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E-book342 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Questa storia ha il calore del sole e il colore rosso della terra che ricopre la savana. Porta con se un po' della drammaticità e dell'intensità di un paese dove ribollono statiche contraddizioni e improvvisi cambiamenti. Izuba e Makena sono due donne coraggiose che vivono in un mondo di uomini. Lavorano come medico e infermiera all'ospedale St.Ann in Uganda. Cecilia proviene da un'altra cultura, insegue una chimera amorosa e scopra grazie a loro la potenza inespressa della sua vita. Un romanzo corale, un alternarsi vivace di personalità ed una tavolozza colorata di paesaggi, da scoprire con gli occhi dei personaggi che intrecciano i loro cammini a quelli delle protagoniste. Un proverbio africano recita: "educare una donna significa educare un intero villaggio", Valentina Picco, alla sua prima opera narrativa, racconta di un'Africa in bilico tra violenza e speranza, entrando nell'intimo dei pensieri dei suoi personaggi con uno stile leggero ma efficace, coinvolgente e a volte ironico.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita18 nov 2011
ISBN9788897513339
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    Anteprima del libro

    Stelle Nere - Valentina Picco

    Valentina Picco

    STELLE NERE

    Abel books

    Proprietà letteraria riservata

    © 2011 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È  vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Abel Books

    via Terme di Traiano, 25

    00053 Civitavecchia (Roma)

    ISBN 9788897513339

    A Nelson, e alla chiave inglese che regola la sua gamba

    A Moses, e al riso al posto del mais

    Al Piccolo Lord, che un giorno diventi un dottore

    Ai fratelli Marcioni, e alla Santa donna che li cresce!

    A Kiriga, finalmente a casa

    A Godfrey, e alle mamme che lo aiutavano a respirare

    A Bati, detto anche Vinavil!

    A Kendy, è vero… i wasungu fanno paura!

    A Vivian, mi dispiace

    A Enderea, e alla nonna più amorosa che conosco

    A Mugay, perché anche i bambini possono essere insopportabili!

    A Gachery e al suo cuore, resisti

    Mischak, Amadi, Timothy, Motta e Canova… nomi che avvolgono preziose storie di bambini

    CAPITOLO UNO

    Nella penombra della capanna i grandi occhi scuri di Lucy osservavano curiosi e un po’ in ansia la figura della madre.

    Era sdraiata sul giaciglio che lei e il padre dividevano di notte, piegata nella stessa posizione in cui si metteva Lucy quando aveva mal di pancia.

    La bambina sapeva che stava accadendo qualcosa di strano.

    Quella mattina non si erano svegliate alla solita ora per andare nei campi.

    La madre l’aveva svegliata quando il sole era appena apparso in cielo.

    - Lucy, vai a al fiume a prendere l’acqua, ma devi fare in fretta, quindi riempi solo una tanica, mi raccomando, non fermarti a chiacchierare con le altre bambine

    - Va bene mamma, ma stai male?

    - No, non è niente, ma quando torni dobbiamo fare un viaggio... e dobbiamo partire subito…

    Lucy non aveva capito, era abituata a non capire il mondo dei grandi.

    Si domandava di che viaggio parlasse la mamma e se lo avrebbero fatto da sole. Si guardò intorno nella piccola capanna, cercando con lo sguardo la zappa e la vanga. Non c’erano. Suo padre era quindi andato a lavorare.

    Non era mai successo che lei e la mamma andassero da qualche parte, che non fosse al fiume a prendere l’acqua o a lavare i vestiti, senza che il padre andasse con loro.

    Viaggio per lei era quello che tutti e tre facevano la domenica, con i vestiti profumati di sapone, per andare in chiesa.

    Non gliene venivano in mente altri.

