La LIS come "strumento": Introduzione per un trattamento non verbale per i soggetti comunicopatici
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La LIS come "strumento" - Mauro Chilante
Presentazione
Questo saggio nasce sottoforma di dispensa del Corso di Lingua dei Segni e Cultura Sorda dell’Università di Teramo.
Le chiusure e riaperture alternate hanno visto diventare necessarie formulazioni cartacee di quelle informazioni e nozioni, quelle cognizioni generali che normalmente sarebbero state offerte oralmente.
Il lavoro, perciò, rappresenta una sorta di sintesi dell’evoluzione di ciò che in materia di LIS, ma soprattutto di sordità, di inclusione sociale, ecc. è accaduto da quando ho iniziato, ormai 45 anni fa, ad occuparmi di sordità andando a dirigere la Sezione Provinciale dell’allora Ente Nazionale Sordomuti di Ragusa, fresco vincitore di un concorso nazionale.
Ci si trovava in un’era, dal punto di vista sociale, decisamente diversa. L’affermarsi ed affinarsi di certi valori allora sconosciuti è venuto formandosi pian piano. Eppure, alcune consapevolezze sono ancora oggi incerte perché una serie di pregiudizi e di preconcetti, oltre che di meschine convenienze, sono ancora ben vivi, in Italia, ed impediscono che, finalmente, le comunità dei Sordi possano pienamente rivendicare e vedere realizzati ed affermati i loro diritti sociali, civili e morali.
C’è chi sta da anni sostenendo il fatto che la sordità non sia una disabilità ma una differenza e che la Lingua dei Segni e la Cultura Sorda abbiano una funzione sociale decisamente importante dovendo, noi normali
, riconoscere la validità di questo strumento linguistico, anche ai fini della Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) e della Cultura Sorda, come risultato di usi, costumi, abitudini, dell’uso comune di una espressione linguistica unica, diversa, completa e complessa. Una espressione, la LIS, che il solo Stato italiano, in Europa e probabilmente nel mondo, non ha ancora riconosciuto¹. Fatto di una gravità unica che dimostra quanto bassa sia da noi la cultura del sociale.
Non dobbiamo dimenticare che in Italia le persone Sorde, appena 50 anni or sono, potevano essere rinchiuse nei manicomi perché considerate deficienti
in quanto non in grado di capire e di farsi capire. Era sufficiente che un parente rivolgesse un’apposita richiesta al Prefetto per ottenere un ordine coercitivo di ricovero.
Esisteva allora (ma, dicevo, ancora oggi le cose non sono cambiate di molto, purtroppo) una visione molto arretrata e succedevano cose che oggi non accadono più, ma che hanno lasciato strascichi notevoli.
Allora, dal momento che molte scienze diverse ma tutte con influenze notevoli sulla relazione sociale e sulla comunicazione, hanno sviluppato filoni di ricerca importanti mi è sembrato necessario creare tra loro un collegamento evidente che consentisse di avere uno sguardo d’insieme, per forza di cose generico, ma stimolante.
Ecco, allora comparire aspetti che sono stati trattati separatamente, chi più chi meno, negli studi dedicati alla Lingua dei Segni. Aspetti che ora servono, a mio avviso, a creare lo sfondo, l’humus nel quale coltivare l’utilità di questa lingua.
Un quadro d’insieme complesso ed articolato ma decisamente stimolante, dicevo, che apre moltissime possibilità di ricerca teorica e non.
Ho cercato, in particolare, di evidenziare i collegamenti tra le varie materie e la condizione sociale della Sordità. Ho cercato, anche, di evidenziare come le lingue dei segni siano effettivamente vive e come possano essere utili per il trattamento delle comunicopatie, mostrando che si evolvono come si evolvono le lingue parlate.
