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Florentine. La pupilla del Magnifico
Florentine. La pupilla del Magnifico
Florentine. La pupilla del Magnifico
E-book427 pagine6 ore

Florentine. La pupilla del Magnifico

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Info su questo ebook

Signoria di Firenze, 1474. Lo chiamano già “il Magnifico”. Splendido mecenate, Lorenzo de’Medici che accoglie nelle sue dimore il fior fiore dell’arte e della letteratura, è l’unica voce di equilibrio politico nell'Italia del suo tempo. Fama che scatena l’invidia della nobile famiglia fiorentina di Jacopo Pazzi mentre Papa Sisto IV e suo nipote Riario, Ferrante d’Aragona e Federico d’Urbino lo temono e lo odiano.

In un clima di feste ed intrighi arriva a Firenze Vanna de’Bardi, giovane orfana alla quale Lorenzo dona un titolo nobiliare e la sua protezione. Dama di compagnia di Simonetta Cattaneo Vespucci, diventa depositaria del segreto d’amore tra la donna più bella della Signoria e Giuliano de’Medici e destinataria di un diamante dal valore inestimabile appartenuto al Duca di Borgogna. La sua vita verrà così turbata dalle mire di Matteo, affascinante e violento nipote di Clarice Orsini e dalle pene d’amore per il bel cavaliere d’Asburgo, Guido Montefiori. Le gesta di un’infinita serie di personaggi escono dalle pagine dei libri di storia per intrecciarsi con la vicenda di Vanna de’Bardi, che è quella dei giorni più oscuri di Lorenzo e della Congiura dei Pazzi.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2019
ISBN9788827868317
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    Anteprima del libro

    Florentine. La pupilla del Magnifico - Marina Colacchi Simone

    Indice

    Title Page

    Colophon

    Dedica

    Dedica 2

    Disc

    NANCY 5 GENNAIO 1477

    CAPITOLO PRIMO

    CAPITOLO SECONDO

    CAPITOLO III

    CAPITOLO IV

    CAPITOLO V

    CAPITOLO VI

    CAPITOLO VII

    CAPITOLO VIII

    CAPITOLO IX

    CAPITOLO X

    CAPITOLO XI

    CAPITOLO XII

    CAPITOLO XIII

    CAPITOLO XIV

    CAPITOLO XV

    CAPITOLO XVI

    CAPITOLO XVII

    CAPITOLO XVIII

    CAPITOLO XIX

    CAPITOLO XX

    CAPITOLO XXI

    CAPITOLO XXII

    CAPITOLO XXIII

    CAPITOLO XXIV

    CAPITOLO XXV

    CAPITOLO XXVI

    CAPITOLO XXVII

    CAPITOLO XXVIII

    CAPITOLO XXIX

    CAPITOLO XXX

    CAPITOLO XXXI

    EPILOGO

    E IL VERO DIAMANTE FLORENTIN ?...

    LA STORIA DEL FIORENTINO

    BIBLIOGRAFIA:

    RINGRAZIAMENTI :

    Marina Colacchi Simone

    FLORENTINE

    LA PUPILLA DEL MAGNIFICO

    Youcanprint SelfPublishing

    Titolo | FLORENTINE LA PUPILLA DEL MAGNIFICO

    Autore | Marina Colacchi Simone

    ISBN | 9788827868317

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il

    preventivo assenso dell’Autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Candida è ella, e candida la vesta,

    ma pur di rose e fior dipinta e d’erba ;

    lo inanellato crin dall’aurea testa

    scende in la fronte umilmente superba.

    Rideli a torno tutta la foresta,

    e quanto può sue cure disacerba.

    Nell’atto regalmente è mansueta

    e pur col ciglio le tempeste acqueta.

    Poliziano "Iulo e Simonetta" (Stanze, I, 37-55)

    Per Elba e Olga che hanno sempre creduto in me

    Nella stesura di questo romanzo, che nella prima traccia risale alla mia gioventù, mi sono imposta un lavoro minuzioso nella ricostruzione storica, per quanto possibile con i documenti che ci sono arrivati dal passato. Ho cercato nello stesso tempo di stabilire una relazione profonda tra i personaggi scaturiti dalla mia fantasia e quelli che vissero realmente nella nostra penisola, quasi sei secoli fa.

    NANCY 5 GENNAIO 1477

    Carlo di Borgogna guardava la valle che si stendeva sotto i suoi piedi dal leggero pendio di Jarville-la-Malgrange attorno a Nancy. Nevicava copiosamente. Centinaia di suoi uomini erano morti assiderati la vigilia di Natale, qualche giorno prima. Si assestò il mantello foderato di pelliccia ancora di più attorno alle spalle ma non aveva freddo, oramai. Aveva esattamente 44 anni, molti dei quali passati sui campi di battaglia a difendere il ducato o a tentare di allargarne i confini.

