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Università@carcere: Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono
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Università@carcere: Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono
E-book293 pagine3 ore

Università@carcere: Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono

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Info su questo ebook

Il volume, attraverso una interessante scrittura collettiva degli autori, testimonia dell’incontro proficuo tra società e carcere, tra esperienze dell’esterno ed esperienze dell’interno in un gioco di luci e di ombre.
Questo libro parla di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio, ma anche di conflitto e di perdono in un luogo tragico: il carcere. Come? Attraverso
sei narrazioni su temi quali: il divenire della coscienza, giochi di luci e ombre, leggere l’Amleto attraverso gli occhi della mediazione, il potere terapeutico e formativo delle fiabe, l’ombra del potere, i conflitti in Medea. Il testo rivela così al lettore l’ottica della mediazione dei conflitti tra le parti in gioco in una società, come quella attuale, la quale, pur essendoci totalmente immersa, nega
la violenza e cerca di allontanare da sé, nascondendole, tutte le parti negative nell’idea di esorcizzarle. Ma queste, se non accolte e riconosciute, ritornano più potenti che mai e prendono il sopravvento. E la dimensione del carcere ne è un esempio significativo. È proprio il carcere, nel nostro caso, che, in certe circostanze e dopo dolorose esperienze, diventa il luogo dove fare i conti con la propria ombra e che apre la strada per addentrarsi nei sotterranei dell’anima o del nostro lupo interiore...
LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2015
ISBN9788863652901
Università@carcere: Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono

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    Anteprima del libro

    Università@carcere - Alberto Giasanti

    srl


    PREFAZIONE DI CRISTINA MESSA¹

    L’Università degli studi di Milano-Bicocca ha tra i suoi obiettivi quello di costruire nuovi percorsi per valorizzare e diffondere la conoscenza all’interno della società ed è fortemente impegnata in progetti che restituiscano benefici al territorio. Sono queste le attività che vengono indicate come terza missione culturale e sociale dell’università che entra così in una interazione diretta con la società, in particolare attraverso la produzione di beni pubblici con vari contenuti (sociali, educativi, di consapevolezza civile, di salute pubblica, a beneficio delle comunità e così via) che contribuiscono ad aumentare il benessere sociale.

    La convenzione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) della Lombardia rientra tra questi progetti, con il favorire, da un lato, lo sviluppo culturale e la formazione universitaria per sostenere le persone detenute degli istituti penitenziari milanesi nell’obiettivo primario del loro reinserimento e fornendo, dall’altro lato, opportunità di formazione ai dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria, sia personale di polizia penitenziaria sia personale del comparto ministeri. Progetto che può essere favorito dall’approfondimento delle conoscenze sull’ambiente penitenziario, necessarie per il miglioramento degli aspetti educativi e organizzativi.

    Portare l’Università in carcere significa favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria delle persone detenute con l’obiettivo del loro reinserimento sociale e lavorativo. Infatti, come dice lo stesso Provveditore Regionale, l’istruzione è uno degli elementi del trattamento e rappresenta una delle leve strategiche al cambiamento delle persone detenute e per questo le due Istituzioni (Università e Amministrazione Penitenziaria), nel quadro dei rapporti di collaborazione e nell’ottica di una sempre maggiore apertura al territorio, hanno voluto orientare le persone private della libertà verso una scelta consapevole del percorso di studi da intraprendere e, successivamente, formarle attraverso l’iscrizione ad uno dei corsi di laurea triennali o magistrali dell’Ateneo. In questa ottica il nostro Consiglio di Amministrazione ha deliberato l’esonero delle tasse e dei contributi universitari per le persone detenute che si iscrivono ad uno dei corsi di laurea o di laurea magistrale della nostra Università. Al momento sono 37 le persone detenute in istituti penitenziari della Regione Lombardia iscritte all’Università degli studi di Milano-Bicocca.

    Sono quindi molto soddisfatta della partecipazione e dell’impegno delle persone detenute coinvolte nel corso sulla mediazione dei conflitti tenutosi presso il Carcere di Opera e dei riscontri positivi arrivati dai nostri studenti che vi hanno partecipato. Partecipazione e impegno che si sono concretizzati in questo volume, frutto del lavoro comune di studenti e di persone detenute.

