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La culla di pietra
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E-book199 pagine2 ore

La culla di pietra

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Info su questo ebook

L’amore quando arriva lascia sempre una traccia. Anche quando sembra essere andato via per sempre, il suo passaggio inesorabilmente segna la nostra anima. Questo lo sa bene Lucilla, una bambina che vive in Friuli, nel piccolo paese di Portis, e da quando la mamma si è ammalata i suoi genitori non vanno più d’accordo come un tempo. Una sera tutto cambierà per sempre e niente sarà più come prima. Il latrato irrequieto di un cane, un sordo boato come un tuono lontano, poi il buio e il silenzio assoluto. È giovedì 6 maggio 1976 e alle ore 21.00 uno dei terremoti più violenti che ha colpito il nostro Paese cambierà la vita di Lucilla e quelle di tante altre famiglie italiane. 
Dopo circa quarant’anni il destino riporta un gruppo di sei amici in vacanza a Lignano Sabbiadoro proprio sul luogo delle macerie, dove si odono le voci di una bambina e una dolce melodia che annullano la distanza tra passato e presente e scopriremo che l’amore, anche se a volte si nasconde, da qualche parte resta...
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2017
ISBN9788856784404
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    Anteprima del libro

    La culla di pietra - Lamberto Aroli

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8440-4

    I edizione elettronica luglio 2017

    "Sai essere luce che ravviva

    O buio che inghiotte

    Sai essere i raggi del sole

    O l’oscuro della notte."

    (L. Aroli)

    L’alveo di un fiume.

    Una distesa di ghiaia bianca larga centinaia di metri dove qua e là scorrono placide lingue di acqua del colore dei litorali caraibici. La chiamano anche la spiaggia dei poveri, quest’oasi di pace che scorre fra due montagne e che poco più a sud si allarga nella pianura che porta al mare.

    Dagli arbusti e dai cespugli che delimitano questo paradiso, una bambina scende con prudenza in questo greto marmoreo.

    Ha un vestitino color crema, sembra quasi un bianco sporco. I suoi capelli lisci e neri scorrono lunghi dietro la schiena, e un cerchiello bianco con un piccolo girasole spicca nel sole di una calda giornata di maggio.

    Al petto, con una manina, stringe una bambola di pezza dal visino sorridente, dai capelli biondi raccolti in due lunghe trecce. È un regalo che il suo papà comprò poco tempo prima che lei nascesse, in America, dove si era trasferito con la mamma per lavoro, come tanti altri emigranti, giovanissimi, a metà degli anni Cinquanta.

    In Pennsylvania, nel 1961, avevano già dato alla luce un’altra bambina, la sua sorella maggiore. L’avevano chiamata Rachele, un po’ per tener fede alle radici italiane, ma anche per ricordare il nome di quella chiesetta del paesello da cui provenivano. È vero che la chiesetta di quel piccolo borgo in riva al fiume portava il nome di San Rocco, e trovare un nome femminile simile al devoto non si rivelò cosa agevole, ma erano così tanto affezionati al luogo nel quale erano nati, nel quale si erano conosciuti da bambini e che aveva visto nascere la loro storia, che non poterono fare altrimenti.

    E in quel paesello erano tornati, appena le condizioni lo avevano permesso, poco dopo la metà degli anni sessanta.

    E nel 1968 nacque lei, Lucilla.

    La luce.

    Quella luce che brillò come un miracolo. Durante la gravidanza la madre si ammalò gravemente, mettendo a serio repentaglio la salute della bimba in grembo, a tal punto che si temette spesso di dover interrompere la gestazione per il timore di dover perdere in un sol colpo mamma e figlia. Ma alla fine la vita e l’amore ebbero il sopravvento. Lucilla nacque prematura ma in salute. Il calore dei suoi genitori e della sua sorellina l’accompagnarono incessantemente nella sua crescita, ma la grave forma di depressione che aveva colpito la madre durante e dopo il parto e che non l’aveva più abbandonata, creò lentamente in lei un guscio dal quale di rado usciva qualche parola. Si era calata in un’introversione che non aveva nulla di cattivo, anzi, era sempre dolce e disponibile, e non lasciava trapelare la sofferenza di quella sorta di simbiosi che si era creata con la madre.

    Perché poco dopo la sua nascita le cose avevano cominciato a cambiare.