Ovviamente, in questo caso, non v’era altro scopo di questo modesto lavoro se non quello di sollecitare l’attenzione verso un nuovo modo di vedere le cose. Dare un contributo alla comprensione della necessità di abbandonare completamente l’ottica assistenziale di stampo medicale, che tendeva e tende a vedere la persona disabile come destinataria di interventi beneficali, per accogliere, invece, quella bio-psico-sociale che guarda a questi soggetti come portatori di potenzialità e tende a far sì che queste potenzialità vengano aumentate. Non concedere
a queste persone la possibilità di scegliere ma riconoscere, invece, il loro pieno diritto a scegliere, a partecipare volontariamente al percorso di potenziamento delle proprie capacità, condividendolo nei limiti del possibile.
Questo significherebbe, in particolare, per la Sordità ed il cosiddetto Mondo Sordo, garantirsi da una colonizzazione
sfrenata da parte dei cosiddetti normali
. Questo è uno dei temi di questo lavoro.
Molti altri temi consentiranno a chi legge la possibilità di avere un quadro abbastanza completo di ciò che si è detto e di ciò che si dice intorno alla Sordità.
1 Apprendiamo, mentre scriviamo, di un emendamento al cosiddetto Decreto Ristori che, quando il predetto Decreto verrà approvato, riconoscerà la LIS come vera lingua. Restiamo in attesa.
La relazione ed il bene comune
Il nostro modo di manifestare noi stessi, di esistere, di realizzarci si concretizza attraverso e nella vita di comunità.
Costantemente ci rapportiamo con altri e ci realizziamo, più o meno compiutamente, proprio nel rapporto con essi. Laddove per altri
non intendiamo soltanto altre persone, ma realtà sociali in genere, enti, istituzioni sociali (per usare una terminologia sociologica). Insomma, la nostra vita non è altro che un susseguirsi ed intrecciarsi continuo di relazioni, un susseguirsi del porre in essere o chiudere rapporti i più vari. Queste relazioni incidono in modo sostanziale sul nostro modo di essere ed informano profondamente il nostro carattere ed i conseguenziali comportamenti, fin nel profondo. Da subito, quando nasciamo, infatti, ci relazioniamo con i nostri genitori, la nostra famiglia, e questi contatti saranno determinanti per la nostra formazione.
Fin dai primi giorni di vita, in modo naturale, per imitazione, iniziamo a fare nostri comportamenti di chi ci circonda esplorando il mondo immediatamente attorno a noi. Le relazioni, per altro verso, con l’andar del tempo stimolano le nostre capacità personali e ci danno la possibilità di divenire individui relazionali nel senso più pieno del termine; ci consentono di imprimere, dove più dove meno, un nostro marchio di riconoscimento, se così si può dire, sulle modalità e sui contenuti di questo rapporto. Intendo dire che, partendo dall’imitazione di comportamenti altrui, man mano che cresciamo, procediamo col tentare di acquisire maggiore autonomia relazionale, iniziando da quei comportamenti che per primi abbiamo imitato, per tentare di attuare relazioni basate su canoni tendenzialmente più o meno diversi da quelli imitati.
Non intendo qui provare ad analizzare quelle relazioni che vengono intese come elemento fondamentale della sociologia e, cioè, quelle che intervengono tra gruppi o classi sociali². Non mi interessano le relazioni politiche
che si hanno tra formazioni sociali, mi interessano quelle che partono dall’individuo e tornano all’individuo; anche quando avvengono tra l’individuo ed istituzioni sociali. Il mio interesse è volto ad individuare la funzione della relazione come elemento di sviluppo individuale, tenendo presente che non sempre lo sviluppo di qualcosa corrisponde ad un miglioramento. Ciò soprattutto se le relazioni affrontate da un individuo lo condizionano al punto da esserne soverchiato, come vedremo poi. Intendo occuparmene semplicemente come modo di essere comunque essenziale di ciascun individuo.