    PREFAZIONE DI GIACINTO SICILIANO²

    La sempre crescente richiesta di formazione universitaria da parte degli ospiti della Casa di reclusione di Milano Opera, in una logica di continuità con i cicli di studio già presenti, trova nel Protocollo d’intesa stipulato tra l’Università Bicocca ed il Provveditorato Regionale di Milano, un suo formale riconoscimento e costituisce un’incredibile occasione per rivedere modelli di intervento e di gestione e pensare ad un polo attrattivo che varchi i confini regionali e si ponga come riferimento e punto di arrivo sull’intero territorio penitenziario italiano.

    Stimolo, confronto, scelta, impegno, sana competizione e proiezione sul mondo reale caratterizzano da tempo gli interventi pedagogici del nostro istituto, con l’obiettivo dichiarato di avviare percorsi di reinserimento basati sulla scoperta/ valorizzazione delle abilità e su una reale capacità di competere sul mercato del lavoro, senza aiuti e privilegi, spesso effimeri e talora controproducenti, che possono in qualche modo accompagnare la persona detenuta.

    Un sistema strutturato ed integrato di interventi in grado di qualificare ulteriormente l’offerta verso scelte consapevoli in una logica di sana competitività con il mondo esterno dove tutti possono partecipare, ma non tutti riescono ad arrivare. Non un privilegio per una persona detenuta quindi, ma uno scendere in campo sullo stesso piano di chi libero può affacciarsi al mercato del lavoro con competenze, esperienza, professionalità. Una sfida costante verso traguardi sempre più ambiziosi, senza paure e nella piena consapevolezza di potercela fare.

    Questo il senso dell’esperienza, assolutamente innovativa, che ha di fatto inaugurato il Progetto: 30 giovani studenti ed altrettante persone detenute, più o meno giovani, italiane e straniere si sono incontrate per 8 settimane confrontandosi sui tema dei conflitti, della loro gestione, delle conseguenze che tanto peso per le persone detenute hanno avuto nelle scelte che hanno determinato la situazione attuale, in quelle che ogni giorno caratterizzano la quotidianità del carcere, in quelle che separano le persone da un futuro nuovo e normale in cui ognuno spera di tornare, libero per trovare una collocazione nuova e soddisfacente.

    Un’esperienza incredibile in cui gli operatori hanno visto persone conoscersi, crescere giorno dopo giorno, paure e diffidenza abbattersi, abilità nuove e consapevolezza uscire progressivamente ed affermarsi; il gap culturale in taluni casi presente è stato velocemente colmato dalla forza dell’esperienza di strada, dalla voglia di comprendere e correggere i propri errori, dal bisogno di insegnare con il proprio esempio, di non sfigurare e dimostrare di poter essere alla pari. I risultati, raccolti nel testo, non rendono forse giustizia ai percorsi umani che si sono sviluppati durante il corso ed al significato assoluto che l’esperienza ha avuto per tutti i partecipanti, interni ed esterni. Orgoglio, gratitudine, fiducia, entusiasmo. Un ottimo viatico per il nuovo Polo Universitario che parte ufficialmente in questi giorni.

    Un ringraziamento particolare al Prof. Giasanti, che ha avuto la grande intuizione ed il coraggio di proporre un intervento formativo assolutamente innovativo e agli studenti del suo corso; al Magnifico Rettore Prof.ssa Cristina Messa ed al Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria Dott. Aldo Fabozzi, che hanno fortemente voluto il Protocollo e, unitamente ai loro collaboratori, hanno consentito che tutto questo si avverasse, superando ostacoli normativi e burocratici e creando i presupposti per la migliore riuscita. Massimo sarà il nostro impegno.

    Ai nuovi studenti i migliori auguri di ogni successo.

    INTRODUZIONE DI ALBERTO GIASANTI

    Parlare di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio in un corso universitario è complesso, ma farlo in un carcere diventa più difficile, anche per un docente che ha parecchi anni di esperienza formativa in Italia e in vari Paesi, in ambiti istituzionali e non istituzionali.

    Vorrei raccontare allora l’esperienza del corso, dal titolo Le forme della mediazione, che tengo al primo anno del corso di laurea magistrale in programmazione e gestione delle politiche e dei servizi sociali (progest) presso il dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’università degli studi di Milano-Bicocca e che, nell’anno accademico 2013–2014, si è svolto, in 7 incontri di 8 ore l’uno, da febbraio a giugno, nel teatro del carcere di Opera, con la partecipazione di 32 studentesse iscritte alla laurea magistrale e di 27 persone detenute che hanno scelto di seguire il corso.