    Il turbamento della mamma, che la divorava come un cancro, portò gradualmente a incrinare il rapporto tra i suoi genitori. Il padre, dapprima tenero e comprensivo, mutò lentamente, col passare del tempo, il suo atteggiamento amorevole in intollerante, scivolando a sua volta in una spirale di alcool e nervosismo. Ormai non passava giorno che anche una futile circostanza sfociasse in un litigio, con le consuete conseguenze. Per Lucilla e Rachele non aveva importanza chi avesse torto o ragione, o di chi fossero le colpe, o se fosse meglio stare da una parte piuttosto che dall’altra. Per Lucilla soprattutto, il tormento derivava dal pensiero che se una coppia di persone si era tanto amata, tutto non potesse trasformarsi in un inferno così, senza trovare, e forse senza neanche cercare, una soluzione.

    L’amore si era solo nascosto. Da qualche parte rimaneva.

    Era con questi pensieri di fanciulla innamorata della vita e dei propri genitori che Lucilla scese il breve pendio che la separava dal greto del fiume dirigendosi a piccoli passi verso il corso d’acqua. Poco più indietro, l’inseparabile sorella procedeva sullo stesso passo, con lo sguardo tenero fisso sulla sorellina. Andavano spesso nell’alveo del Tagliamento, che era poco distante dalle case e che veniva diviso solo dalla striscia di binari della ferrovia che da Udine sale verso Tarvisio. Qualche volta fungeva da rifugio, lontano dal chiasso della loro casa, altre volte per conciliare quel silenzio che dominava la loro abitazione dopo l’ennesimo diverbio tra la loro mamma e il loro papà.

    Era giovedì, e quel caldo afoso, di gran lunga superiore alla norma, invitò la bambina e la ragazzina a togliersi scarpe e calzini e a sentire il refrigerio delle fresche acque basse del fiume, che strapparono un sorriso alla più piccola.

    – Vedrai Lucilla – Rachele gli accarezzò i capelli sorridendo a sua volta – tutto si sistemerà... da qualche parte rimane, no? – aggiunse sostenendo la tesi della sorellina, poi cambiò rapidamente argomento: – Com’è andata a scuola stamattina?

    Lucilla si oscurò un attimo.

    – Giulio mi ha preso in giro di nuovo...

    Lucilla era di un’intelligenza acuta e di un comportamento esemplare, ma per i bambini della sua stessa età non erano concepibili i suoi lunghi silenzi e l’isolamento che si era costruita.

    Appariva ai loro occhi come una specie di strega, con chissà quali poteri paranormali e sentimenti macabri.

    Rachele sorrise ancora e non aggiunse altro, ormai con la sorellina si capivano a sguardi e non serviva aggiungere altro a una situazione che era diventata usuale. Infatti anche Lucilla rispose con una risatina e continuò a giocare coi piedini nell’acqua. Rachele si chiese se davvero mai si sarebbe sistemato tutto mentre guardava la bambola che pochi anni prima era stata un gesto d’amore, quell’amore che da qualche parte doveva esser celato ma che non poteva essersi dissolto nel nulla.

    Da qualche parte sarà finito, bisogna solo sapere dove poter cercare.

    Glielo ripeteva spesso la sua sorellina.

    Come la canzoncina registrata sul dischetto nel petto della bambola. Lì al centro.

    Dove c’era il cuore.

    Bastava premere leggermente ed usciva la melodia di una filastrocca tradizionale britannica...

    Ring around to Rosy, a pocket for a poesies, ashes, ashes, we all fall down...

    In cerchio intorno a Rosy... una tasca per delle poesie... polvere, polvere, tutti giù per terra...

    Il silenzio, quella sera, si era allargato fino ad introdursi anche nelle mura della loro casa.

    Certo, non era il silenzio pacifico del fiume.

    Durante tutto il corso della cena il padre si era limitato ad alzare gli occhi dal piatto solo per guardare la TV che dava il notiziario. A parte la voce proveniente dall’apparecchio e il rumore di stoviglie, nulla. La madre, abbozzando dei sorrisi, cambiava i piatti sulla tavola.

    Stava sciacquando gli ultimi piatti quando il padre si alzò e, senza dire una parola, uscì dalla cucina, s’infilò una giacca leggera e uscì di casa. Senza neanche accennare un saluto. La madre rimase china sul lavabo. Forse stava anche singhiozzando.

