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Il suono della guarigione
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E-book237 pagine6 ore

Il suono della guarigione

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Il suono delle parole, la musica magica che attraverso esse possiamo formare per arrivare al grande potere della guarigione. Come possono semplici parole formare frasi che sanano e guariscono? Un viaggio affascinante nel linguaggio persuasivo, con una sorpresa per ogni lettore.
LinguaItaliano
Data di uscita4 nov 2015
ISBN9788893068291
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    Anteprima del libro

    Il suono della guarigione - Maria Grazia Spurio - Alessia Ceresoni

    applicazione.

    CAPITOLO PRIMO

    PAROLE CHE GUARISCONO E COMUNICAZIONE

    1) Le parole, l’argomentazione e il pensiero

    Si dice che il primo terapeuta fosse il sofista Antifonte, noto per i suoi poteri di persuasione. Questi affittò una bottega vicino al mercato di Corinto per offrire i suoi servigi agli afflitti. Egli affermava che non poteva esistere un dolore talmente grande da non poter essere alleviato dalle sue speciali ‘conferenze’.

    E’ possibile che alcuni moderni psicoterapeuti non siano così diversi dagli antichi sofisti, sebbene, a differenza di questi ultimi che usavano il linguaggio della persuasione, preferiscono usare il linguaggio della malattia. Alcuni di essi si esprimono infatti in termini di ‘pazienti’, ‘malattie’ e ‘cure’, anche se lo scopo sembra essere il medesimo: non farsi animo di quanti sono dolorosamente depressi.

    La retorica, a partire dall’antica Grecia e fino al XIX secolo è stata, quasi senza soluzione di continuità, una materia di enorme importanza nella tradizione intellettuale dell’Occidente. Si può quindi affermare che del valore, del potere, delle parole, ci si è fatti persuasi già da diversi secoli. Non è possibile negare l’importanza educativa della retorica, come evidenziato da personaggi illustri quali Aristotele, Cicerone, Erasmo, Agostino e Adam Smith, sebbene essa sia sempre stata vista con un certo sospetto. Lo stesso Socrate criticò il fondamento morale della disciplina dei teorici della retorica, ritenendola un argomento non serio sotto il profilo intellettuale. In particolare, il sospetto riguardo alla retorica attiene il timore che possa divenire uno strumento di forte impatto persuasivo: il potere di trasmettere messaggi in modo irresistibilmente convincente, a prescindere dal contenuto del messaggio stesso. Se vero che i retori avevano un tale potere di convincimento, al punto di riuscire a far apparire migliore la ragione peggiore, essi avrebbero potuto sovvertire l’ordine morale.

    Analoghi timori sono stati espressi nei tempi moderni in relazione alla psicologia, in particolare alla psicologia della comunicazione, al linguaggio persuasivo, strategico, e per non parlare poi di quello ipnotico. I timori riguardano principalmente le conseguenze di conoscere ed utilizzare i segreti reconditi della mente e usare tale potere bypassando consenso e volere del paziente, o ancora sfruttare tale potere persuasivo attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione scaltramente utilizzati dai pubblicitari. In realtà però, la psicologia moderna ha dimostrato che la comunicazione è immensamente complessa, ed è troppo riduttivo affermare che sia possibile individuare un trucco nascosto volto a garantire il successo persuasorio. In effetti, anche antichi oratori come Cicerone ne erano consapevoli. Nel suo De oratore si narra di come giovani ammiratori di Crasso, oratore di grande successo, chiedessero a quest’ultimo di rivelare i segreti dell’oratoria. Egli rispose che non esistevano altri misteri all’infuori del senso comune e del duro lavoro.

    La psicologia moderna ha fatto dei passi avanti rispetto a questa posizione, in quanto ha dimostrato come i processi del pensiero umano siano estremamente complessi. In particolare, l’interesse della psicologia cognitiva è stato quello di rivelare le cosiddette regole del pensiero, cioè scoprire le regole che è necessario seguire affinché il pensiero proceda con successo, sia in linea teorica, cioè quelle che si dovrebbero seguire, che pratica, cioè quelle che di fatto l’uomo segue.

    Il tema dell’argomentazione percorre gli antichi manuali di retorica. Tali testi non approfondivano solamente l’argomento di come impressionare un uditorio, ma anche di come controbattere i ragionamenti contrari. Protagora ben comprese l’aspetto argomentativo della retorica. Egli fu ad esempio il primo ad usare il metodo di confutazione, tramite l’organizzazione di dispute dialettiche, e fu il primo, forse, a ben ragione, ad essere definibile ‘sofista’.

    Sebbene ad oggi non abbiamo a disposizione alcun testo scritto da Protagora, ne leggiamo un ritratto molto brillante delineato da Platone il quale riporta alcune sue sentenze, quali, ad esempio, ‘intorno ad ogni argomento ci sono due asserzioni contrapposte tra loro’ (Diogene Laerzio).

    Nella sua esperienza nella cause di giustizia, Protagora aveva certamente osservato che in ogni causa vi è un’accusa e una difesa che propongono due tesi assolutamente contrapposte tra loro. Un avvocato esperto, grazie alla sua fantasia argomentativa, e alle sue parole persuasive, trova sempre qualcosa da dire intorno ad ognuna delle due tesi.

    Questa fantasia argomentativa resta un elemento di fondamentale importanza in ogni contesto comunicativo, perché permette di selezionare le parole giuste per il raggiungimento di un obiettivo che ci si è prefissati. Appare evidente rispetto alla grande importanza del potere delle parole, anche l’implicazione psicologica legata al fatto che attorno ad ogni argomento ci sono due asserzioni contrapposte tra loro: l’uomo è fondamentalmente dotato di una capacità di opporsi agli argomenti inventando contro-argomenti, che costituiscono l’inevitabile altra asserzione di cui parla Pitagora. Sono queste le capacità critiche che sono in grado di delineare, e al tempo stesso limitare, il potere del comunicatore persuasivo, e assicurano che non è inevitabile arrivare ad una resa incondizionata di fronte alle parole dell’oratore dalla lingua d’oro.

    Anticipando un argomento che verrà trattato nello specifico nel capitolo sulla terapia strategica e parole che guariscono, si può affermare che ciò risulta ancor più vero in un contesto di terapia di un paziente che ha necessità di superare un disagio, o, una condizione emotiva o mentale disfunzionale. Cioè, se da una parte è vero che il terapeuta dovrebbe possedere nelle sue parole un ‘potere’ che, proprio in virtù del quale, mira a conseguire un risultato risanatore di guarigione nel paziente che a lui si rivolge, è anche vero che tale ‘potere’ non prescinde dalla volontà del paziente, in qualunque situazione esso si trovi. Egli infatti, deve comunque e sempre ‘scegliere’ di usare le parole (e naturalmente i concetti ad esse associati) che con garbo gli vengono proposte, e non le subisce passivamente come se gli venisse somministrato un medicinale.

    Manuali come ‘L’istruzione oratoria’ di Quintiliano e l’anonimo ‘Retorica ad Hennium’ dimostrarono come le capacità di negazione fossero parte integrante delle capacità pratiche di un oratore. A ciò possiamo aggiungere che, sebbene non particolarmente articolate in assenza di uno specifico esercizio, tutti noi ne siamo dotati.

    Un argomento è potenzialmente infinito perché c’è sempre qualcosa da aggiungere, ciò può rendere difficile tradurre l’argomento interiore in azione. (Janis e Mann, 1977).

    Inoltre quella che appare essere l’ultima parola sulla questione, in realtà può non essere tale. Ciò avviene anche a livello di pensiero.

    L’intuizione dello straniero di Elea secondo la quale il pensiero è la conversazione silenziosa dell’anima con se stessa, ha un’implicazione psicologica: il pensiero prende a modello il dialogo.

    Si è spesso supposto che il processo del pensiero sia qualcosa di non osservabile, che resta avvolto in un misterioso silenzio. Tuttavia, se le deliberazioni interiori assomigliano a quelle pubbliche, la struttura di un dibattito parlato può assomigliare alla struttura del pensiero.