    Tutto era finito. Nancy era caduta sotto i colpi di Renato II di Lorena, il ribelle, e dei suoi mercenari svizzeri. Ora aspettava l’ultimo assalto del Gewalthut, il principale corpo nemico fatto di migliaia di picchieri e alabardieri della Confederazione, una forza contro la quale poco avrebbero potuto fare le truppe che gli rimanevano. Ancor più perché quelli venivano risoluti a riscattare la morte dei 412 uomini della guarnigione svizzera che aveva fatto impiccare esattamente un anno prima nel suo campo di Grandson.

    Guardò verso la valle e inspirò con forza. Le punte di quattromila picche si agitavano nell’aria gelida mandando lievi bagliori inquietanti. Si girò alla sua destra e incontrò lo sguardo di Francesco de’Bardi. Avevano tolto elmi e corazza e coprivano il capo con il cappuccio del manto bordato di pelliccia. Indossavano spessi guanti di pelle . I loro cavalli, bardati pesantemente con i colori di Borgogna, rosso, giallo e due leoni tra un fiorire di gigli d’oro dei Valois, sbuffavano scalpitando sulla neve mentre dalle loro narici si levavano leggere volute di fiato caldo. Ma mantenevano un aspetto fiero quasi che capissero il fatale momento.

    De’ Bardi, fiorentino, era al soldo del Temerario ma soprattutto era il suo confidente più apprezzato e un amico vero.

    Carlo slego’ dalla cintura una scarsella di pelle di daino con le sue cifre impresse a fuoco e la porse all’uomo che lo guardò stupito.

    - Non potrò più pagarvi. – gli disse con voce ferma guardando di nuovo l’orizzonte - Prendete questo. Per il futuro della vostra famiglia e per la vostra vecchiaia. E andatevene. Cola di Monforte ci ha lasciato. Per la seconda volta……- proseguì tristemente pensando al condottiero, conosciuto da tutti come il conte di Campobasso, che gli era stato fedele per anni ma che alla fine vistosi inascoltato era passato alle truppe nemiche con 180 cavalieri - … seguitelo in ogni caso e avrete salva la vita-

    -Non posso lasciarvi – ribattè deciso l’uomo –Saremo insieme fino all’ultimo.

    -No. Approfittate di questo momento di tregua. Il capo delle mie guardie sta incanalando il suo seguito nell’unico corridoio non controllato. Monforte non lo ucciderà e lui potrà aiutare mia figlia Maria a mantenere la sua dote e fare un matrimonio vantaggioso. Anche voi avete due figli ed una moglie che non vi vedono da molti anni… andate Francesco.

    De Bardi ragiono’su quelle parole. Era vero. Non vedeva la sua famiglia da troppo tempo.

    Nel 1466 durante l’attentato ordito da Luca Pitti contro Piero’ de Medici sulla strada per Careggi, aveva fatto scudo con il suo corpo al figlio di questi, il sedicenne Lorenzo, riportando una grave ferita. Dopo la guarigione era tornato alla sua vita di sempre, quella che amava, al soldo di un nobile del quale doveva difendere possedimenti o titoli da un usurpatore. Era partito verso la Borgogna e vi era restato più di dieci anni diventando da soldato a cavaliere più amato della corte del Duca. Ogni tanto mandava un dispaccio a casa con dei danari ma non sapeva mai se questi erano arrivati a destinazione .

    La sua mano si allungò timorosa verso quella scarsella e l’afferrò. Un cenno con la testa e due dita alla fronte in segno di saluto. Poi tirò le briglie del suo imponente percheron nero, un leggero colpo di speroni e scese il crinale.

    Olivier de la Marche, fino ad un attimo prima capo delle guardie del duca di Borgogna, lo stava aspettando quasi che avesse capito che ormai nessuno poteva più aiutare il Temerario. Insieme raggiunsero il resto del drappello verso la boscaglia e Carlo nel giro di pochi istanti li perse di vista. Radunò i pochi generali rimasti e le truppe che inalberavano la bandiera del ducato.

    Poi udirono i corni degli svizzeri ululare per tre volte nell’aria gelida e si accorsero di essere già accerchiati. Carlo Martino duca di Borgogna, del casato dei Valois, il Temerario, il Grande Leone, il Terribile come lo avevano chiamato in quell’Europa scossa dai conflitti , morì per mano di un anonimo alabardiere svizzero. Qualche giorno dopo un paggio del duca, Baptiste Colonna, guidò i borgognoni sul luogo in cui era caduto, ai bordi del paludoso stagno di Saint-Jean. Neanche i lupi avevano avuto pietà di lui.

    CAPITOLO PRIMO

    DICEMBRE 1474 tre anni prima ……

    La lettera dello zio Duccio l’aveva trovata impreparata ed ora mentre un carretto la stava portando a Firenze, Vanna de’ Bardi ricordava con tristezza quei sette lunghi anni trascorsi nel monastero agostiniano di Arezzo. Sua madre, prima di consegnare l’anima a Dio, l’aveva voluta affidare alle cure della badessa di Santa Caterina. Ora le sembrava quasi un sogno uscire dalle grigie mura di quel convento per entrare in una nuova vita, allegra e spensierata, come quella che Duccio Salimbeni, il suo benefattore, le aveva garantito sarebbe stata d’ora innanzi.