    Salutò la mamma, fece passare la corda sotto la gerica e poi se la sistemò in modo che le rimanesse appesa alla testa anche senza usare le mani. Quella operazione era necessaria anche se la tanica era vuota e quindi non pesava perché, così facendo, la testa si abituava allo sfregamento della corda sui capelli corti. Si creava in questo modo un solco che avrebbe facilitato il trasporto quando la gerica fosse stata piena di acqua.

    Andare al fiume la mattina le piaceva, meglio che andarci di sera, quando le ombre della notte si allungavano minacciose dai rami spinosi delle acacie.

    La mattina le persone sono più allegre perché una nuova giornata si appresta a cominciare, la sera invece, delusi dallo scorrere del tempo sempre uguale, non hanno voglia di chiacchierare e sorridere.

    Il vociare degli uccelli mattutini era rassicurante, il loro cinguettio sempre allegro le faceva venire in mente i canti che aveva imparato a scuola.

    Per farsi compagnia e non pensare a quello che stava accadendo a casa alla mamma, si mise a canticchiare una di quelle melodie.

    Le piaceva quando la maestra faceva uscire la sua classe in giardino e li faceva cantare tutti insieme. Lucy non andava spesso a scuola, come molti dei suoi amici rimaneva per lunghi periodi a casa per aiutare i grandi del villaggio nel lavoro dei campi.

    Quando le capitava di dover tornare al fiume di sera, perché durante il giorno avevano usato più acqua, la paura si impadroniva di lei. L’imbrunire era carico di misteri. Se vedeva che la mamma non era molto indaffarata a cucinare o a sgranare le pannocchie di mais da vendere al mercato di Kathowana, le chiedeva di accompagnarla. La donna le sorrideva e, senza dire niente si caricava sulle spalle la tanica più pesante e si avviava per il sentiero intonando una canzone.

    Sua madre era speciale, Lucy lo sapeva.

    La strada che dalla loro capanna portava giù al fiume era ripida e scoscesa, gli uomini la dividevano da sempre con gli animali che andavano a dissetarsi per prepararsi all’arsura del giorno.

    Le mucche e le capre camminavano insieme, cedendosi a turno il passaggio quando il sentiero si faceva più stretto o impervio. Non avevano fretta, non dovevano andare a scuola o a lavorare nei campi, il loro lavoro era quello di mangiare il più possibile, pensava sempre Lucy. Un bel lavoro.

    I suoi piedini nudi erano esperti, si muovevano sicuri sul sentiero che portava al fiume. Potevano evitare senza che lei guardasse, i sassi appuntiti e i rami delle acacie che sporgevano spinosi proprio alla sua altezza. Conoscevano quel percorso a memoria.

    Anche quella mattina Lucy era scesa in compagnia di una piccola mandria.

    In fondo al gruppo una mucca aspettava il suo vitellino che camminava ancora incerto sulle zampe. Lucy provò ad accarezzarlo, ma lui si ritrasse impaurito e tornò all’ombra rassicurante del corpo della madre.

    Le piacevano le mucche e il padre ripeteva sempre che un giorno ne avrebbero avuta una anche loro. Nell’attesa lei si esercitava con quelle degli altri, fingendo di mungerle, quando era sicura che il pastore non la vedesse.

    Le aveva riconosciute, erano quelle della famiglia Muteti, la famiglia più ricca di tutto il villaggio. Infatti, dopo l’ultima mucca che camminava fianco a fianco del suo piccolino, c’era John, il fratello più grande della sua amica Purity, la figlia minore dei Muteti.

    Lucy la conosceva bene. Erano in classe insieme a scuola e sapeva che quella era una bambina fortunata.

    Una volta, nella sua capanna, l’amica le aveva mostrato una cosa che Lucy non si sarebbe dimenticata tanto facilmente: un pezzo di vetro strano, un pezzo di vetro nel quale vedere la propria immagine riflessa.

    Doveva essere bello possedere una cosa così. La piccola  immaginò sua madre mentre le faceva le treccine e lei, guardandosi allo specchio, decideva l’acconciatura dei capelli.

    Possedere qualche cosa non è usuale per un bambino di un villaggio dell’Africa nera.

    - Muga!

    - Kwega!

    - Come stai?

    I due bambini si incrociarono ma Lucy non si fermò, memore delle parole della mamma, non poteva perdere tempo.

    - Sto bene, ma oggi non mi posso fermare, devo fare un viaggio.

    Quelle parole provocarono un guizzo negli occhi di John.

    Il bambino buttò via il bastoncino che teneva in mano per governare le mucche e raggiunse Lucy che, nel frattempo, stava continuando la discesa verso il fiume.

    - Un viaggio? E dove?

    Lucy si sentì improvvisamente importante, John le era simpatico e le piaceva l’idea che si interessasse a lei.

    Il fatto era che lei non sapeva dove sarebbe andata.

    - è un posto segreto, ci vado con la mia mamma.

    Uno sguardo carico di curiosità.

    - E non me lo puoi dire?

    - No, se no non è più un segreto, magari te lo dico stasera, quando sarò tornata.

    - Ma sei sicura che tornerai stasera?

    Non lo era, ma non aveva mai neanche preso in considerazione l’idea che potesse essere altrimenti.

    Dove mai avrebbero potuto dormire? Certo che sarebbero tornate in serata!

    - Sì, io e la mia mamma torneremo di sicuro prima che faccia buio!

    - Va bene, ma mi devi promettere che verrai a dirmelo, io ti aspetterò, sawa?

    Lucy non credeva alle sue orecchie, era la prima volta che John parlava così a lungo con lei. Lui era uno grande, era già in terza, e i bambini di terza, specialmente i maschi, non avevano niente da dire alle bambine della nursery.

    Era veramente felice, forse quella sarebbe stata una bella giornata.

    - Va bene, stasera ti racconto.

    - Allora safari njema.

    John l’aveva salutata augurandole buon viaggio come fanno tra loro i grandi. La bambina non vedeva l’ora di vedere la sua amica Gacheri per raccontarle di quell’incredibile incontro.

    Quando la piccola tornò a casa sembrava che nulla fosse cambiato, le galline continuavano a beccare i pochi semi che trovavano per terra e un sommesso lamento proveniva dall’interno della capanna. Un raggio illuminava la porta, intravide la figura della mamma sdraiata nella stessa posizione di quando l’aveva lasciata, più di un’ora prima.

    Senza sapere perché, Lucy avrebbe preferito essere in un altro posto, magari nei campi con il padre, anche se lavorare la terra era faticoso e la sera le mani erano ricoperte di vesciche che si trasformavano in calli solo alla fine della stagione; oppure essere a scuola. Avrebbe fatto volentieri anche i conti di matematica, le addizioni, piuttosto che entrare.

    - Anche le mamme muoiono.

    Era stata chiara Ruth, la sorella più grande di Gacheri, il giorno che la malaria aveva portato via la loro mamma e il loro fratellino.

    Lucy non voleva che sua mamma morisse. Non poteva immaginare la sua vita senza di lei.

    Sapeva che stava soffrendo, la sentiva ansimare e non se la sentiva di affrontare il suo dolore.

    Si abbassò con cautela per non rovesciare l’acqua e appoggiò la tanica all’ombra dell’albero dei manghi, vicino al pollaio, una piccola capanna circolare, sospesa da terra per proteggere le galline dai serpenti durante la notte, fatta di legni intrecciati e paglia. Prese una tazza e la riempì d’acqua. Ormai era grande e non doveva avere paura di niente, il papà glielo ripeteva sempre.

    Si fece coraggio ed entrò.

    La mamma, illuminata dalla luce che filtrava dalle crepe secche delle pareti di fango, sorrise quando la vide e bevve tutto d’un sorso l’acqua che le porgeva la figlia.

    - Grazie bambina mia, ne avevo davvero bisogno.

    Nella capanna faceva molto caldo.

    - Stai meglio mamma?