    L’idea di un’attenzione formativa al mondo del carcere, ai suoi operatori e alle persone detenute non è certo nuova: ricordo la mia prima esperienza vissuta, nell’anno scolastico 1972–1973, come sociologo del diritto nel corso di cultura sociale, indirizzato ad un gruppo di giovani adulti nel carcere di San Vittore a Milano e organizzato da Piero Malvezzi.³ Un’esperienza intensa per me che sperimentai, per la prima volta, la narrazione come modalità di relazione con un gruppo di studenti, chiusi insieme nei sotterranei del carcere. Le storie personali dei detenuti si intrecciavano con la mia e con altre storie di vita dentro e fuori del carcere. Per tutto il periodo del corso, oltre alle stimolanti discussioni in gruppo sulle tematiche sociali di quegli anni, ricoprivo anche un ruolo di mediatore tra il dentro e il fuori, portando all’esterno le tante voci della galera.

    Con la firma dell’accordo tra l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (PRAP) per la Lombardia del giugno 2013 il rapporto tra università e carcere assume una rilevanza istituzionale che dà la possibilità di sviluppare attività scientifiche, culturali e didattiche presso gli istituti penitenziari di Milano, Monza e Lodi e presso l’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano-Lodi e dello stesso provveditorato. La convenzione, rivolta a tutto il personale degli istituti penitenziari, alle persone detenute, ai docenti e agli studenti dell’ateneo, prevede in particolare la realizzazione di un polo universitario presso le case di reclusione di Milano Bollate e Milano Opera con la possibilità di organizzarvi corsi, stage, tirocini e laboratori. Da qui la mia proposta di organizzare il corso in carcere che trova piena disponibilità nel direttore e negli operatori come anche nel rettore dell’università.

    Così sabato 22 febbraio 2014 aspetto gli studenti ai cancelli del carcere. Le modalità di ingresso sono laboriose, dimenticandosi gli studenti di lasciare all’ingresso cellulari, computer, chiavette usb e internet, oggetti personali e così via, ma riusciamo a superare le cerchie esterne e ad accedere alla sezione didattica dove si trova il teatro, il luogo delle nostre lezioni. Porto con me, oltre ai materiali didattici, una gigantografia di una maschera africana acquistata ad un mercatino antiquario di Parigi durante uno degli incontri periodici sulla mediazione umanistica dei conflitti a cui da qualche anno partecipo. Entriamo nel teatro e ci organizziamo: la prima parte delle lezioni si svolge sul palcoscenico, mettendoci in cerchio con al centro la maschera⁴ che appendiamo ad un blocco di cartapesta, mentre la seconda parte si svolge in platea divisi in gruppi che hanno scelto di lavorare sui seguenti temi: il divenire della coscienza, giochi di luci e ombre, leggere l’Amleto attraverso gli occhi della mediazione, il potere terapeutico e formativo delle fiabe, l’ombra del potere, i conflitti in Medea.

    Iniziamo a parlare della maschera come metafora del diverso da sé, l’alter ego, il doppio. In generale si ha una nozione negativa di maschera⁵: ciò dietro a cui il volto dell’essere umano si nasconde. La maschera è quanto appare agli altri; dietro, celato e protetto, l’essere autentico resta cosciente della propria diversità. Ci si mette la maschera per apparire diversi da quello che si è. La natura della maschera è quella di essere doppia. Si tratta della doppia polarità dei suoi versanti: essa si affaccia verso l’interno e verso l’esterno, verso il mondo degli umani e verso quello degli dei/demoni, verso la luce e verso le tenebre. Ma alla natura della maschera, oltre alla doppiezza, appartiene anche di tenere uniti i due versanti e la doppia polarità (interno ed esterno). Naturalmente questa sua ambivalenza nelle due direzioni risponde alla convenzione che le due metà dell’universo abbiano bisogno di essere mediate. La maschera infatti è potente e svolge la sua funzione di conciliazione degli opposti quando interno ed esterno non si corrispondono e l’universo tende a divaricarsi. In altre parole la maschera simboleggia la tendenza verso l’unità e non verso la dispersione.