    -Oooh ferma!- ordinò il carrettiere dando un violento strattone alle redini del suo mulo. - Siamo a Porta Romana madamigella . –

    Tirò via dagli occhi il cappellaccio di feltro e le regalò un sorriso senza denti. Vanna si ridestò dai ricordi, si guardò intorno e lo ringraziò con calore. Non se la sentiva di chiedergli un ulteriore passaggio per il centro città. Era già un miracolo che il vecchio avesse accettato di caricare quell’importante fardello dal convento fino a Firenze. Scese dal carro piena di acciacchi per quelle sette lunghe ore di acciottolato e strade polverose che si snodavano nel Valdarno, interrotte solo da qualche sosta per il cavallo. Non aveva con sé grande bagaglio, una borsa di pelle ereditata dal padre costituiva tutto il suo tesoro. Nel guardaroba non aveva abiti e neppure suppellettili da portare in casa Salimbeni.

    Il misero grembiale che le avevano passato al convento era rimasto appeso al chiodo della piccola cella che divideva con un’altra orfana più disgraziata di lei. Aveva indossato per il viaggio un vecchio abito di sua madre che aveva riadattato. Una lunga gonnella bianca di lanetta che scendeva fino alle caviglie e una gamurra porpora di lana più pesante chiusa alle spalle da qualche laccetto. Un mantello alquanto liso col suo cappuccio l’aveva protetta durante il viaggio. Ma non si doveva preoccupare, l’aveva avvertiva lo zio nella loro corrispondenza , avrebbe provveduto lui al suo abbigliamento. Vanna era lì per diventare una delle dame di compagnia di Simonetta Cattaneo Vespucci. La sua fama di donna più bella della Signoria aveva raggiunto anche Arezzo. Voleva a tutti i costi rilassarsi d’altronde i suoi studi e l’educazione ricevuta dalle suore, le garantivano modi garbati e un minimo di conversazione senza dover sembrare una contadina. Suo padre era pur sempre un de’ Bardi, famiglia nobile un tempo dedita all’attività mercantile e molto nota per il mecenatismo, nella cui discendenza si annoverava anche Contessina, moglie di Cosimo de’Medici e quindi nonna del Signore di Firenze, Lorenzo. Il ramo a cui il padre apparteneva era decaduto lasciandolo senza alcun bene o titolo e lui aveva scelto la carriera di comandante al soldo dei principi del suo tempo. Dall’ultima partenza era scomparso. Erano passati sette lunghi anni. Il carrettiere prima di riprendere il cammino fece un vago gesto con la mano che indicava il centro della città. E lei seguì sorridente il suggerimento. Percorse la Via Romana e arrivò al Lungarno. Seguendo le indicazioni che Salimbeni aveva annotato sulla sua lettera non superò l’Arno al ponte dei beccai fitto di botteghe su cui si aprivano gli usci dei macellai ma proseguì più a monte verso il passaggio successivo che si levava maestoso sul fiume con le sue nove arcate. Non aveva mai visto qualcosa del genere in vita sua. Ad ogni pilone si ergevano delle costruzioni che ospitavano cappelle, botteghe e rifugi di monache. La moltitudine di persone che lo traversava e i clienti che frequentavano le botteghe del Rubaconte sembravano uno sciame di termiti intente ad un lavoro senza fine. Rimase a guardare lo spettacolo per alcuni minuti, la giornata era bella ed il sole scaldava l’aria. Si appoggiò al parapetto e s’inebrio’ di quel tepore.