    Ecco quindi che la scelta delle parole si rivela uno strumento di efficacissimo impatto che arriva ad inserirsi nel flusso dei pensieri che determinano gli atteggiamenti di una persona, e di conseguenza le sue azioni, appunto le parole che guariscono.

    Sembrerebbe quindi estremamente semplice scoprire il meccanismo dell’efficacia comunicativa: basta seguire delle semplici regole di retorica di argomentazione e contro argomentazione?

    Abbiamo detto di no, dal momento che questo processo potrebbe continuare all’infinito e quindi, paradossalmente, arrivare a bloccare il processo decisionale anziché favorirlo.

    La stessa cosa può dirsi del processo di guarigione. Il pensiero non può essere ridotto al semplice atto di seguire una regola.

    Possiamo tuttavia ricavare una morale da quanto detto. Se esiste una stretta connessione tra argomento e pensiero, quando si insegna, o si aiuta a pensare, si deve prima insegnare ad argomentare. E l’argomentazione passa attraverso la scelta delle parole giuste, giuste relativamente ad un contesto, una situazione, una persona. E’altresì opportuno conservare una giusta dose di spirito critico, che non teme di sfidare o di porsi sopra le autorità o a ciò che convenzionalmente viene definito ‘corretto’.

    Bisognerebbe quindi domandarsi sempre quali siano i suoni essenziali che dovrebbero essere uditi in un luogo dove si apprende, dove si comunica, dove si guarisce. Il suono essenziale è simile a quello che si udiva quando i sofisti si radunavano nei mercati per conversare sulla natura dell’universo, o quando ci si riuniva negli studi dei rabbini per discutere la Legge. Si tratta del fragore delle idee, il suono essenziale per un luogo di pensiero. E’ essenziale per il semplice motivo che il suono del pensiero è anche il suono dell’argomentazione, delle parole.

    2) Dall’apprendimento delle prime parole alla ricerca delle parole efficaci

    Per secoli gli studiosi si sono chiesti come impariamo a parlare. Fatto degno di nota, bambini che a mala pena riescono a camminare e a mangiare da soli imparano a parlare senza neanche conoscere le regole della grammatica e senza speciale addestramento! Il linguista Ronald A. Langacker scrive: [Il bambino] è padrone di . . . un sistema linguistico. E questo sulla base di evidenze indirette e frammentarie, e a un’età in cui non è ancora in grado di formulare pensieri logici, analitici.

    La maggioranza degli scienziati ritiene infatti che imparare una lingua — non la lingua specifica — sia una capacità innata che si rivela nei primi anni del bambino.

    All’inizio, però, il cervello del bambino è troppo immaturo per controllare lo sviluppo del linguaggio. Questo, naturalmente, non impedisce al piccino di provare. Infatti alcuni ricercatori ritengono che il balbettio del bambino molto piccolo faccia parte dello sviluppo del linguaggio, una specie di prova per la successiva enunciazione delle parole. Mentre il bambino combatte con i vocalizzi, anche il suo cervello si prepara rapidamente per parlare. Benché lo sviluppo del corpo del bambino sia relativamente lento durante l’infanzia, all’età di cinque anni il suo cervello raggiunge già il 90 per cento del suo peso da adulto. (Raggiunge il suo pieno peso da adulto verso i 12 anni). Questo significa che i primi cinque anni di vita sono un periodo critico per l’apprendimento, particolarmente i primi due.

    In questo periodo, nella corteccia cerebrale miliardi di cellule nervose crescono e si diramano, formando un tessuto strettamente interconnesso. Fra i 15 e i 24 mesi, le cellule nervose del cervello crescono enormemente. Ora il cervello è pronto per l’apprendimento del linguaggio. Quindi è indispensabile che il bambino sia messo in contatto col linguaggio durante i primi anni di vita.

    Secondo il Daily Telegraph di Londra, infatti, parlare ai bambini piccoli almeno 30 minuti ogni giorno può far aumentare in maniera misurabile la loro intelligenza e le loro capacità linguistiche. Alcuni ricercatori hanno studiato 140 bambini di nove mesi. Ai genitori di metà di questi bambini era stata spiegata l’importanza di parlare ai bambini e qual è il modo migliore di farlo, mentre ai genitori degli altri non era stato suggerito niente. Dopo sette anni il quoziente medio di intelligenza del gruppo [a cui i genitori parlavano] era di un anno e tre mesi superiore a quello dell’altro gruppo, e le loro capacità linguistiche erano nettamente superiori. La ricercatrice Sally Ward (2004) ritiene che oggi i genitori parlino ai bambini piccoli meno che in passato a motivo dei grossi cambiamenti che ci sono stati nella società. Ad esempio, un maggior numero di madri lavora, e in molte case i programmi televisivi hanno preso il posto della conversazione.

    Dennis Child, professore di pedagogia, sostiene: Il linguaggio è il più bel dono che un essere umano possa avere. La consapevolezza della preziosità di questo dono è fondamentale per aiutare i genitori a permettere ai figli di sviluppare efficacemente questo efficace strumento espressivo.

    Quanto efficace? Anche in questo caso dipende dalla scelta delle parole. Vediamo quanto si rivela importante questa scelta nei contesti di vita quotidiana, ogni qualvolta cioè si realizza una interazione comunicativa. Quante volte capita di restare senza parole? In realtà davvero di rado, perché si prova piacere a comunicare i propri pensieri e sentimenti. Ciò che ci permette di far questo è il linguaggio. In effetti si può affermare che senza il linguaggio è impossibile pensare.

    È vero che gli animali, nel loro mondo, riescono a scambiarsi informazioni senza parole: gli uccelli cantano, i leoni ruggiscono, i delfini fischiano, le api danzano. Altri animali comunicano per mezzo di pose e movimenti, contatto e suoni, e persino odori. ‘Non avvicinarti!’ ‘Fa attenzione!’ ‘Vieni con me!’ Questi sono i loro messaggi chiari e comprensibili!

    La comunicazione fra animali, però, è piuttosto limitata. Il linguaggio, viceversa, consente agli esseri umani di parlare di qualsiasi cosa vedano o immaginino. Ma si può affermare che ai fini comunicativi la scelta delle parola abbia poca importanza? Sicuramente no. Ad esempio, una parola che può andar bene in una circostanza può avere un effetto negativo in un’altra. Se usata a sproposito, un’espressione colorita può diventare una parola che causa pena. Questo può succedere anche per semplice sconsideratezza, rivelando mancanza di riguardo per gli altri. Alcune espressioni hanno un doppio senso, uno dei quali è offensivo o denigratorio. Viceversa la parola che guarisce e' una buona — una parola che incoraggia —che fa star bene e che fa provare gioia alla persona a cui è rivolta. Come risulta evidente dunque , e' richiesta una preparazione, un lavoro per trovare le parole giuste.

    In alcune lingue, ad esempio, si usano certe espressioni quando ci si rivolge a persone autorevoli o più grandi d’età e altre quando ci si rivolge ai propri pari o a persone più giovani. Ignorare queste convenzioni è considerato maleducazione. Viene anche ritenuto disdicevole applicare a sé titoli che le usanze locali riservano ad altri.

    Alcuni scelgono di usare un linguaggio rozzo e volgare. Forse pensano che questo dia vigore a ciò che dicono o forse usano un vocabolario del genere perché non ne conoscono un altro. Cambiare modo di esprimersi, scegliendo parole che sanano, parole dal potere ristoratore, parole che riescono a far star bene, si rivela fondamentale per la buona riuscita della comunicazione.

    Un requisito fondamentale del parlare bene, inoltre, è usare un linguaggio facilmente comprensibile. Se si usano parole che l’ interlocutore non capisce, è come parlare una lingua straniera.

    Certe parole hanno un significato particolare nell’ambito di una determinata professione, possono essere termini che gli addetti ai lavori usano tutti i giorni. Ma se vengono usati nel contesto sbagliato è probabile che la maggioranza non li capisca. Inoltre, pur usando il linguaggio di tutti i giorni,

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