    - Vieni qua piccola, ti devo spiegare una cosa.

    Lucy si rannicchiò vicino a lei. La mamma le prese la mano e se la appoggiò sulla pancia.

    - Non sono malata, aspetto un bambino…  vedrai che domani starò meglio.

    La pancia si mosse, e Lucy istintivamente ritrasse la mano spaventata.

    Un bambino africano di cinque anni conosce meglio le forme della morte che il mistero della vita.

    - Adesso dobbiamo andare, la strada è lunga e il sole è già alto.

    - ...e il papà non viene?

    - No, papà deve lavorare, altrimenti cosa mangeremo durante la stagione secca?

    - Ma dove andiamo mamma?

    - Andiamo a trovare la donna dottore.

    Aiutò la mamma ad alzarsi e a mettere il foulard sui capelli raccolti in strette treccine.

    Poi uscirono sotto l’impietoso sole dell’equatore e cominciarono il loro viaggio.

    Lucy non sapeva davvero chi fosse la donna dottore, ma si convinse che doveva essere molto, molto importante, quasi importante come Dio, perché la mamma le aveva fatto indossare il vestito che portava sempre la domenica, quando andavano in chiesa.

    Quel vestito era il regalo che il padre le aveva portato una volta che era stato in città, ed era la cosa più preziosa che avesse. Aveva il potere di trasformarla in una bambina grande che non corre e non si siede per terra.

    Faceva tutto il possibile per non sporcarlo anche se la terra rossa, trasportata dal vento, non rispettava i suoi sforzi.

    La mamma, consapevole di quanto la figlia tenesse a quel vestito, lo strofinava a fondo anche tre volte e riusciva sempre a farlo tornare nuovo ogni volta che lo lavava.

    Camminavano lentamente, vicine sotto l’ombrello colorato che la mamma usava per ripararle dai raggi infuocati.

    Avevano abbandonato il sentiero tra i baobab e si erano lasciate alle spalle la chiesa vuota e la scuola. Passarono anche accanto al grande albero sul quale lei e Gachery si arrampicavano per nascondersi quando non volevano andare a scuola.

    Lucy era rapita da quello che vedeva intorno. Non si era mai spinta così lontana da casa. Non sapeva da quante ore avevano lasciato la loro casa, ma il sole aveva cambiato posizione e ora picchiava meno forte sulle loro teste.

    Stavano camminavano sul bordo della pista, insieme a un gruppo di donne che portavano al mercato i cesti che avevano fatto intrecciando le foglie secche del banano.

    Donne nere sulla terra rossa.

    La mamma camminava più lentamente del solito,  sorretta a turno dalle altre compagne di viaggio.

    Nessuna badava alla bambina che si sentiva in colpa per non poter essere di aiuto.

    Rallentò ancora il passo fino a farsi superare da tutto il gruppo e osservò la figura della madre da dietro, cercando di capire che cosa le stesse succedendo.

    - Lucy tesoro, sei stanca?

    Si affrettò a raggiungerla

    - No, ma posso aiutarti io a camminare, mamma?

    Finalmente una delle donne sembrò accorgersi di lei e le sorrise

    - Non preoccuparti piccina, la tua mamma sta bene, ha solo bisogno di togliersi un gran peso!

    Tutto il gruppo, compresa sua mamma, rise alle parole della donna. Lucy non aveva capito il senso di quella frase, ma ora che vedeva la mamma ridere si sentiva più sollevata.

    Alfred era uno dei pochi uomini dell’ospedale con i quali valesse la pena di lavorare.

    Questo era solo il parere di una donna. Ma si dà il caso che la donna in questione fosse Izuba e nessuno al St. Ann hospital, metteva mai in discussione il parere di Izuba.

    Nessuno, a parte, naturalmente, lo stregone del villaggio.