    Aveva 16 anni Vanna de’Bardi e una bellezza delicata . Capelli castani velati d’oro, occhi verdi e un corpicino abbozzato che già faceva prevedere la bella donna che sarebbe diventata. In più aveva dalla sua il portamento altero ereditato dai de’Bardi. E un carattere risoluto. Soprattutto su quello che sarebbe stato il suo futuro. Decise di muoversi, cominciava ad essere tardi. Proseguì sul lungarno, poi penetrò nella città fino a che la strada non si aprì in piazza Santa Croce, una sorta di grande anfiteatro sovrastato dalla severa e bigia mole in pietraforte della basilica francescana . Un andirivieni convulso di operai e carretti movimentava la scena. Il rumore insistente di centinaia di martelli si disperdeva nell’aria. Sugli spalti che si andavano montando già sventolavano insegne e bandiere. Cavalieri e cavalli, riccamente vestiti gli uni e bardati gli altri, si aggiravano fra il via vai della plebe mentre gli scudieri con le vesti dei colori dell’arma dei loro signori, cominciavano a organizzare quella che sembrava essere una grande festa. Alzò gli occhi ed ebbe un sussulto. Sull’ anfiteatro si affacciavano altane e finestre già addobbate di drappi colorati. Vanna era estasiata. Non c’erano parole per un’emozione così intensa. Strinse a sé la borsa di pelle del padre quasi per trasmettere ad una persona cara i suoi sentimenti. Ma non poteva lasciare la piazza senza sapere cosa stesse succedendo. Prima scelse un capannello di eleganti paggi che parlottavano. Gli abiti erano splendidi. Calzamaglie bicolori, corpetti tessuti d’oro e d’argento, cappelli che esibivano penne variopinte e spilloni preziosi. Capì ben presto che vestita così non avrebbe mai attirato la loro attenzione. Fece qualche passo e vide una popolana in un camicione di lana grezza fasciato da un grembiale che bianco era stato. Era china a riempire la sua brocca ad una fontana. Vanna si fece coraggio. Alla sua richiesta la donna alzò lo sguardo accigliato poi le rughe che si erano formate sulla fronte e agli angoli della bocca si distesero subito e prese a ridere di gusto. -Non siete di queste parti allora figliola mia ! – la sua era un’affermazione – Il 29 gennaio avremo una giostra per festeggiare la Lega che la Signoria ha rinnovato con milanesi e veneziani. Oggi si comincia con le prove ….. – Così dicendo riabbassò la testa sulla brocca, vide che era colma, ne asciugò con cura i bordi e se la issò sulle spalle. Senza aggiungere altro se non un bel sorriso, se ne andò.

    Quindi stavano alzando il podio per il Signore di Firenze e le grandi dame di cui si circondava. Quanto avrebbe voluto esserci…. Rimase ancora un poco ad osservare il frenetico andirivieni di quei costumi variopinti poi sconsolata decise che era ora di andare a casa. Casa, famiglia… Parole che non aveva più pronunciato da tanti anni e che ora le si affollavano nella mente come in un sogno. S’ infilò nei vicoli stretti della città pavesata a festa, a testa bassa per scorrere con attenzione la piccola mappa che le aveva inviato lo zio, attenta a scansare i piccioni che le tagliavano la strada e i fanciulli che giocavano chiassosi da un portone all’altro.

    Fino a che non si trovò al 27 di Via dei Banchieri. Diede un’occhiata al palazzetto, si guardò attorno un attimo in cerca di qualcosa di meno elegante, ricontrollò il numero che era stato vergato sulla lettera dello zio, poi convinta prese coraggio e battè due volte al lucido pomello d’ottone che raffigurava una giovane ninfa nuda fino ai fianchi con le braccia sollevate in alto sulla testa. Nell’attesa che qualcuno aprisse continuò a fissare il batacchio che la incuriosiva. Tutti gli uomini che chiedevano di entrare in quella casa, penso’ con malizia, avrebbero carezzato quelle membra tornite e brillanti come l’oro. Mentre sorrideva dei suoi pensieri il portone si aprì delicatamente e dal buio emerse una donna matura ma non vecchia, imbacuccata in comode vesti bianche, una figura tonda dal viso dolce, roseo, materno, incorniciato da una cuffia morbida. Vanna non avrebbe saputo stabilirne l’età ma doveva essere sicuramente Chiara la fida nutrice che aveva accudito lo zio Duccio sin da bambino.

    -Venite…. - le sussurro’ la donna con un sorriso facendole spazio nell’ingresso e mostrandole con la mano la sala che si apriva davanti a loro - Vi stavo aspettando.-

    -Buongiorno madonna, sono felice di essere arrivata - balbettò timorosa Vanna varcando la soglia e inoltrandosi nella bella casa di Via dei Banchieri .

    -Ero quasi in pensiero, non vi vedevo arrivare. Vostro zio è a Palazzo, tornerà tardi… conviene intanto che vi riposiate. Datemi il bagaglio e seguitemi, vi mostrerò la casa.- Così dicendo, sempre col sorriso sulle labbra, afferrò la sua consunta borsa di pelle e lasciata la grande sala al pianoterra si diresse lesta per i gradini della scala. Malgrado la mole e i panni che la ingoffavano non poco, appariva agli occhi della giovane orfana come una nuvoletta miracolosa, una sorta di grazia di Dio che le era stata concessa dopo tanti anni di patimenti. Seguì il suo angelo custode in silenzio. Il palazzetto era molto curato e pulito segno che lo zio viveva agiatamente e che quindi lei almeno non avrebbe sofferto la fame. Questo era la prima preoccupazione che pensava di sconfiggere con l’arrivo a Firenze. Al piano terra, al di là della grande sala col camino, aveva intravisto un’ampia cucina, poco luminosa ma comoda e ben attrezzata. Arrivata al primo piano aveva trovato tre stanze da letto. Al piano superiore, le aveva spiegato Chiara, c’era la biblioteca e uno studio per il padrone di casa. -Ecco questa sarà la vostra stanza. E’ piccina, lo so, ma vi basterà. Sarete tutto il giorno in casa di madonna Vespucci e qui verrete solo per dormire- le spiegò la donna mentre la invogliava con la mano ad entrare nella piccola camera con le pareti imbiancate di fresco.

