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Piange la mia anima: Violenza in famiglia - una figlia racconta
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E-book257 pagine4 ore

Piange la mia anima: Violenza in famiglia - una figlia racconta

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Info su questo ebook

Una bambina descrive in modo toccante e diretto quello che avviene nel suo intimo mentre, per anni, vive situazioni di violenza nella propria famiglia. La pressione, la preoccupazione, il dolore sono enormi. Lo stress mentale, l’assenza di protezione e amore, esercitano un effetto traumatizzante sullo sviluppo della bambina. Eppure appare evidente quanto siano naturali per lei l’amore per i propri genitori e il comportamento leale, qualunque cosa accada. Che questa realtà chieda alla bambina un prezzo elevato, si manifesta nel pericolo che le strategie di gestione delle situazioni e i meccanismi di protezione si trasformino, col tempo, in gravi disturbi psichici.
LinguaItaliano
EditoreAthesia
Data di uscita17 dic 2015
ISBN9788868391492
Piange la mia anima: Violenza in famiglia - una figlia racconta
Autore

Monika Habicher

Monika Habicher, nata nel 1987, ha studiato pedagogia sociale all’università di Bolzano-Bressanone. Da anni, i suoi punti tematici centrali sono la violenza nella famiglia, le dinamiche e le conseguenze psicosociali alle quali sono esposti i bambini. Nella sua quotidianità professionale l’autrice accompagna prevalentemente bambini e giovani in situazioni di disagio. Monika Habicher è fondatrice e presidentessa dell’iniziativa “Meine Seele weint/Piange l’anima mia”.

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    Anteprima del libro

    Piange la mia anima - Monika Habicher

    Maltrattati nella propria famiglia,

    ignorati dalla società!

    Indice

    Prologo

    Prefazione

    Introduzione

    Primo

    Secondo

    Terzo

    Quarto

    Quinto

    Sesto

    Epilogo

    Alcune considerazioni

    Prologo

    Nell’ambito della mia attività di esperta in pedagogia sociale, incontro ogni giorno bambini e giovani in situazioni critiche che sono all’origine di disturbi emozionali e affettivi, di diverse forme di aggressività o auto-aggressività e persino di totale perdita di controllo. Molti di loro non sono in grado di descrivere a parole quel che accade nel loro intimo, che cosa li spinga a comportamenti che forse non vorrebbero neppure adottare. Nell’ambito sociale riscontro sovente mancanza di comprensione a questo riguardo. Non sarà mica un modo di comportarsi!, oppure Quelli, in fin dei conti, stanno troppo bene! sono frasi che mi giungono frequentemente alle orecchie. I più non conoscono l’origine di questo problema; non si rendono conto di quali dolorosi antefatti si celino dietro determinate forme comportamentali. La mancanza di comprensione intensifica ulteriormente il problema, poiché la persona colpita si sente respinta, anziché presa in considerazione, accolta o sostenuta. Il bambino, poi, è ancora comunicativamente limitato, soprattutto se la causa del problema si trova in seno alla propria famiglia, dove non ha mai imparato a parlare di problemi o, più semplicemente, non c’è chi lo ascolti. Esiste, spesso in sovrabbondanza, stampa specializzata per quasi tutti i temi pedagogici e psicologici, ma per il profano, per chi non sia provvisto di una preparazione specifica, questo tipo di letteratura è sovente incomprensibile, come se si trattasse di una lingua sconosciuta. Per questo motivo voglio offrire, sia ai profani che agli addetti ai lavori una visuale della vita dell’anima di un bambino sottoposto a situazioni di stress. Voglio illustrare l’origine di determinate problematiche e le dinamiche che ne possono scaturire. Aspetto positivo dell’argomento: esistono diverse forme di terapia, ma non posso nascondere che riprogrammare un’anima, vittima di esperienze traumatiche, è una vera e propria impresa.

    Il tema della violenza occupa una posizione eminente ed è onnipresente nei media: eppure talvolta ho la sensazione che i messaggi non raggiungano del tutto la sfera consapevole del pubblico. Disponiamo di un gran numero di cifre e statistiche, ma in realtà il problema non ci tocca realmente. