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La Gilda
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E-book233 pagine3 ore

La Gilda

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Info su questo ebook

«Era ormai finita la guerra e a Roma non c’erano mica tante altre occasioni per sbarcare il lunario. Mentre quello sconosciuto consumava la sua marchetta e il suo fiato sopra di lei, la ragazza con i capelli dorati si trovò a ripensare a qualche anno prima, nel 1937, quando sua madre le aveva proposto di andare a Roma a servizio come domestica presso i Bonfiglioli, una ricca famiglia ebrea che abitava in un signorile palazzo in Via del Corso...»
LinguaItaliano
Data di uscita29 ott 2019
ISBN9788835325581
La Gilda

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    Anteprima del libro

    La Gilda - Franco Mari

    DIGITALI

    Intro

    «Era ormai finita la guerra e a Roma non c’erano mica tante altre occasioni per sbarcare il lunario. Mentre quello sconosciuto consumava la sua marchetta e il suo fiato sopra di lei, la ragazza con i capelli dorati si trovò a ripensare a qualche anno prima, nel 1937, quando sua madre le aveva proposto di andare a Roma a servizio come domestica presso i Bonfiglioli, una ricca famiglia ebrea che abitava in un signorile palazzo in Via del Corso...»

    LA GILDA

    PRIMA PARTE

    La ragazza dai capelli dorati

    La ragazza dai capelli dorati, nonostante tutto il mestiere maturato in tanti anni di professione, non riusciva, con la consueta grazia, ad arrotolarsi la calza di nylon sulla gamba. Gli ormai numerosi rattoppi di cui era stata fatta oggetto, non consentivano più la fluidità dei movimenti e la scorrevolezza che la situazione avrebbe richiesto.

    D’altra parte, c’era ben poco da fare e non se la poteva prendere con nessuno se non con la sfortuna e le difficoltà del momento. Purtroppo da un bel po’ di tempo le calze di nylon non si trovavano più a prezzi ragionevoli neanche al mercato nero.

    Anche se la sua amica Chichina non aveva rivali e si era dimostrata una vera artista come restauratrice di buchi e smagliature, era costretta ad ammettere che i rattoppi erano ormai davvero parecchi e troppo grossi per consentire un risultato migliore.

    Del resto, a onor del vero, a quello sconosciuto tutto rosso in volto, tarchiato, con le grosse sopracciglia, che le calze le fossero poi scivolate con graziosa armonia sulla pelle o si fossero intoppate più volte nel movimento, sarebbe probabilmente interessato ben poco.

    E così pure della sua nuova liseuse o del rossetto scarlatto all’ultima moda che si era messa sulle labbra.

    Con tutta la fatica e i soldi che le erano costati!

    Dopo pochi minuti, pensava, quel tipo di passaggio le sarebbe stato di sopra ansimando, tutto preso dalle sue gesta e dal suo piacere.

    Lei, ormai, li conosceva bene gli uomini. Fin dal loro aspetto esteriore e da come camminavano, non appena entravano nell’atrio della casa, riusciva quasi sempre a capire di che pasta erano fatti.

    E raramente si sbagliava.

    Dei suoi capelli, appena usciti dalla parrucchiera, della guepière nera che le aveva regalato la Rossa prima di andare a Venezia, del suo profumo di lavanda, molto ordinario, ma comunque niente male, che la Signora faceva mettere a tutte le ragazze ogni sera, ebbene di tutto questo, a quel tipo e a tutti quelli che sarebbero puntualmente venuti dopo di lui, non sarebbe importato proprio un bel niente.

    Perché allora preoccuparsi se le calze non scivolavano graziosamente sulla pelle delle sue gambe?

    Eppure, andava ripetendosi con un certo cruccio, ogni cliente soddisfatto era un potenziale cliente che sarebbe potuto ritornare o, comunque, uno che di lei avrebbe solo potuto parlare bene.

    E lei, in quel momento di magra, con le poche marchette che si riuscivano a fare dopo lo sbarco degli alleati ad Anzio e la successiva fuga dei tedeschi, non poteva permettersi il lusso di rinunciare a nessuna possibilità.

    Era ormai finita la guerra e a Roma non c’erano mica tante altre occasioni per sbarcare il lunario.

    Mentre quello sconosciuto consumava la sua marchetta e il suo fiato sopra di lei, la ragazza con i capelli dorati si trovò a ripensare a qualche anno prima, nel 1937, quando sua madre le aveva proposto di andare a Roma a servizio come domestica presso i Bonfiglioli, una ricca famiglia ebrea che abitava in un signorile palazzo in Via del Corso.

    Senza avere avuto allora alcuna coscienza né dubbio, spinta dall’impulso quasi infantile di compiacere il desiderio materno, aveva immediatamente accettato finendo per compiere quello che, più tardi, avrebbe finito per riconoscere come il primo, certamente non l’ultimo, errore della sua vita.

    A Roma! Avevano sgranato gli occhi e allargato la bocca tutte le sue amiche di Ferrara.

    Che fortuna! Così potrai forse vedere il Duce!

    E il Papa in piazza San Pietro!

    E potrai guadagnarti i tuoi soldi! E magari incontrare un bel signore da sposare! Che fortuna che hai avuto!

    L’iniziale entusiasmo per la proposta ricevuta aveva inevitabilmente poi finito per dissolversi lentamente, proprio come la nebbia delle sue parti, e avevano cominciato ad affastellarsi, in rapida successione e senza pausa alcuna, le paure e i dubbi.

    Non sono mai stata lontana da casa. E come mi troverò con i nuovi padroni? Sarò capace di fare tutto quello che mi ha insegnato la mamma? Io non sono mica così brava come lei!

    Non aveva ancora terminato di svolgere tutti i suoi pensieri che il treno sul quale era salita a Ferrara era già arrivato alla stazione Termini.

    Non aveva ancora terminato di ripercorrere tutti i suoi ricordi che il tipo che stava poco prima su di lei, dopo essersi alzato i pantaloni e riposizionato le bretelle sulle spalle, le dava già di schiena uscendo dalla porta.

    Senza nemmeno salutare.

    Si ricordò

    Si ricordò di quel giorno in cui, speranzosa nel suo futuro come sanno esserlo solo gli esseri umani, dopo aver rimandato l’occasione per molte volte, era riuscita a trovare il tempo e il coraggio di entrare nella vicina chiesa a San Venanzio per pregare la statua della Madonna.

    Erano già passati quasi due anni da quando era a servizio dai Bonfiglioli a Roma e quel pomeriggio di aprile aveva deciso di non uscire, come di consueto, accompagnata con le altre ragazze a servizio da altre famiglie che aveva avuto l’occasione di conoscere facendo la spesa.

    Sui fori imperiali a vedere la parata militare ci era già andata altre volte e non le era piaciuto un granché.

    Quel giorno aveva preferito andare in chiesa.

    Da tutte le parti non si faceva altro che parlare di guerra e una ragazza campagnola come lei, lontana da casa, in una grande città come Roma, non avrebbe potuto trovare altrimenti consolazione ai propri tormenti e a tutta la confusione che albergava nel suo animo, che andare a trovar conforto presso la statua della Madonna.

    Sei qui per confessarti, figliola?

    Il prete che le stava parlando di lato al banco dove si era inginocchiata, si era avvicinato in maniera garbata e aveva cercato di presentarsi a lei in modo molto dolce e gentile. Ciò nonostante l’Attilia - perché quello era il suo nome di battesimo - ebbe un sussulto per la sorpresa e il successivo spavento.

    Non avere paura, figliola! Qui siamo in chiesa! affermò, quasi con orgoglio, il sacerdote.

    Come se l’extraterritorialità del suolo che stavano calpestando coincidesse con l’automatico e sicuro privilegio di poter godere di chissà quale immunità e protezione.

    Se posso esserti utile in qualche cosa, non hai che da comunicarmelo. Io mi chiamo Don Vincenzo. Mi puoi trovare tutti i pomeriggi fino alle diciotto qui in chiesa oppure in sacrestia.

    L’Attilia, continuando a tenere gli occhi bassi per la timidezza, si portò la mano alla fronte per un affrettato e approssimativo segno della croce e, dopo aver declinato l’invito e ringraziato sottovoce il sacerdote che l’aveva avvicinata, se ne uscì quasi furtivamente dalla chiesa, in preda a una fretta spropositata.

    Si vergognò della sua consueta, paralizzante, timidezza che le aveva impedito di saper gestire l’incontro in chiesa con il prete ma, dovette riconoscere a sé stessa, quello era il primo uomo che l’avvicinava fuori casa dopo tanto tempo.

    La settimana successiva, un sabato pomeriggio, riuscì a trovare finalmente il tempo e il coraggio per ritornare di nuovo in chiesa e provare a confessarsi. Dopo averla ascoltata, Don Vincenzo, dall’interno del confessionale cercò, con non poca difficoltà, le parole adatte per replicare a quanto aveva sentito.

    Figliola, le cose che mi hai detto non possono davvero essere comprese fra i peccati dell’umanità! Se proprio vogliamo caricare questi gesti di una qualche responsabilità, ebbene, con un piccolo sforzo, possiamo metterli fra le leggerezze, fra gli equivoci, finanche fra le disattenzioni! Ma certamente non fra i peccati! Si vede che tu sei una brava figliola e bravi devono essere stati i tuoi genitori nell’educarti così bene. Ora, tanto per onorare il sacramento confessionale, va a dire un’Ave Maria davanti alla statua della Madonna e ritieniti, conseguentemente, in grazia di Dio. Ti aspetto domani, che è domenica, alla santa messa per la comunione!

    La speranza contenuta nelle sue parole e la fiducia dello sguardo con cui seguì l’esile figura femminile uscire dal confessionale non arrivarono però a trovare alcun tipo di soddisfazione il giorno dopo.

    Don Vincenzo non riuscì a vedere infatti l’Attilia la mattina successiva alla santa messa per la comunione né ebbe altre occasioni per verificarne la presenza vicino al suo confessionale.

    Sei tu, Attilia?

    Sei tu, Attilia?

    Sì, signora, sono io! Sono appena rientrata. Come mi ha comandato, ho portato le lenzuola lise in sinagoga per le famiglie povere e poi sono andata in Campo dei Fiori a comperare le patate e le puntarelle per questa sera. Ha bisogno d’altro?

    Ho bisogno di parlarti. Porta la verdura in cucina e poi vieni qui da me, in salotto.

    La signora Bonfiglioli era quella che, dal punto di vista di una domestica, si sarebbe potuto dire una brava padrona. Non aveva mai preteso eccessivamente dalle forze e dalla disponibilità dell’Attilia. Non l’aveva mai trattata con la sufficienza o, peggio ancora, con lo sprezzante distacco con cui molte altre signore a Roma erano solite trattare la servitù e tutti i loro sottoposti.

    L’Attilia, nel portare la verdura in cucina, avvertì l’inconsuetudine della richiesta della signora Bonfiglioli e si chiese in che cosa avrebbe potuto essere rimproverata. Le sembrava di essersi sempre comportata bene, cioè secondo le regole che le erano state imposte, di non aver trasgredito le consegne affidatele e di non essersi mai attardata fuori casa oltre gli orari che le erano stati concessi.

    Cercò di tacitare la propria ansia e di tranquillizzarsi convincendosi che, se proprio era venuta a mancare in qualche cosa, doveva certamente trattarsi di semplice disattenzione.

    Nell’avvicinarsi, tutta imbarazzata, al salotto dove era attesa, i suoi passi affrettati cercarono di farsi, se possibile, ancora più cauti e silenziosi.

    Si sedette in un angolo del divano, quasi indegnamente, tenendo gli occhi bassi, tutta timorosa del discorso che la signora doveva farle.