    Vanna entrò timorosa. Era abituata all’angusta cella del convento, umida e tetra, seppur decorosa. Qui tutto rispecchiava la pulizia e le abitudini degli abitanti della casa. A piccoli passi raggiunse il centro della stanza e sotto gli occhi commossi della nutrice cominciò ad ispezionare ogni mobile ed ogni piccola suppellettile. Il letto, un semplice materasso di piume poggiato su una vasta base di noce, era stato foderato di lana francese a grossa trama di un tenero color malva. Un piccolo armadio, una cassapanca, un tavolo capretta con la sua sedia che fungeva da scrivania, un comodino che serviva anche da inginocchiatoio erano stati posti in maniera elegante nel riquadro della stanza. Un paravento in legno foderato di stoffa damascata si ergeva in un angolo come spogliatoio . Fu la scrivania però ad attrarre maggiormente la sua attenzione. Erano anni che la desiderava . Salimbeni vi aveva già fatto posare alcuni saggi latini e raccolte di poesia. Vanna ne prese uno con delicatezza e lo aprì scorrendone le pagine avidamente. -Vostro zio è molto saggio - esordì all’improvviso Chiara nel silenzio che da parecchi minuti si era creato -fa parte della corte dorata del nostro Signore Lorenzo che ama circondarsi di poeti e letterati. Messer Salimbeni è un uomo di elevata cultura e sarebbe stato impossibile per lui dimenticare la vostra istruzione

    - Non è solo per questo che dovrò essergli grata. Messer Salimbeni per me rappresenta la vita non soltanto una sana istruzione e la tranquillità di una casa

    -Lo immagino. Ma di questo vorrei parlare con voi più a lungo. Prima però – tagliò corto la donna -desidero che vi rinfreschiate con tutta comodità. - Intanto con la mano indicava il paravento che nascondeva una bacinella e un asciugamano di lino –La cena sarà servita tra un’ora e senza la compagnia dello zio. Quando viene ricevuto da Lorenzo de’Medici il tempo per lui non ha valore.- finì la nutrice mentre socchiudeva alle sue spalle la piccola porta di noce.

    CAPITOLO SECONDO

    Non esiste nella storia dell’uomo che un popolo intero sia stato concorde ad un regime, a meno che non gli sia stato imposto con la forza. Tuttavia nella Firenze di Lorenzo de’Medici regnava l’ordine e la ricchezza. Gli scontenti non difettavano ma cio’ era frutto di rancori personali verso i Medici da parte di altre famiglie della nobiltà fiorentina. Per capire cosa temeva la nobiltà e come si era addivenuti da un governo popolare all’oligarchia bisogna tornare indietro nel tempo. Il Comune a Firenze aveva fallito nei suoi scopi, primo fra tutti quello di dare unità alla cittadinanza. E sebbene gloriosa espressione del popolo, aveva apportato dissidi interni, fazioni, stragi ed esilii, lasciando delusi coloro che in esso avevano creduto. Si era alla fine del 1300. Talune famiglie fiorentine, tra le più stimate della città, per censo e per ricchezza, iniziarono ad affermarsi accentrando sempre più nelle loro mani il potere assoluto. Albizi e Alberti ebbero il privilegio di essere le prime unendo all’esercizio del dominio il desiderio della vendetta fino a che i primi non prevalsero. Fino al 1433 le guerre intraprese dal governo per ingrandire il territorio o per avallare infide alleanze, avevano indebolito la città , facilitando così l’avvento dei Medici. Decaduti gli Albizi e in mancanza di successori capaci, gli occhi del popolo scesero su Giovanni di Bicci de’Medici, ricchissimo banchiere figlio di mercanti lanaioli .

    In quel momento il Comune si andava trasformando in una Signoria democratica dove il rappresentante del popolo, solitamente un cittadino eminente, assumeva la figura di princeps, dal latino primus inter pares Bicci non usurpava, come qualcuno aveva rinfacciato. Il suo comportamento faceva parte di un fenomeno sociale che a quel tempo investiva tutta la penisola e che dopo avrebbe caratterizzato la politica del pronipote, Lorenzo. C’era bisogno di nuove forme di governo come accadeva nel resto d’Italia dove altre Signorie erano già nate. E i Medici portarono la loro. Cosimo, figlio di Bicci e luminoso nei secoli per la sua saggezza, fu la lanterna esemplare seguita poi da Lorenzo il Magnifico. Uomo capace e adatto all’amministrazione di uno Stato perché già abile mercante e banchiere, Cosimo accentro’ il potere nelle sue mani e così facendo salvo’ Firenze da quelle peggiori delle sue. Subentrò alla sua morte e a quella del figlio maggiore Giovanni, l’altro figlio Piero, detto il gottoso per una malattia che lo gravò tutta la vita ma che gli permise al contempo di dedicarsi più che alle sorti della Signoria alle arti umanistiche. Piero visse in uno dei momenti più difficili di Firenze , schivò attentati e condannò cospiratori ma poi spirò sognando l’Adorazione dei Magi che Botticelli aveva dipinto per la sua famiglia. Alla morte di Piero i rampolli di quelle famiglie fiorentine che per prime avevano combattuto per la supremazia sperarono che il governo affidato ai due figli del gottoso, Lorenzo e Giuliano, appena ragazzi, cadesse in un batter d’occhio. Lorenzo deluse presto i suoi nemici. Ago della bilancia tra i principi d’Italia come veniva definito era a venticinque anni il solo artefice dell’equilibrio della penisola. La sua vita politica era lineare, onesta e pacifica, priva di falsità e invidie, così facili da trovare invece nei Signori del suo tempo.