Le relazioni sociali sono il metodo, lo strumento naturale per l’inclusione sociale di ciascun individuo e, come dice Donati,
"occorre saper osservare le relazioni sociali e vederle come quelle entità che conferiscono una massa – cioè qualità e poteri propri – a quegli atomi sociali che sono gli individui umani. Nell’incontro/scontro fra gli individui, e più in generale nel loro comunicare reciproco, emerge una realtà che seppure essi non la vedano o non la pensino, li abilita oppure li contrasta nelle lor capacità di vita. La società relazionale è dunque quella che produciamo nonostante noi stessi, non senza le nostre intenzioni, ma al di là delle nostre intenzioni
³.
Abbiamo detto che le relazioni che intrecciamo per prime sono quelle che viviamo dalla nascita e che avvengono in famiglia. Sono relazioni interpersonali sicuramente condizionanti perché il bimbo dipende completamente dai suoi familiari, e non dobbiamo dimenticare che la famiglia, quale insieme di persone, già assume lo status di Istituzione. Una istituzione tanto prossima a noi che non può non essere, dicevamo, fortemente condizionante.
Poi, man mano che un individuo cresce ed incontra e sperimenta il rapporto con un nuovo gruppo di riferimento sociale, oppure una struttura o un’Istituzione dello Stato, ci si avvede che le modalità relazionali, il modo di essere e di manifestarsi consuetudinariamente di quell’individuo, e che lui utilizza quando si rapporta con altri individui, vengono man mano abbandonati e cambiano, strutturandosi sempre più rigidamente, burocratizzandosi man mano che si sale di livello. Fino ad ingessarsi in una serie di comportamenti prefissati (codificati da norme, regolamenti, circolari). Comportamenti che le Istituzioni richiedono all’individuo e che l’individuo si aspetta perché, appunto, sono uno standard; comportamenti che egli però subisce senza avere la possibilità di mutarne le basi o i contenuti, ancora oggi e nonostante sia stato introdotto, nella nostra Costituzione, il principio di sussidiarietà circolare⁴ che è frutto delle battaglie del mondo del No profit, delle Associazioni del Terzo Settore, tutte tese a dare forza al principio di partecipazione ed all’affermazione del diritto di cittadinanza.
In realtà, dal mio punto di vista, questo rapporto basato su comportamenti prefissati non è più un vero rapporto relazionale ma una sorta di metodo standard
che arriva fino alla massima codificazione giuridica con il brocardo La legge è uguale per tutti
. Locuzione che oggi suscita in me molti dubbi, al di là dell’ugualitarismo formale che sancisce, circa la sua oggettiva verità e le sue possibilità di applicazione concreta. Questa formula giuridica è un’affermazione di principio che, pur contribuendo a formare un quadro sociale ugualitario, dimentica, o non considera, il fatto che ciascun individuo è diverso dall’altro e che, soprattutto, non tutti possediamo fin dalla nascita, per condizioni personali o sociali, le stesse capacità d’accesso.
Per le finalità che mi propongo, questo punto d’osservazione, che parte dalle risorse che ciascuno di noi possiede fin dalla nascita, è fondamentale. Dovendo trattare di comunicazione non verbale, di LIS e di sordità, non è peregrino comprendere a fondo le questioni che riguardano il riconoscimento dei diritti civili e sociali di chi parte svantaggiato dalla nascita e di quali concrete capacità d’accesso o chance di vita egli abbia, o meglio, gli vengano accordate dalla società.
Amartya Sen spiega così le capacità di accesso⁵:
"La libertà di condurre diversi tipi di vita si riflette nell’insieme delle combinazioni alternative di functionings⁶ tra le quali una persona può scegliere; questa può venire definita la «capacità» di una persona. La capacità di una persona dipende da una varietà di fattori, incluse le caratteristiche personali e gli assetti sociali. Un impegno sociale per la libertà dell’individuo deve implicare che si attribuisca importanza all’obiettivo di aumentare la capacità che diverse persone posseggono effettivamente, e la scelta tra diversi assetti sociali deve venire influenzata dalla loro attitudine a promuovere le capacità umane. Una piena considerazione della libertà individuale deve andare al di là delle capacità riferite alla vita privata, e deve prestare attenzione ad altri obiettivi della persona, quali certi