    A questo proposito è significativa la doppia maschera rappresentata da Giano: dio delle porte verso l’interno e verso l’esterno, dio bifronte, giovane-vecchio del passato e del futuro, signore delle due vie, dotato del terzo occhio che vede tutto, l’occhio frontale che raccoglie le diversità. Così la maschera, intesa come oggetto nel quale confluiscono i vari aspetti dell’unità e della pluralità della persona, introduce al mistero dell’apparire. La realtà materiale della maschera risalta nella sacralità che le deriva dall’essere fatta di questa o di quella natura. Ad esempio il legno è collegato alla foresta, luogo sacro per eccellenza, sede degli spiriti ancestrali, terra dove si raccolgono i custodi delle maschere.

    E proprio la terra viene considerata, da molte popolazioni dell’Africa Occidentale, la madre di tutte le maschere: insieme dea e spirito ancestrale. Inoltre la nozione di doppio, riferita all’individuo, trovava probabilmente nella maschera la corrispondenza più appropriata. Nella lingua dei Dogon (Malì) maschera significa ciò che cattura e fissa il mana, cioè l’anima delle cose. È la maschera che nasconde (ricordiamoci che la condizione per ottenere la concentrazione interiore è data dall’essere nascosti agli altri) e, al tempo stesso, rivela (nascondere è sempre a qualcuno e così rivelare è a coloro che guardano). La maschera terrorizza, ma anche serve a farsi riconoscere e a riconoscersi. È quindi un modo per comunicare con gli altri costruendosi una identità.

    Ogni società ha le sue maschere. Quali sono le nostre? O, in altri termini, quali sono i demoni che la nostra società combatte o evoca?

    Luigi Pirandello, nei Sei personaggi in cerca d’autore, dice che i personaggi si presentano tutti con una maschera che li definisce come tipi. Insomma sono delle maschere di ciò che loro rappresentano ed per questo che il teatro di Pirandello si può considerare un teatro del riconoscimento. I personaggi sono in cerca di qualcuno che li riconosca: non esistono sino a quando non saranno riconosciuti. La maschera dunque al tempo stesso nasconde e rivela. E lo fa in modi diversi, secondo le situazioni e nei vari momenti della vita. All’inizio la maschera la trovi in famiglia. Uno crede che in famiglia nessuno indossi una maschera, poi si accorge che gli altri se la mettono. Cerca di capire cosa c’è dietro a quella che portano gli altri e, insieme, cerca di capire quale sia quella che meglio gli serve per proteggersi dagli altri.

    In fondo, se ci pensiamo, l’adolescente è incerto lui stesso su cosa c’è dietro alla maschera che portano gli altri, come è incerto su cosa ci sia veramente che faccia conto di nascondere. Cerca la maschera più terribile o quella più festosa e ingannatrice. Tiene gli altri a distanza, mentre si guarda un po’ alla volta crescere dentro la maschera che solo in parte si costruisce, ma che poi, ad un certo punto, si vede costretto ad indossare.

    Nelle culture antiche la maschera serve a far riconoscere il portatore di un ruolo e quindi serve ad occultare. Poi la possibilità della maschera matura nel soggetto perché vede che gli altri gliene riconoscono una e per il soggetto accettare quel riconoscimento sembra la cosa più ovvia, finendo per indossare quella figura nata dal riconoscimento degli altri come una maschera che ha scelto lui. Così la maschera diventa qualcosa che il soggetto non riesce più a togliersi, almeno che… Il film The Mask ne è un esempio significativo. Il protagonista è un impiegato di banca che tutti i giorni subisce, senza reagire, le piccole angherie della padrona di casa e del capoufficio. Ma una notte si trova a vagare per la città e, quasi per magia, si imbatte in una maschera. Indossandola si trasforma in un’altra persona. La maschera gli permetterà di entrare in contatto con se stesso, mostrandogli quegli aspetti della sua personalità che aveva rimosso. Il protagonista è ambivalente nei confronti del suo doppio mascherato. Ne ha paura perché incarna quella parte di sé divenutagli nel tempo ostile, ma ne è affascinato in quanto, grazie alla maschera, i suoi sogni diventano realtà, ne teme l’aggressività e la forza dei sentimenti, ma è attratto da quella esuberanza e istintualità che percepisce come una sua parte ritrovata. Il protagonista riesce a fare una scelta solo quando scopre di essere entrambe le persone: se stesso e la maschera. A poco a poco comprende che esse sono parti inscindibili di sé, che l’uno non può vivere senza l’altra e che la vita ha senso solo se si ha abbastanza coraggio da lasciarli convivere insieme.