    Non era stato facile per lei, donna e per di più straniera, conquistare il rispetto e la considerazione del personale ma, aiutata da persone come Alfred, l’infermiere che aveva studiato in città, aveva presto vinto la diffidenza iniziale, diventando il punto di riferimento per molta gente, sparsa nei villaggi della savana.

    Era una donna medico, con cinque figli, un marito ingegnere che aveva rinunciato alla carriera  per lasciare spazio alla sua, e una guerra civile alle spalle.

    Le difficoltà l’avevano aiutata a sviluppare una particolare sensibilità verso le persone, dote indispensabile nel suo lavoro.

    - Prednisolone per le infezioni intestinali, amoxicillina per i post operatori…

    Alfred stava riempiendo il carrello dei medicinali per il giro visite del giorno dopo.

    Era un compito noioso, si trattava, infatti, solo di riempire i barattoli con le pastigliette colorate. Ma lui sapeva che era un lavoro importante e lo svolgeva nel migliore dei modi.

    L’ordine e il metodo sono le basi della medicina.

    - Chinino per la malaria…

    Dopo un attimo di esitazione aggiunse altre pastiglie nere al barattolo che era già ricolmo.

    La stagione delle piogge era finita da circa un mese e di lì a pochi giorni l’ospedale sarebbe stato invaso da persone, soprattutto bambini, malati di malaria. Meglio non essere avari con le medicine, anche se la suora incaricata di amministrare i conti dell’ospedale, non la pensava così.

    Quella mattina aveva indetto una riunione speciale per parlare della difficile situazione finanziaria dell’ospedale.

    - I pazienti non pagano e noi non possiamo permetterci i farmaci... quindi non esagerate con le prescrizioni...

    Pagare i conti? La maggior parte delle persone che vivono in quel distretto non avevano neanche di che sfamare le loro famiglie, difficile pretendere da loro, a titolo di pagamento, più di qualche gallina o una capra macilenta.

    Era una cosa delicata, Alfred si rendeva perfettamente conto che, senza soldi, era praticamente impossibile mandare avanti una struttura come quella.

    Scosse la testa, e si concentrò sul lavoro. Non era compito suo trovare una soluzione.

    Chiuse il cassetto  e un  segno di disappunto si dipinse sul suo viso quando lo sguardo si posò sul ripiano principale del carrello. C’era una tale confusione che sarebbe stato impossibile usarlo il giorno dopo.

    Siringhe usate mischiate a quelle nuove ancora sigillate, pastiglie sfuse delle quali era impossibile risalire all’utilizzo, guanti e garze ovunque senza un criterio.

    Pazienza, la pausa delle cinque avrebbe dovuto aspettare ancora, non poteva sopportare quel disordine.

    L’ospedale era tranquillo, non c’erano pazienti gravi e praticamente tutto il resto del personale era riunito nella saletta degli infermieri a bere il cahy, il tè con il latte, la bevanda tradizionale del paese.

    Dall’ambulatorio accanto arrivavano, attutiti dalla porta chiusa,  i lamenti sommessi di una giovane donna che stava per partorire.

    Era arrivata da poco, in compagnia di una bambina.

    Non mancava molto al momento del parto, ma Alfred non si preoccupava, a vegliare su di lei c’era Grace, una ragazza giovane ma molto competente, che era appena stata assunta.

    E poi, Izuba era pronta ad assistere la partoriente.

    Mentre si lavava le mani, Izuba guardò fuori dalla finestra.

    Era stata una bella giornata, ma questa non era certo una novità né rappresentava necessariamente una bella notizia. Era iniziata la stagione calda e la temperatura in quel periodo dell’anno poteva raggiungere anche i quarantacinque gradi.

    Il sole, anche se ormai era quasi sera, era una palla incandescente nel cielo.

    La dottoressa non poté fare a meno di pensare al suo paese e al clima fresco e temperato della sua città natale, tra le colline.