    Alla morte del padre, a soli venti anni, era l’uomo più ricco della città e forse anche della penisola e la sola amministrazione di quelle sostanze ereditate da casa Medici, sarebbe stata sufficiente ad occupargli interamente le giornate. Tuttavia fu proprio Firenze a chiedergli di continuare l’opera del padre della patria, di suo nonno Cosimo così amato dalla gente. Due anni dopo il nuovo Papa, Sisto IV, gli rinnovò l’incarico di amministrare le finanze pontificie aumentando così ulteriormente i beni della famiglia. Con Lorenzo Firenze ebbe pace mai guerra. Quando questa fu inevitabile, cercò con ogni mezzo a lui possibile, di ricacciarla o contenerne i danni, eccetto a Volterra dove fu quasi impossibile farlo. In nessun altro periodo della sua storia Firenze fu così potente e unita e mai sotto il terrore del tiranno.

    Aveva imparato il greco da Giovanni Argiropulos, esule da Bisanzio, la filosofia da Marsilio Ficino, i classici da Cristoforo Landino e aveva ampliato la sua già vasta cultura leggendo e ascoltando gli uomini saggi del suo tempo. Nel ‘400 questi venivano chiamati umanisti. Scrivevano in latino e si isolavano dal mondo circostante immaginando viaggi a ritroso nel mondo classico. Vivevano in una sfera immaginaria, talmente irreale che nessun uomo del popolo avrebbe voluto ascoltarli e tantomeno cercare di capire le loro parole.

    Benchè fossero per lui anni difficili, dediti alla politica interna ed al rafforzamento delle simpatie del popolo verso la sua famiglia, Lorenzo continuava l’opera di Cosimo anche quale mecenate, suscitatore d’arte e di cultura. Attorniato da artisti famosi come Botticelli, Buonarroti e Leonardo e da dotti e poeti acclamati come Poliziano, Pico della Mirandola e Pulci, raccoglieva lui stesso codici antichi, bronzi e cammei, gioielli e diamanti appartenuti ai grandi del passato, impreziosendo non solo il tesoro della Signoria ma anche le sale e la biblioteca del suo palazzo di Via Larga. E il popolo sapeva che il Magnifico aveva attinto al suo patrimonio familiare per bonificare ed impreziosire la loro città. Quando Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, visitò Firenze nel 1471 , si stupì davanti all’evidenza di quella ricchezza accumulata dai Medici e confessò di non aver mai visto tutti in una volta , e di un unico proprietario, tanti pregevoli dipinti quanti ne aveva raccolti Lorenzo che inoltre ne faceva dote alla sua città. Vivendo in questa atmosfera esaltante che gli permetteva di scrivere lui stesso prose e poesie, aveva acquisito una ricchezza di umanità tale da rendere ancor più ampi gli orizzonti della sua azione politica .

    Il Magnifico se ne stava tranquillo nel suo gabinetto di lavoro a dilettarsi di poesia. Studiolo austero e privo di orpelli fatta eccezione per un paesaggio del Ghirlandaio che faceva da sfondo al suo lavoro. Un delicato battito alla porta e Duccio Salimbeni entro’ chinandosi con devozione.

    - Cosa c’è caro amico ? Quali notizie mi porti tanto urgenti da dover disturbare il tuo Signore? - Il tono di Lorenzo era bonario anche se i suoi lineamenti marcati gli conferivano continuamente un’aria inquieta . Non era un bell’uomo il principe. E’ vero era alto ed atletico ma sul volto scavato si delineavano un naso camuso e una mascella inferiore pronunciata. La voce era roca e stonata. Eppure lì, in quello studiolo, c’era l’uomo più affascinante della Penisola. La mente più acuta del suo tempo. –Vostra Magnificenza mi perdonerà ma è per parlarvi di mia nipote Vanna de’Bardi. Ricordate vero? - Salimbeni faceva parte della corte dorata, quella dell’aristocraticismo culturale del palazzo di Via Larga e sapeva di poterlo disturbare anche in momenti così creativi.