    Se la maschera assume la funzione di rito iniziatico che, nelle società antiche, permetteva sia l’abbandono della propria personalità sia il ritrovarne una nuova, oggi portare la maschera ha forse il significato insieme di mediazione con se stesso e di mediazione con l’altro. Dunque lavorare sul conflitto e sulla mediazione con se stessi significa fare i conti quotidianamente con il nostro doppio⁶, ma anche con la molteplicità delle nostre identità⁷ e, infine, con le proiezioni delle nostre ombre. L’incontro dell’essere umano con la propria ombra comporta un lavoro difficile e faticoso che si protrae nel tempo e che mette in gioco l’intera personalità dell’individuo. L’ombra comunque non ha solo aspetti nascosti, rimossi o spiacevoli, ma ha anche istinti sani, impulsi creativi e buone qualità. Questo determina il conflitto continuo tra l’io e la sua ombra, risolvibile solo se l’individuo riesce a mediare tra le sue due parti permettendo loro di dialogare. In altre parole occorre assumere su di sé l’ambivalenza, l’incertezza, il riconoscimento della propria parzialità e provvisorietà per iniziare un percorso di trasformazione interiore accogliendo ciò che appare negativo e oscuro e ricomporre a unità le nostre parti divise.

    Il reciproco riconoscimento/disconoscimento di luci e ombre è bene espresso in un passo del capitolo intitolato Giochi di luci e ombre: dalla mediazione di sé alla responsabilità sociale là dove si racconta di un lupo in agguato che la luce rende ombra, ora alleata ora carnefice.

    Il corso, nella sua seconda parte, mette in evidenza come le storie di tutti i partecipanti si intrecciano, quasi a sovrapporsi le une alle altre in un altalenarsi tra singoli e gruppi, tra coscienza individuale e coscienza collettiva, come due sguardi differenti che si confrontano.

    È nella profondità del nostro io che si può ritrovare la coscienza collettiva ed è negli strati più intensi della coscienza collettiva che ritroviamo la tensione dell’io, come una sorta di coinvolgimento emotivo che produce passione e sofferenza. Diventa allora cruciale, ci suggerisce Jacqueline Morineau, un lavoro di mediazione tra vecchio e nuovo ordine sociale, tra vecchia e nuova etica; lavoro di mediazione nel quale è indispensabile, se si vuole ricomporre l’unità, assumere un atteggiamento di disponibilità verso sé e verso l’altro con una forte compartecipazione emotiva (cum pathos) senza la quale ciascuno rimane dentro i propri confini.

    Mediazione, ci dice Adolfo Ceretti nella prefazione all’edizione italiana di Lo spirito della mediazione, significa prendersi cura di comportamenti detti antisociali che producono solitamente in noi e negli altri sentimenti di risentimento, tradimento, rabbia, desiderio di vendetta, umiliazione, incomprensione, senso di colpa. Occorre dunque, prosegue Ceretti, reggere la paura dei potenziali effetti distruttivi di questi sentimenti sociali e imparare a collocarsi tra le persone che ne sono portatrici. E continuando nella sua narrazione Ceretti ci ricorda che la prospettiva umanistica della mediazione intende aprire uno spazio nella contemporaneità, indicando una via lungo la quale i sentimenti messi a nudo e violati trovano finalmente un luogo per potersi esprimere e per potere dare e prendere la parola.

    Allora per andare oltre la sofferenza è necessario incontrarla nella sua dimensione tragica e certamente il carcere è tragedia e le storie narrate nei sei capitoli del libro ne sono una viva testimonianza.

    1. IL DIVENIRE DELLA COSCIENZA

    DI GIOVANNI CARON, PIETRO CUNSOLO, ORIANA GHIDOTTI, MOHAMED OUNNAS, FEDERICA PENNATI, CHIARA TRONCONI, ELEONORA TURRI

    "Per quanto mi riguarda nella mia vita ho avuto sempre dei sensi di colpa, soprattutto con la vita che ho condotto, ma quando mi rendevo conto che non era quello che volevo era sempre troppo tardi. Ormai ero entrato nel personaggio e in quello che facevo non ci dovevano

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