    Un paese così vicino, eppure così lontano da quello in cui si trovava ora e che, con gli anni, era diventato la sua casa. Per un attimo, ma fu ben attenta che non durasse più di un attimo, indugiò al pensiero di un tempo che ormai, le sembrava lontanissimo.

    Il suo cuore affaticato dal dolore era affollato di presenze, ma dopo tanto tempo e tanto dolore la mente permetteva solo il ricordo dei vivi.

    Per soffrire meno aveva deciso di concentrare il ricordo sui suoi cari ancora vivi: il padre, con il suo carattere scorbutico, la sorella preferita e la complicità che le legava.

    Pensare a loro leniva il dolore e riempiva il vuoto che sentiva per gli altri scomparsi. In particolare il sorriso caldo della madre, il cui ricordo era stato consegnato alla dolcezza della malinconia e alle cure del tempo.

    Non era una forma di rimozione, la rimozione del dolore patito impedisce di vivere le gioie presenti, ma era un argine consapevolmente eretto per impedire di essere travolti dalla piena delle emozioni.

    Cosa c’era in quella giornata che la faceva essere così malinconica, lei che in genere era una donna pratica e concreta, non avrebbe saputo davvero dirlo.

    - Daktari ci siamo, credo che sia il momento.

    - Va bene, grazie Grace, arrivo.

    Ringraziò di cuore  la donna che stava per partorire che l’aveva riportata al presente.

    Sarebbe stata la sesta nascita della giornata, niente male considerando che il sole doveva ancora tramontare.

    Non vi era niente al mondo di più gratificante che aiutare una donna a diventare madre.

    Amava la naturalezza di quel momento.

    Izuba aprì il paravento che avevano creato lei e Alfred utilizzando le reti di vecchi materassi.

    Voleva che Agata, questo era il nome che la donna le aveva sussurrato poco prima, con un filo di voce tra una contrazione e l’altra, fosse tranquilla e a suo agio, per dare il meglio durante il parto.

    Pensava anche che la donna che aveva partorito meno di un’ora prima non avesse voglia di rivivere per la seconda volta il dolore del parto.

    Controllò il carrellino sul quale Grace aveva sistemato tutto l’occorrente. Era sicura che la giovane infermiera avesse fatto un buon lavoro, ma lei voleva sapere esattamente dove si trovava ogni cosa, così da poterla raggiungere rapidamente senza doversi voltare.

    C’erano l’ago e il filo di sutura, nel caso dovesse mettere dei punti interni, il disinfettante, le garze, la molletta per fermare l’emorragia dopo il taglio del cordone ombelicale, le gocce per prevenire infezioni agli occhi, e una coperta in cui avvolgere il bambino.

    Agata sudava ma non si lamentava, faceva dei lunghi e profondi sospiri come le suggeriva Grace, chinata accanto a lei.

    - Non ti preoccupare Agata, tra poco abbraccerai tuo figlio.

    - Mmmm.

    La mano pulita e morbida di un medico su quella ruvida e callosa di una contadina.

    Izuba si mise il camice e i guanti.

    Non le piaceva fare nascere i bambini indossando i guanti, il lattice, così freddo e impersonale, non era il miglior modo di dare il benvenuto nel mondo a una nuova persona.

    Era tuttavia una pratica necessaria.

    Le donne sieropositive in quella regione stavano aumentando in modo esponenziale e il rischio di venire contagiati durante l’assistenza al parto era alto.

    Se Agata fosse venuta prima in ospedale e fosse stata seguita da loro durante la gravidanza, avrebbe fatto il test e, in caso fosse risultata sieropositiva, avrebbe potuto cominciare il trattamento per lei e per il piccolo non ancora nato.

    Izuba non si sentì di biasimare la ragazza, Grace le aveva detto che era arrivata da molto lontano, accompagnata solo dalla figlioletta di cinque anni. Non ci si può sempre aspettare il comportamento più ragionevole dalle persone.

    Spesso bisogna piegare la logica alle necessità della sopravvivenza.