    -Sì, Duccio, ricordo la mia nuova figlioccia. Ebbene ? - chiese con un largo sorriso.

    -La sua destinazione su vostra immensa magnanimità, è in casa di Madonna Vespucci ma voi sapete che le dame di compagnia debbono fregiarsi di un titolo e di una dote… e Vanna, sebbene colta ed educata, ha soltanto il suo casato, devo dire onorevole per ramo paterno ma pur sempre decaduto. Ho già provveduto a dotarla presso la Banca dei Ciompi in maniera sufficiente anche in vista di un eventuale matrimonio, ma un titolo sarebbe opportuno... Ricordate suo padre? - Lorenzo lo guardò assorto. Non capiva dove il suo protetto volesse arrivare. Ma ricordava, ricordava benissimo …..

    Il 26 agosto 1466, il Magnanimo Piero, suo padre, si trovava ammalato nella villa di Careggi, vicina a Firenze, in una zona agreste di grande bellezza ma solitaria e propizia agli agguati. Ne approfittarono Luca Pitti, il suo più grande amico, Agnolo Acciaiuoli, Diotisalvi Neroni ed altri infidi. Tutti erano stati consiglieri di Cosimo e ora fingendosi devoti all’attuale capo della Repubblica, stavano tramando alle sue spalle con la complicità del duca Borso d’Este. Piero ne ebbe notizia dal suo amico Giovanni Bentivoglio, Signore di Bologna, e decise di tornare a Firenze in lettiga con venti uomini di scorta e Lorenzo in testa a tutti ad alcune centinaia di metri . I traditori erano decisi ad affrontarlo sulla via che costeggiava il torrente Terzolle, stretta tra questo e un antico muro di cinta. L’avrebbero ucciso se Lorenzo, allertato da un soldato più in avanguardia, senza scomporsi e dar a vedere i suoi timori, non avesse fatto avvertire il padre da un fido, proprio in tempo perché questi seguendo via delle Panche, raggiungesse Rifredi e poi sano e salvo Firenze.

    -Ricorderete allora chi era l’eroico soldato che vi avviso’ del pericolo e che poi insieme a voi e ad altri ardimentosi stornò l’attenzione dei sicari e permise al Magnanimo di mettersi in salvo…. - Chiese incalzando Salimbeni .

    -Certo, lo ricordo, si trattava di Francesco de’Bardi un ottimo soldato

    - Fu ancora lui che si pose generosamente fra voi e i congiurati quando scoprirono del fallimento del loro agguato e fu ferito gravemente. - continuò imperterrito il giovane - In seguito ci fu un lungo periodo di cure qui a Firenze poi scelse di tornare alla sua vita di comandante al soldo di principi stranieri, anche per mantenere la famiglia. Purtroppo da molti anni non se ne ha più notizia. - Duccio continuava nel suo racconto e Lorenzo lo ascoltava con attenzione . -Sua moglie Sancia partì da Firenze con i due figlioli dicendomi che si trasferiva ad Arezzo e la determinazione a raggiungere dei parenti in quella città mi aveva tranquillizzato. Dopo un lungo silenzio sono riuscito a ricostruire i passi di quella infelice prima che morisse. Per non recarmi preoccupazione aveva scelto di sostenersi facendo vari lavori nelle case dei mercanti poi si era ammalata ed era stata costretta ad affidare i suoi figli alle agostiniane di S.Caterina. Ho recuperato Vanna ma del più piccolo si sa solo della morte… mio cugino da quell’impresa coraggiosa ha avuto soltanto una citazione al merito da parte di vostro padre… de’Bardi proveniva da una nobile famiglia da cui discendeva anche vostra nonna… ma titoli non gliene sono arrivati. Ecco, Magnifico, è questo che vorrei per quella figliola, un titolo….-.

    -Mio caro Duccio, ricordo tutto perfettamente. Quell’uomo mi salvo’ la vita ma ero anche sicuro che si fosse provveduto in qualche maniera. Dopo l’agguato io e mio padre fummo presi dalla guerra che i congiurati in esilio avevano imbracciato contro di noi assieme a Venezia, per cui perdemmo di vista quanto dovevamo a quel valoroso uomo d’arme. Tuttavia ancora oggi mi è difficile trovare un giusto titolo alla povera orfana… voi sapete che non è mia abitudine elargire titoli nobiliari… vediamo un po’ - continuò Lorenzo grattandosi il mento accentuato e mimando sornione un fare pensieroso - non è forse morto quindici giorni or sono il conte Vergani, lasciando titolo vacante e vaste proprietà senza eredi ? - Lorenzo ne aveva già ragionato col fratello Giuliano alcuni giorni prima ed era pronto a trasferire il titolo e i beni alla sua pupilla. Ma Salimbeni questo non doveva saperlo.

    -Sì mio Signore ma Vanna è giovanissima, ha soltanto 16 anni, come potrebbe amministrare tutto quel ben di Dio ? C’è un palazzetto a Firenze ma anche fattorie nel Mugello e allevamenti di cavalli in Maremma - chiese Duccio con aria smarrita.