    Tu, Attilia, sei qui da noi da circa due anni. E noi, lo sai bene, siamo sempre stati molto soddisfatti della tua persona e del tuo lavoro. Spero che, anche per te, questa esperienza lavorativa sia stata felice.

    Nonostante la mancanza di un cenno o di una risposta da parte dell’Attilia, la signora Bonfiglioli continuò tranquillamente a parlare.

    Non posso neppure negare di essere riuscita, in questo periodo, a far crescere dentro di me un sentimento di affetto e di grande benevolenza verso di te. Purtroppo, come saprai, la promulgazione delle leggi razziali da parte del governo fascista non si è rivelato essere un gesto meramente teorico, di tipo propagandistico, come in primo momento si era sperato. Contrariamente a quanto credevano i più ottimisti fra noi, e fra questi mio marito, pare che ora quelle leggi si sia deciso di farle applicare sul serio e severamente. Per nostra sfortuna, come avrai certamente sentito dire, non ci è più permesso servirci di personale ariano, cioè non ebreo, presso le nostre case. Mio marito, con grande rincrescimento, mi ha purtroppo comunicato che, in tempi brevi, anzi brevissimi, dovrai lasciare la nostra casa e cercarti un altro lavoro. Mi piange il cuore al solo pensiero di perderti perché sei davvero una ragazza d’oro ma, credimi, non possiamo davvero fare diversamente. Ma questo non è tutto.

    La prossima settimana anche noi ci trasferiremo. Saremo costretti ad abbandonare la nostra casa di Roma e a trasferirci molto lontano, in campagna. Non posso dirti dove perché la destinazione non la conosco nemmeno io. Mio marito non ha voluto rendermene partecipe perché si tratta, praticamente, di una vera e propria fuga in clandestinità. Lui è sempre stato un uomo positivo e fiducioso ma dice che, in questo momento, l’evidenza degli eventi e l’incombenza del pericolo, non gli consentono più di permettersi il lusso dell’ottimismo. Per la prima volta nella mia vita, ho colto l’incertezza nelle sue parole e la paura nel suo sguardo.

    E io, signora che cosa devo fare? riuscì a dire, con un filo di voce, l’Attilia mentre i suoi grandi occhi lucidi diventavano incontinenti e il viso cominciava a rigarsi di qualche lacrima silenziosa.

    Io, mia cara bambina, non sono proprio in grado di poterti aiutare e di fare di più. Non temere, avrai quanto ti spetta in termini economici. Per quello che possono servire, posso scriverti delle ottime referenze ma non so quanto possano valere, di questi tempi, delle raccomandazioni scritte da una famiglia di ebrei. Magari puoi ritornare a Ferrara, dalla tua famiglia.

    Ma, me ne devo andare proprio subito? chiese, ormai piangendo in modo manifesto, l’Attilia.

    Ma no, bambina mia! - esclamò, abbracciandola con fare materno, la signora Bonfiglioli - Hai tutto il tempo che ti occorre per preparare le tue cose. Certo che, fra sette giorni, in questa casa non ci sarà rimasto nessuno di noi!

    Anche se dalle labbra dell’Attilia non usciva alcun suono articolato, le lacrime continuavano a scorrere copiose ed eloquenti dai suoi occhi mentre raggiungeva la sua camera.

    Si buttò sul letto, senza nemmeno togliersi le scarpe. Il cuscino schiacciato sulla faccia era l’unico misero conforto che la sorte le stava concedendo in quella occasione.

    Si sentiva in preda a un indescrivibile stato di agitazione e di confusione. Non si aspettava certamente un epilogo del genere e, soprattutto, non si aspettava di dover prendere così, sui due piedi, delle decisioni così definitive.

    L’impossibilità di continuare a prestare servizio presso una famiglia non ariana era l’ultima delle cose che si sarebbe aspettata.

    Pronto, mamma, mi senti?

    Pronto, mamma, mi senti?

    Sì, bambina! Ti sento bene!

