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Suonerò la tua morte. Il macellaio completerà il suo concerto scritto col sangue?
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Suonerò la tua morte. Il macellaio completerà il suo concerto scritto col sangue?
E-book250 pagine3 ore

Suonerò la tua morte. Il macellaio completerà il suo concerto scritto col sangue?

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Info su questo ebook

La città di Saluzzo e l’imminente Rivoluzione Francese fanno da sfondo a una vicenda dalle tinte forti, decisamente coinvolgente e ricca di suspense. Nel borgo medievale dell’antica capitale del Marchesato, tra gli stretti vicoli e le stradine acciottolate che salgono alla Castiglia, si consumano una serie di efferati omicidi. Implacabile nel colpire le sue vittime, sempre giovani donne, un killer inimmaginabile, soprannominato con ruvida schiettezza popolare il “macellaio”, si apposta, tende i suoi agguati e porta a termine i suoi misfatti.

Il titolo del romanzo induce a una stupefacente motivazione. Dopo aver compiuto il suo primo tragico quanto casuale delitto, l'autore trova l'ispirazione per realizzare uno dei suoi ambiziosi sogni: comporre una perfetta melodia per violino, strumento musicale che ben si addice per intensità e drammaticità sia all'epoca sia alle immagini che sgorgano intense dalle pagine del libro. Prende così il via un perverso meccanismo omicida che gli consentirà di alimentare la tanto agognata creatività.

La sua seconda passione, invece, è più materiale e s’incarna nella disinibita e sensuale Maddalena, inarrivabile e inavvicinabile fino a quando il destino non gli concederà la fugace opportunità di appagare anche quel recondito desiderio.

La vita della tranquilla cittadina piemontese è sconvolta dagli avvenimenti e le frettolose indagini, svolte da un indolente quanto inadeguato funzionario di polizia, indirizzano l’insopportabile fardello della colpa verso un giovane da poco giunto in città, il cui arresto farà sentire al sicuro il vero autore dei crimini.

Il tessuto narrativo si dipana nell’arco di poche settimane e alterna situazioni, dialoghi e riflessioni con una cadenza ritmica di gran pregio mentre un linguaggio esplicito che narra di passioni, vendette e brucianti gelosie accompagna agevolmente il lettore fino alle ultime righe del racconto, dove con un intenso e decisivo coup de théâtre il "macellaio" rivelerà la sua terribile verità.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2015
ISBN9788895628417
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    Suonerò la tua morte. Il macellaio completerà il suo concerto scritto col sangue? - Gianluca Soletti

    misericordia

    CAPITOLO I

    Saluzzo, venerdì 24 ottobre 1789

    Ore 17,10

    «Maledizione, alla fine è riuscito a farmela, quel frate dannato!»

    Francesco Maria Nepote, nobile di antica famiglia e insigne notaio in Saluzzo, era furioso... «Quel piccolo uomo insignificante » – rimuginava fra sé e sé – «con quell’aria dimessa e servile... è più astuto di quanto pensassi, che sia dannato! E io con lui, stupido che non sono altro, a farmi irretire dalla sue chiacchiere da prete... Lo sapevo – dovevo saperlo – che tanto sarebbe arrivato lì... soldi, soldi, che altro se non quelli? Oh certo, per la gloria di Dio e per la devozione al Santo, naturalmente... per il prestigio della mia nobile famiglia e per la salvezza della mia anima mortale... La mia anima mortale... ma di che s’impiccia quel ficcanaso? Cosa accidenti gliene importa, a lui, della mia schifosissima anima?»

    Più ci pensava e più sentiva una rabbia sorda crescergli dentro, perché alla fine, anche se nulla gli avrebbe fatto più piacere che prenderlo a calci, quel fraticello con la barbetta grigiastra e i denti gialli, si era arreso ai suoi piagnistei e alle sue richieste.

    Era appena uscito dal convento di S. Bernardino, dove il rettore – il francescano padre Chiaffredo – aveva tanto insistito per vederlo. I robusti e costosi restauri compiuti nella navata principale appena trent’anni prima, che avevano comportato la sostituzione del cadente soffitto ligneo e la sopraelevazione delle pareti laterali e della facciata, necessitavano già, secondo le lamentose parole del frate, di nuovi interventi. Allora, la generosa devozione di suo padre, Augusto Nepote, pace all’anima sua, era stata di grande aiuto e sollievo per l’ordine Francescano. Naturale quindi pensare che il figlio non potesse essere da meno... "Talis pater, talis filius" – così aveva ammiccato, con quel suo sorriso sornione, lo scaltro rettore...

    Già, suo padre... che ne sapeva veramente quel cicisbeo di frate di suo padre? Per lui, semplicemente, era un benefattore dell’ordine. Più che sufficiente per guadagnarsi qualche preghiera e una bella messa cantata in suffragio.

    Nobile di sangue e di aspetto, Augusto Nepote era stato un uomo davvero imponente ed ammirato... Voce chiara, lineamenti vigorosi, decisi eppure aggraziati, sapeva incantare uomini e donne con quei suoi occhi d’un azzurro tormentato come mare in tempesta... Soprattutto le donne, in verità.

    Ma lui, Francesco Maria, lui chi era? Cosa gli rimaneva della sfacciata ed arrogante sicurezza del padre? E dov’erano finiti quei bei lineamenti che tante mani femminili avevano accarezzato con così avida voluttà? Dispersi, infranti l’attimo stesso della sua nascita, mentre la madre, esausta per il lungo e doloroso travaglio, spirava tra le braccia dei domestici e dell’unica sorella (il marito, lui non c’era... era a sfogare la snervante attesa per la nascita del primogenito tra le cosce di qualche generosa prostituta) e mentre le mani grassocce e sporche della levatrice estraevano grossolanamente dall’utero della donna un mostriciattolo brutto e rosso come la vergogna.

    I cupi pensieri di Francesco Maria s’intonavano bene al cielo di quel tardo pomeriggio di fine ottobre – i pochi colori che la foschia non aveva ancora inghiottito si disperdevano nel vago chiarore della prima sera. Si strinse nel lungo mantello nero di velluto di Fiandra, il freddo cominciava a farsi sentire.

    Seduto a rimuginare sul parapetto che costeggiava la chiesa, non si era accorto del tempo che passava. «Ecco, come se non bastasse ho fatto pure tardi» si disse, mentre s’incamminava con passo pesante lungo la strada che portava in città. Il tratto di campagna da percorrere era breve – sullo sfondo la sagoma scura della Castiglia emergeva tra le tremolanti luci delle lampade accese dai soldati di guardia, ma in quel momento, un po’ per la stanchezza un po’ per il pessimo umore, gli sembrava una sorta di marcia forzata.

    Per strada non c’era più nessuno. Contadini e artigiani erano rientrati per tempo al focolare delle loro case – mica stupidi loro. I rami degli alberi da frutto che costeggiavano la via, meli e ciliegi per lo più, sembravano artigli pronti a ghermire l’incauta preda che si fosse lasciata sorprendere; a questo pensiero, una specie di sorriso attraversò il suo volto severo e contratto – tre artigli rossi in campo d’argento erano infatti lo stemma della sua famiglia. «Non c’è che dire, proprio lo stemma giusto per me» borbottava a mezza voce, tanto per scuotere la fitta trama di silenzio che lo circondava. E in effetti, alto e grosso – superava il metro e ottantacinque e pesava più di novanta chili – con quella sorta di gobba che s’incurvava sopra la spalla sinistra, aveva davvero un qualcosa di diabolico. Il volto poi, scavato ed inasprito dalla solitudine e dai mille rancori e risentimenti che incessantemente scuotevano la sua anima, non era certo di quelli che suscitano simpatia a prima vista, spigoloso e ossuto com’era. Gli occhi, nerissimi (ereditati dalla madre, severa e nobile figlia del Chiablese), erano profondi, duri e intelligenti. Al suo sguardo penetrante non sfuggiva nulla. A completare la sensazione per nulla attraente della sua persona, c’era la parrucca – o almeno, ciò che ne rimaneva... Più grigia che bianca, era da tempo che non incontrava i denti di un pettine, né la vaporosa carezza della cipria...

    * * *

    Virginia era tremendamente in ritardo, avrebbe dovuto rientrare ormai da più di un’ora. Procedeva con passo affrettato, quasi correndo, più per istinto che per una razionale necessità, tanto ormai il danno era fatto. Suo padre, poco ma sicuro, le avrebbe fatto una lavata di capo delle sue e quasi sicuramente l’avrebbe messa anche in punizione... non che le importasse molto, comunque. Ne era valsa la pena – si disse – ripensando al dolce sorriso e alla braccia muscolose del suo Antonio, il bel garzone del fornaio.

    Stordita dall’inebriante tumulto di quelle emozioni, non si rese neppure conto che il sentierino che stava percorrendo, abbozzato tra le erbe selvatiche e gli alberi da frutto, stava per immettersi nella strada di S. Bernardino. Sbucò fuori di corsa, trafelata e sovrappensiero e senza accorgersene finì addosso al pensieroso notaio.