    Siamo arrivati a questo, pensò Rachele, seduta ancora a tavola, e guardò Lucilla, seduta accanto a lei, fissa con gli occhi sul televisore.

    – Vieni Lucilla, andiamo di sopra.

    La prese dolcemente per la manina, quella libera, visto che l’altra era immancabilmente impegnata a tenere la sua inseparabile bambola. La madre si girò in maniera appena percettibile e sorrise loro. Aveva gli occhi gonfi di dolore, ma il cuore colmo d’amore per quelle due bambine.

    Rachele e Lucilla si lasciarono alle spalle la cucina. Nell’atrio, un attimo prima di salire le scale che portavano di sopra, Rachele guardò per qualche secondo la porta d’entrata da dove il padre era uscito pochi minuti prima, con un senso d’impotenza. Si voltò e prese a salire verso le camere da letto, seguendo la sorellina.

    Fuori era appena calato il buio e nella cameretta delle bambine la luce tenue di una lampadina di scarsa intensità illuminava Rachele seduta a una scrivania, intenta a studiare.

    O quantomeno a tentare di studiare.

    O meglio ancora, ad illudersi di studiare.

    Perché Rachele aveva terminato le scuole Medie da un anno, ma la situazione familiare non le permetteva di andare in città per iscriversi a un Istituto Superiore. Continuava a coltivare la speranza che a breve quel sogno si sarebbe realizzato e intanto studiava con i libri di agraria dell’anno prima che le procurava sua cugina Giulia, più fortunata di lei. Questo quando non andava nei campi con gli zii.

    Quella sera, però, non riusciva proprio a concentrarsi e spesso lo sguardo andava verso la sorellina, seduta sul bordo del letto, le gambette penzolanti, che cullava o coccolava la sua amata bambola. Ogni tanto scorgeva Lucilla che parlava al suo pupazzo, dolcemente e pazientemente.

    Gli raccontava dell’amore.

    Di quello vero.

    Di quello che non finiva o cessava di esistere, ma che semplicemente si nascondeva, chissà, forse per imbarazzo.

    Non poté trattenere un sorriso.

    Era tornata a tentare di riflettere su cosa stava leggendo quando la sua attenzione fu richiamata dall’abbaiare di un cane, poco lontano da lì. Non era raro sentir latrare Bujo, il pastore tedesco dei Gollino che abitavano due case più in su, verso l’uscita del paese. Anche se stavolta il cane dava l’impressione di abbaiare in maniera un po’ più irrequieta.

    Rachele non ebbe il tempo di pensarci che la sedia le scivolò improvvisamente da un lato. Le vetrate della finestra vibrarono, un’imposta batté sul muro per poi chiudersi. Dalla mensola sopra la scrivania cadde un’automobilina portamatite. Rachele fece in tempo a vedere il letto a castello ondeggiare con Lucilla apparentemente indifferente al trambusto. Pochi secondi dopo la stanza era al buio.

    E tutto tornò fermo.

    Rachele si scoprì fissa a tenersi alla scrivania, immobile. Le nocche le erano diventate bianche dalla tensione con la quale stringeva gli angoli del mobile. Fuori, la fioca luce della notte veniva rotta dai fari di una torcia elettrica e da alcuni voci concitate. Bujo abbaiava ancora, ma quasi con rassegnazione. La ragazzina guardò in direzione della sorellina, ancora ferma ai bordi del letto, nell’oscurità, così come l’aveva vista pochi minuti prima. Ancora in preda al disagio e mentre cercava una spiegazione dell’accaduto, sentì dei passi veloci risalire le scale di legno. La porta della cameretta si spalancò. Sua madre entrò cautamente, teneva in mano una vecchia lampada a gasolio.

    – Vi siete spaventate? – non suonava come una domanda, ma più come una considerazione – era una scossa di terremoto...

    Era visibilmente turbata, ma nonostante questo manteneva un atteggiamento rassicurante.

    – Siamo in Friùli – aggiunse con un sorriso un po’ tirato – questa terra non è nuova a scuotimenti, ci farete l’abitudine, col tempo.

    Estrasse dalla tasca del grembiule un lumino, di quelli con la plastica rossa, che si mettono sulle lapidi.

    – Non è il massimo dell’allegria, lo riconosco – e sorrise a Rachele, ancora impietrita alla scrivania. – La luce tornerà a breve, vedrete... intanto illuminatevi un po’ con questa, è tutto quello che sono riuscita a trovare oltre a questo vecchio rudere – disse indicando la lampada e porgendo dei fiammiferi alla figlia più grande.

    – Papà...

    La vocina di Lucilla era priva di tono, ma in quelle quattro lettere si leggeva un libro.

    – Tra pochissimo rientrerà – lo disse con dolcezza e lo sguardo si voltò verso Rachele – tieni tranquilla la piccola e falla addormentare. Son quasi le nove e domattina ha scuola... – baciò delicatamente sulla fronte le due bambine e i suoi passi sulle scale tornarono a sentirsi, questa volta in maniera più tranquilla.

    Rachele si sbloccò come d’incanto, abbozzò un atteggiamento disteso e accese il lumino.

    – Adesso vedrai che luce! – e Lucilla sorrise divertita nel debole chiarore tremolante della fiammella.

    – Guarda! – Lucilla indicò le ombre che la fiamma rifletteva ingigantite sulle pareti. Danzavano all’oscillare della fiamma e tanto bastò a scatenare il suo riso. Rachele si lasciò contagiare da tanta ilarità e iniziò ad accennare un’improbabile danza delle ombre.

    Accadde tutto troppo velocemente.

    E allo stesso tempo fu interminabile.

    Un sordo boato, come un tuono lontano che rapidamente aumenta fino a circondarti. I vetri della finestra si frantumano. Con le ombre oscillano anche le pareti. Un sinistro scricchiolio accompagna quel rombo cupo. Le ante dell’armadio si aprono e chiudono sbattendo, dal soffitto comincia a piovere polvere.

    Rachele non riesce a stare in piedi, si attacca in ginocchio al pavimento che non smette di oscillare, la polvere gli impedisce di vedere Lucilla.

    Abbandona la testa sul pavimento impazzito.

    Perché questo tuono non smette più?

    Perché questo maledetto tuono non smette più??

    Silenzio.

    Buio.

    Quiete.

    Qualche flebile lamento, in lontananza.

    Polvere, tanta polvere.

    Dalle macerie di quel che resta di una casa di Portis, si sente uscire soffocata una melodia.

    Ring around to Rosy, a pocket for a poesies, ashes, ashes, all fall down...

    Erano passate da poco le 21 di giovedì 6 maggio 1976.

    Lignano Sabbiadoro, agosto 2013

    Franco è sdraiato di schiena, sotto il sole cocente di fine mattina.

    Non ne avrebbe bisogno. Mani dietro la nuca, il suo fisico scultoreo di Fitness Manager è abbronzato dodici mesi l’anno. Ma per la cura e bellezza del proprio corpo ha una fissazione quasi maniacale. E non potrebbe essere altrimenti, considerato l’avveniristica Palestra Body Center che dirige a Milano.

    Si alza sui gomiti, mettendo in evidenza i suoi curati addominali, s’infila i Ray-Ban e guarda verso il bagnasciuga.

    Sonia e Chiara stanno giocando col pallone da volley, Federico e Leo, poco più avanti, coi piedi in acqua, stanno scambiandosi un’animata ma allegra conversazione. Morgana è seduta in disparte, apparentemente rapita da chissà quali pensieri.

    Sono un gruppo di amici arrivati a Lignano per passare una settimana insieme, una full-immersion nell’allegria spensierata di come quando erano dei ragazzini che si erano appena conosciuti. Amici lo sono rimasti, ma la vita, giorno dopo giorno, ti assorbe la serenità, e rapisce ogni giorno in più un po’ del tuo tempo. Federico era diventato un tecnico dell’immagine ed era sempre alle prese con montaggi video. Sonia era impiegata nell’ufficio marketing di una multinazionale, Chiara, laureata in lingue, lavorava nella hall di un hotel sul lago di Como. Morgana era da poco tempo barista in un noto bar del centro di Milano. Leo era in un magazzino di una grossa ditta, con un capannone in periferia. Con la sua passione per la recitazione che l’aveva portato a calcare teatri gli capitava di incrociare Federico, ma a parte questo, ognuno aveva intrapreso la sua via.

    L’affetto che li legava non impediva che si incontrassero di tanto in tanto, magari un sabato sera, ma da tempo non si riunivano tutti insieme per un periodo lungo e la settimana

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