    Mamma, ti sto chiamando da un telefono pubblico. Non posso stare tanto al telefono perché, lo sai, costa caro. Voglio solo dirti che oggi ho perso il lavoro che avevo presso la famiglia Bonfiglioli, per via delle leggi contro gli ebrei. Ora, non so proprio che cosa fare. Pensavo di ritornare a casa.

    Non farlo, bambina! Anche qui a Ferrara le cose, ultimamente, non sono andate molto bene. Anche la famiglia Ravenna ha cercato di tenerci fino all’ultimo ma poi è stata costretta, suo malgrado, a licenziare anche me e tuo padre. Così abbiamo finito per perdere anche il nostro piccolo appartamento e siamo stati costretti a trovarci una camera ammobiliata dove andare a dormire. Io faccio ancora qualcosa per i Ravenna e qualche altra famiglia ebrea. Lavo la biancheria e stiro i loro vestiti ma sono costretta a farlo di nascosto. Le cose adesso sono molto diverse, non è mica come prima, quando stavo a servizio nella loro casa. E anche loro, ora che non possono più lavorare all’università, tante volte non hanno nemmeno tutti i soldi per pagarmi. Tuo padre continua a non stare bene e il dottore non ci ha lasciato molte alternative: nelle sue condizioni non può più tornare a lavorare al freddo nel negozio di carbone dello zio a Lagosanto.

    Ma, mamma, io qui non so dove andare! Da domani mi trovo sul marciapiede e non conosco nessuno! Non so proprio dove sbattere la testa!

    Bambina mia! Tornando non faresti che peggiorare le cose. Noi adesso siamo sistemati in una camera con tutte le nostre cose. Non avremmo neanche lo spazio da darti per dormire. Ci sarebbe una bocca in più da sfamare e un mare di problemi in più da risolvere. Credi proprio che io non abbia voglia di rivedere e di stare insieme con la mia bambina? Ma qui verresti certamente a stare peggio di come ti trovi adesso. Vedi tu, Attilia, quello che puoi fare e che riesci a trovare. Qui a Ferrara ci sono poi anche dei gruppi, le chiamano «squadre», che vanno in giro nelle case degli ebrei.

    Ma noi, mamma, non siamo mica ebrei!

    Sì, lo so. Ma abbiamo sempre lavorato per loro. E costoro lo sanno, sono bene informati perché c’è tanta gente cattiva che fa la spia. Ci hanno già offesi e presi in giro in maniera pesante per questo e, in più, ci hanno fatto delle minacce se torniamo a servizio da certe famiglie. Un giorno hanno anche preso per il bavero della giacca il papà e l’hanno spintonato contro il muro, tanto per fargli capire che sapevano tutto e che non stavano scherzando. No, no, ti prego! Non tornare! Anche per te sarebbe troppo pericoloso. Credo proprio che sia meglio se tu adesso rimani a Roma. Vedi di arrangiarti in qualche modo. Prova ad andare a chiedere aiuto e ospitalità alle suore. Magari, racconta loro che hai fatto le magistrali.

    Ma mamma, io ho fatto solo tre anni di magistrali e poi tu e papà non avete voluto che io continuassi. Mi mancava solo un anno!

    Mi dispiace! Mi dispiace tanto, bambina mia! Solamente adesso, io e tuo padre ci siamo resi conto dell’errore che abbiamo commesso. Bastava solo un anno e saresti diventata maestra. Ma, cosa vuoi, noi siamo dei poveri ignoranti e per noi lo studio era sempre stato solo una perdita di tempo e di soldi. Solo adesso abbiamo capito che la tua vita avrebbe potuta essere ben diversa. Ma, purtroppo, non si può più tornare indietro.

    Dopo quella telefonata, l’Attilia rimase in completa confusione fra ciò che credeva di conoscere e ciò che ancora ignorava della vita.

    Si sentì come un oggetto smarrito, di quelli che non interessano minimamente, un relitto abbandonato in mezzo al mare, cosa di nessuno e a disposizione del primo che fosse passato da quelle parti.

    Questo evento ebbe a distruggere l’ultima infantile illusione che ancora le era rimasta:

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