    Francesco Maria Nepote, strappato così bruscamente al suo corrosivo rimuginare, quasi cadde. Stizzito, alzò subito la testa da terra.

    Virginia era giovane, molto giovane, bella di quella bellezza un po’ grossolana ma florida e piena di salute propria della gente di campagna. I suo grandi occhi grigio azzurri erano specchi di innocente e beata semplicità.

    Anche Virginia, recuperato a stento l’equilibrio, fu costretta ad interrompere le sue fantasticherie di innamorata. E, girando la testa, mosse il suo sguardo fino a sfiorare il viso di Francesco Maria. I suoi occhi furono subito attraversati da un lampo di paura mista a disagio – un ritorno alla realtà brusco ed doloroso come un violento schiaffo. Fu solo un istante, ma non sfuggì al permaloso e collerico notaio...

    «E allora, ragazza, cos’hai? Hai forse visto una masca¹? O una qualche specie di mostro?» proruppe con voce fredda e metallica.

    « No... Scusatemi Eccellenza... Io...»

    «Eccellenza? Perché? Forse che mi conosci? Su, dimmi... perché io, di te, non so nulla... non ancora» replicò abbozzando un sorriso non troppo rassicurante.

    La ragazza, impaurita, balbettò una risposta. «Sì, certo... Voi siete una persona importante, il notaio del Re, lo sanno tutti in città... Ecco, io vi ho visto, qualche volta, durante la messa in Duomo...»

    «Alla messa in Duomo? Ma certo, una così brava ragazza timorata di Dio dove altro avrebbe mai potuto vedermi?...» disse sarcastico.

    «Grazie, sì, grazie... Chiedo ancora umilmente perdono... Se non vi arreca troppo disturbo io... io dovrei rientrare... a casa mi aspettano». La povera fanciulla sembrava sempre più a disagio e, priva di malizie com’era, non faceva nulla per nasconderlo.

    «E tu lascia che aspettino, per Dio! Cosa saranno mai pochi minuti in più? O forse, la mia compagnia è troppo poco per te, forse che la mia nobile figura offende i tuoi occhi delicati e sensibili?»

    Ora, la sua voce era poco più che un sibilo... la ragazza fu percorsa da un brivido.

    «Vostra Eccellenza, mi confondente... io, io non so cosa volete che vi risponda... sono solo una povera contadina, mi chiamo Virginia, la figlia maggiore di Giovanni Fausone, abbiamo cascina e stalla proprio qui, dietro quella collinetta» farfugliò Virginia, mentre con gli occhi frugava la macchia di bosco nella folle speranza che potesse aprirsi e rivelare la rassicurante sagoma della casa.

    «E allora lascialo stare dov’è, il tuo tugurio di paglia e letame...»

    Più la fissava negli occhi, più vedeva e sentiva la paura fremere in quel giovane corpo; il respiro, rapido e nervoso, le sollevava i grossi e morbidi seni... Sentì che una strana eccitazione si stava impadronendo di lui, un qualcosa di animalesco e primitivo; il cuore pulsava forte, i sensi erano all’erta e tesi...

    La fissò intensamente. Come se guardasse in uno specchio, vedeva la sua bruttezza, le sue deformità incise nello sguardo di Virginia. Vedeva fin troppo chiaramente quello che gli altri – le donne soprattutto – vedevano in lui... Non un ricco e potente notabile, non un signore di antico lignaggio. No, loro, tutte le Virginie che incrociavano la sua strada, vedevano, semplicemente, un uomo brutto e detestabile. Nessuno sguardo di donna si sarebbe mai addolcito al suo passaggio... Era troppo!

    Sentì salire qualcosa di terribile dal più profondo della sua anima.

    Di scatto, le afferrò un braccio.

    «E così ti faccio ribrezzo, vero, piccola sgualdrinella da cortile?»

    «Eccellenza! Mi fate male... lasciatemi... Che cosa volete da me? Lasciatemi tornare a casa, dalla mia famiglia...»

    «Ti ho fatto una domanda... Rispondi! Per Dio, ti faccio dunque così orrore?» – la stretta era sempre più forte.

    Virginia, terrorizzata, cerco di liberarsi dalla presa, ma l’uomo era nettamente più forte di lei. Alcune lacrime le scivolarono sulle guance arrossate, mentre continuava a implorarlo di lasciarla stare. L’unica cosa che ottenne, però, fu di farlo imbestialire ancora di più.

    «Smettila di agitarti, dannazione! Cosa vuoi? Vuoi una manciata di lire per la tua compagnia? Sì, certo... tanto è quello che volete tutte, no?»

