scrivere storie. Ma nemmeno queste sono del tutto parole mie, ma parole di Kierkegaard. Anche lui non inventa storie. A differenza di Malone che scrive le storie che inventa, egli per mantenersi in vita scrive senza avere storie. Le tenta, ma sono storie macchinose, illeggibili in quanto storie. Non vorrei trasformare questa riflessione sulla scrittura in un saggio. Mi limito a dire che anche dove si abbozza una storia in Kierkegaard – Don Giovanni, il seduttore, Climacus –, la storia regge un pensiero, e il pensiero sembra legittimare la scrittura. Sembra, perché, in effetti, è la scrittura invece a legittimare se stessa. Si giustifica con il pensiero che sembra esprimere. Ma giustificare non è legittimare.

    Vedo la bava argentea sul muretto su cui ho visto guizzare la lucertola. C’è un odore, forse di terra, forse di erba, forse di sole.

    Non posso tirarla per le lunghe. Quel muretto è mio. Mi ha impedito di diventare Bartleby. Era il muretto su cui sedevo, nell’infanzia e nella prima adolescenza, con la schiena appoggiata a una rete metallica, che divideva quello spazio da altri spazi, oppure sedevo semplicemente, chinato in avanti, o stavo addirittura sdraiato, e comunque leggevo. Il muretto correva lungo il perimetro di tutto l’orto. Dunque, più o meno alto, per decine di metri. Era un muretto di pietre sovrapposte e di terra, da cui spuntavano piccoli fiori che assomigliavano a bocche di leone lillipuziane. Sopra aveva lastre di pietra ondulata, levigata nei decenni o addirittura nei secoli dalla pioggia. La pietra aveva delle sbavature rugginose là dove si incuneava sotto un lembo della rete metallica. Su quel muretto, su cui certamente c’era la striscia di bava di lumaca, di cui ho parlato, e su cui ho certamente visto guizzare più di una lucertola, come ho detto, leggevo. A un certo punto leggere era diventato sinonimo di scrivere, perché ho pensato allora, più volte, che un giorno avrei scritto storie come quelle che leggevo. È come se Martin Eden si ponesse a garanzia di tutto questo che sentivo come un necessario passaggio. Un passo ulteriore. Aggiungo solo che l’ultima lettura su quel muretto – quasi una svolta d’epoca per me – è stata dei primi due volumi della Ricerca di Proust, e dunque è stata la lettura di un inarrivabile. Ma la scrittura è venuta dopo, relativamente molto dopo. Né poesie adolescenziali né diari. È venuta tardi. All’inizio una scrittura timidamente saggistica, poi solidamente saggistica, con tutte le note giuste a piè di pagina, ma poi è arrivato il momento in cui la scrittura mi ha afferrato con la sua inesorabilità e, se vogliamo, con la sua inutilità. Talvolta le note sono rimaste, ma più come il richiamo ai nomi di compagni di viaggio, e non come un rafforzativo di quanto venivo non più argomentando, ma appunto scrivendo.

    E ora? Ora che sono qui, in questo momento, in cui mi pare di non avere né lettura né scrittura anche se sto scrivendo? Anche se questo nulla si articola nelle righe che vengono sciamando sullo schermo del computer?

    Non ho – ho scritto – né lettura né scrittura. Affermazione, questa, fatta scrivendo. Forse ci tornerò. Utilizzo questa affermazione come una pausa. Un passaggio.

    Le citazioni intarsiano la mia scrittura. Compagni di strada ho sempre detto, complici e fratelli. Mi chiedo ora, proprio in questo istante, cosa rimarrebbe dei miei testi se ne fossero espunte le citazioni. Pensare a una scrittura che delinea qualcosa di puro, netto e preciso. Bartleby di Melville. O anche The killers, o Un luogo pulito, illuminato bene di Hemingway. Testi brevi, precisi, due pagine, anche meno, comunque storie. Oppure altre storie, che si prolungano e distendono per più pagine, come quelle di Marlow o di Aschenbach, o

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