    - Salimbeni ! - lo rimproverò il Magnifico scrollando la testa – Tutte le proprietà resterebbero sotto la mia amministrazione fino alla maggiore età della giovane o fino al suo matrimonio, procurandole ogni anno una rendita ragguardevole. Per ora invece comincerebbe ad aggiungere al casato dei de’Bardi quello dei conti Vergani! -

    Il giovane non era più nella pelle dalla contentezza. -Non so come ringraziarvi mio Signore. Domani condurrò Vanna al vostro cospetto e sono certo che ne sarete entusiasta. Non la conosco ancora, dovrebbe essere arrivata a Firenze stamane, ma la badessa del convento me ne ha parlato come di un angelo del Paradiso…-

    -Bene Duccio, sono contento che siate soddisfatto. - intanto lo guardava con un sorriso benevolo stampato su quel volto dai lineamenti austeri -Ma ora andate, lasciatemi ancora un po’ da solo. E non abbiate fretta di portarla in Via Larga. In questi giorni sono molto occupato. Il 29 gennaio avremo la Giostra e allora in veste ufficiale mi farete conoscere la contessa Vergani.-

    Duccio con un profondo inchino salutò il suo Signore e corse a casa per dare la bella notizia a sua nipote.

    CAPITOLO III

    26 gennaio 1475

    Simonetta fremeva dalla voglia di vedere quale splendido ritratto le stesse facendo Botticelli. S’era agghindata per quell’appuntamento come una giovane dea greca, per essere più bella che mai. Avrebbe fatto dono di quel ritratto al suo migliore amico, Giuliano de’ Medici. Il loro amore platonico e sublime non era sconosciuto a suo marito Marco né al suocero, il potente banchiere Piero Vespucci. Ma non potevano opporsi poiché niente faceva pensare ad un adulterio nel vero senso della parola e soprattutto perché la protezione dei Medici garantiva la prosperità dei loro affari. Gli occhi di un azzurro madreperlaceo e i lunghi capelli biondi inanellati ed ingentiliti da nastri variopinti, treccioline posticce e perle d’oriente, il corpo sinuoso e perfetto, ne facevano veramente la donna più bella della Signoria e forse di tutta la penisola.

    Lo stesso Botticelli , che fremeva d’amore per la sua musa, stava scrivendo sul ritratto La Sans Par per evidenziare che non c’erano sulla Terra paragoni. Non era la prima volta che il pittore fiorentino la riceveva nella sua bottega per ritrarla a volte nelle vesti di dea dell’amore, altre in quelle di un’ancella greca, riproducendone sempre mirabilmente lo splendore delle forme . Vanna osservava la sua signora con devozione. In un angolo, vestita in maniera elegante ma sobria, aspettava con pazienza che anche quella seduta avesse termine.

    Avrebbe voluto essere bella e fiera come lei ma a sedici anni non poteva sperare di competere con una donna tanto affascinante. Mancavano pochi giorni alla grande giostra di S.Croce e Vanna a Palazzo Vespucci aveva avuto la giornata interamente occupata nell’assistere la sua Signora nelle prove col sarto, con l’acconciatore e il calzolaio in una sequela di rimproveri e complimenti per quei pazienti artigiani. Anche per lei c’era stata la prova del sarto. Per far risaltare la magnificenza della Vespucci aveva dovuto scegliere, come tutte le altre dame del seguito, un abito sobrio di lana blu di Como, ripreso in due balze alla vita e alle maniche, adornato soltanto di una fascia rosa che le contornava il collo per scendere ad incrociarsi appena al di sotto del seno. La scollatura era abbastanza ampia per la sua età ma il sarto vedendola ben formata aveva pensato che avesse almeno diciotto anni. Lo zio Duccio le aveva donato un collier d’oro e quarzo che ben si addiceva all’abito blu. Avrebbe raccolto i lunghi capelli castano dorati in alto in una grossa treccia, sulla fronte li avrebbe divisi in due bande tirate fino alle tempie per farle ridiscendere in due ciuffi riccioluti. Alla prova s’era guardata a lungo nello specchio. Con soddisfazione. L’ovale era perfetto e faceva da sfondo ai suoi occhi verdi che non facevano rimpiangere ad un occasionale ammiratore quelli azzurri di madonna Vespucci. Il naso era aristocratico, ereditato forse dalla nonna materna che si diceva, senza certezze, fosse stata la spagnola marchesa di Santillana. La bocca era perfetta con labbra carnose ma non esagerate. Il tutto creava un insieme di sobria bellezza. Vanna poteva essere nata in una culla ducale o principesca e nulla del suo aspetto attuale lasciava trapelare la lunga odissea dei suoi anni giovanili. Però, concluse guardandosi ancora allo specchio, ci sarebbe voluto qualche anno per impersonare realmente la parte della contessa Vergani. Ritorno’ in

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