    Si ripromise di parlare con la giovane donna della possibilità di fare in seguito il test per l’hiv.

    - La temperatura della mamma è buona

    Grace sfilò dall’ascella di Agata il termometro.

    - Bene. Il battito del piccolo?

    - Ora controllo.

    - Mmm … Lucy…

    La voce era un sussurro affaticato.

    - Lucy?

    Izuba guardò con aria interrogativa l’infermiera, poi fece correre lo sguardo veloce intorno a lei e la vide.

    Meglio, vide due enormi occhi neri sbarrati che fissavano la scena.

    Si accorse solo in quel momento che un altro respiro affannoso accompagnava quello della partoriente.

    Era la bambina. Lo spavento per quello che vedeva e non capiva l’aveva incollata alla parete della stanza.

    - Grace per favore…

    - Sì, certo, il battito?

    - Lo controllo io, grazie, tu porta Lucy a fare un giro fuori, ti dispiace?

    Sorrise alla bambina, invitandola a seguire l’infermiera che le porgeva la mano.

    - è davvero una bella bambina.

    Disse Grace rivolgendosi alla mamma.

    - Mmm… è brava…è venuta con me fino a qui…

    - Ora Agata ascolterò ancora una volta il battito del piccolo, poi dovrai essere pronta a spingere…

    - Mmmm

    Izuba prese, senza voltarsi, il cono dal carrello e lo appoggiò delicatamente sulla pancia enorme che si alzava e abbassava con i pesanti sospiri della donna.

    In silenzio, concentrata, contò mentalmente quanti battiti sentiva in quindici secondi.

    Ogni piccolo colpo che il cuoricino del nascituro batteva, era il segnale per avvisare il mondo del suo imminente arrivo.

    Aiutò Agata a prendersi le caviglie con le mani, una posizione che avrebbe facilitato le spinte, poi le sistemò un altro cuscino dietro la testa.

    Fece tutti questi movimenti lentamente, canticchiando una canzone per rilassare la donna.

    - Quando senti la prossima contrazione devi spingere più forte che puoi, va bene?

    - ...mmmm…

    Introdusse delicatamente ma con decisione due dita nella vagina ormai completamente dilatata e incontrò subito la testolina del bambino.

    - … mmmm…

    - Brava Agata...

    - … mmm.

    - Sukuma mtoto, sukuma…

    - …  mm…

    Una testa piena di capelli neri umidi fece capolino.

    Izuba introdusse tutta la mano per aiutarla a trovare la strada giusta per uscire.

    - Sukuma…

    Niente grida, ma con un ultimo, sofferto sospiro della madre, il bambino venne al mondo.

    Due mani grandi lo tennero sospeso a testa in giù per qualche secondo, colpendogli delicatamente la schiena.

    - è ora di respirare da solo… forza piccolo.

    Una creatura arrabbiata cominciò a farsi sentire piangendo, strappando un sorriso tirato al volto sofferente di Agata.

    Izuba lo adagiò sul telo verde che aveva sistemato sul letto.

    - Benvenuto tesoro…

    - è un maschio, un bel maschietto

    Intanto Grace che era rientrata in silenzio nella stanza, si preparò a tagliare il cordone ombelicale bianco e arrotolato, l’ultimo legame con il mondo del prima.

    Pulirono con cura il neonato dal sangue della madre e dal liquido della placenta e lo posero sulla bilancia.

    Il bambino protestò ancora, voleva conoscere la sua mamma.

    - No, no, piccolo, va tutto bene…

    - Tre chili e settanta

    - Un peso perfetto Agata, hai fatto davvero un buon lavoro!

    Naturalmente era ancora presto per chiedere ad Agata come si chiamava suo figlio. Nessuno da quelle parti dava un nome ai neonati almeno per il primo mese di vita. Era inutile: il rischio che se ne andasse per colpa delle malattie o per una inadeguata alimentazione era molto alto.

    Solo dopo una trentina di

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