    «Non voglio niente, niente! Voglio solo tornare a casa mia, dalla mia famiglia!» piagnucolò. «Vi prego, mi fate paura... tanta paura! Siete un uomo orribile...»

    Forse Virginia non era delle più sveglie, eppure si rese subito conto che non aveva scelto le parole più opportune... Aveva commesso un’imprudenza, un’imprudenza che rischiava di pagare carissima.

    Gli occhi di Francesco Maria si serrarono, duri e sottili come una lama. Le narici fremettero. Con uno scatto improvviso scaraventò a terra la ragazza, che urlò per la botta subita alla schiena.

    «Stai zitta, stupida!»

    Virginia, ormai non lo sentiva più... Piangeva e urlava – il viso stravolto dal terrore crescente.

    Quel poco di equilibrio che a stento si manteneva in Francesco Maria, crollò. Quel filo esile, corroso da anni di rancori repressi e desideri inappagati, finalmente cedette. Come in trance, guardava le sue robuste mani stringersi intorno al collo di Virginia. I suoi urli si erano ridotti a esili rantolii e, ormai, stavano per cessare del tutto. Gli occhi sbarrati della ragazza rivelavano che la sua forza vitale la stava abbandonando.

    «Zitta, devi stare zitta, sciocca che non sei altro!» ripeteva ossessivamente il notaio. Con un ultimo sforzo serrò in una morsa fatale il livido collo della ragazza.

    Virginia, il prossimo 23 novembre avrebbe compiuto 17 anni, giaceva morta – gli occhi spenti spalancati sul nulla.

    In preda ad un vero e proprio attacco di follia, Francesco Maria ansimava, lasciandosi andare ad improvvisi spasmi e risolini isterici.

    «Eccoti accontentata, adesso non ti faccio più paura, vero? O provi ancora orrore e disgusto? Rispondi... Dai, rispondi!» grugniva con macabra ironia.

    Le ultime ombre scomparivano nel buio della sera, mentre una foschia pungente saliva dal terreno umido fino a fondersi con l’oscurità del cielo.

    Come un invasato, posseduto da una rabbia violenta che faceva tremare il suo grosso e deforme corpo, sferrò una serie di tremendi calci al corpo ed alla testa della povera Virginia. Prima uno, poi un’altro e un altro ancora....

    Ricoperto di lividi violacei, completamente tumefatto ed irriconoscibile, il bel volto della ragazza era ridotto ad una maschera grottesca, spaventosa a guardarsi. Dal cranio correvano via rivoli di sangue scuro e spesso.

    Il vicino campanile di S. Bernardino batteva le 18.00; la coltre della notte, mossa a pietà, avvolse i poveri resti della bella e sfortunata Virginia.

    1 In dialetto piemontese: strega, essere soprannaturale.

    CAPITOLO II

    Torino, sabato 24 maggio 1760

    Sua Maestà il re e la sua numerosa famiglia fecero il loro ingresso nella cappella. Carlo Emanuele III accolse la sfilata di inchini e di ossequi che la folla gli tributò con infastidita accondiscendenza. La retorica di palazzo richiedeva impegno ed applicazione.

    Francesco Maria, fresco dei suoi sedici anni, aveva ben altro per la testa, però. Anche lui, naturalmente, fece il suo bell’inchino, cercando di imitare il più fedelmente possibile i gesti sicuri e disinvolti del padre. Ma i suoi pensieri – ogni brandello di quella sua sensibile anima che incessantemente lottava contro l’invadenza di un corpo sbagliato – erano rivolti al concerto che, finalmente, sarebbe cominciato di lì a pochi minuti.

    Quasi, non riusciva a crederci. Non ancora. Non gli sembrava vero che il padre, abitualmente alieno ad ogni gesto d’affetto verso di lui, avesse deciso di portarlo con sé – «consideralo un insperato regalo di compleanno» gli aveva detto con quella sua aria vagamente distratta e canzonatoria che tanto piaceva al gentil sesso.

    Quel sabato mattina il signor Gaetano Pugnani, primo violino della Cappella Reale, avrebbe tenuto uno dei suoi celebri ed ammirati concerti a solo.

    Traboccante di gratitudine, si girò con occhi luccicanti verso il padre; com’era bello ed imponente nella sua camicia di seta intonata alla marsina a due code color tortora! Aveva un’aria così dignitosa e solenne che – allo sguardo del ragazzo – appariva più maestoso dello stesso re.

    Era troppo felice perché qualcosa potesse turbare la magia di quel momento; neppure il fatto che il padre fosse preso da ben altre e più prosaiche faccende lo disturbò più di tanto. Augusto Nepote infatti, poco o nulla toccato da quella dimostrazione d’affetto filiale, con la stessa meticolosità di un naturalista alle prese con insetti e farfalle esaminava, esplorava e catalogava ogni decoltè su cui i suoi avidi occhi riuscissero a posarsi. E a giudicare dalla sua concentrazione, sembrava un lavoro piuttosto appassionante quanto impegnativo...

    Ignorava, Francesco Maria, quanto poco spontanea fosse stata la decisione del padre di portarlo con sé.

    Tombeur de femmes tra i più apprezzati dal bel mondo femminile torinese, considerava quasi un’offesa fattagli da Dio stesso quel figlio così poco gradevole a vedersi. Certo, era intelligente e dotato, molto più di tanti suoi coetanei, a dire il vero; ma era brutto, irrimediabilmente brutto. C’era troppo naso sulla sua faccia, e le mani erano troppo tozze per essere mani di nobile. C’erano troppo torace e troppo poche gambe... per non parlare della vistosa e imbarazzante gobba che premeva sul lato sinistro della schiena... Insomma, come poteva davvero essere suo figlio, quella sventurata creatura?

    Era stata l’energica zia – la sorella maggiore della defunta madre – che, lavorando dietro le quinte, si era fatta interprete dei desideri del ragazzo. Nonostante la sua nascita avesse significato la fine della sorella (o forse, chissà, proprio perché Francesco Maria era tutto ciò che rimaneva di lei), era molto legata al nipote. Nubile, discendente da un’antica famiglia di rocciosi uomini d’arme, fiaccata ma non sconfitta dalla malattia che le faceva gemere muscoli ed ossa e la costringeva ad una parziale immobilità, aveva ereditato dai combattivi antenati carattere, fermezza e – se necessario – animus pugnandi a volontà.

    Tra lei ed Augusto Nepote non correva buon sangue. Nonostante fossero passati così tanti anni, il ricordo della sorella agonizzante, schiantata dal parto senza neppure l’estrema consolazione della presenza del marito, le bruciava ancora il cuore. Non avrebbe mai perdonato quell’uomo ed i suoi non meglio precisati affari importanti (anche se aveva fin troppo chiaro di che tipo di affari si trattasse)... In un primo tempo, almeno, aveva sperato che la sua volontà di non risposarsi fosse una forma, sia pure tardiva, di pentimento e di redenzione; non le ci volle molto perché si rendesse conto che, semplicemente, la vedovanza era congeniale per le sue febbrili scorribande ed avventure galanti.

    Questa sorta di rancore che mai abbandonava del tutto la donna, era esasperato dalla forzata quanto indesiderata convivenza. Infatti, da quasi sei anni Augusto Nepote, insieme al figlio, aveva lasciato la natia Saluzzo per trasferirsi nella capitale, prendendo definitivo possesso dell’eredità della defunta moglie, ovvero dell’intero secondo piano (a quello superiore abitava la zia) di un elegante palazzo seicentesco in via dell’Arsenale. Naturale, pensava lei, Torino offre ben altre occasioni della sonnolenta Saluzzo...

    Insomma, era stato solo grazie al tempestivo intervento della zia se Francesco Maria si trovava seduto subito dietro le prime file di panche nella Cappella Reale. La posizione che occupavano dimostrava che suo padre era un uomo piuttosto influente a corte. Anche la zia però – come aveva ricordato al cognato pochi giorni prima, durante un breve e molto poco cordiale faccia a faccia – aveva amicizie e parentele importanti... Evidentemente, Augusto Nepote le aveva ritenute più solide delle sue...

    * * *

    Gaetano Pugnani entrò nella Cappella accolto dal misurato applauso del re, subito imitato da tutti i presenti. Con passo sicuro, andò a sistemarsi proprio davanti al magnifico altare barocco. Alle sue spalle, le gocce di luce che precipitavano dal traforo a stella della svettante cupola conica, danzavano sulla teca d’argento e vetro che custodiva la santa Sindone. Quell’uomo, solo e aggrappato al suo violino, sembrava quasi turbare, con la sua semplice presenza, la rarefatta alchimia tra arte e sacralità che permeava l’ambiente.

    Nell’insieme, la sua figura non era particolarmente bella; inoltre, visto di profilo, dal suo volto sporgeva uno straordinario e poco estetico naso a becco... Le mani però, quelle mani affusolate e lunghe che avvolgevano delicatamente il manico del violino, erano fatte apposta per la musica, per esplorare e percorrere ogni millimetro della tastiera in legno d’acero; per pizzicare, accarezzare, blandire le corde in budello di pecora fino a sottometterle ad ogni suo più recondito desiderio, fino a farle vibrare

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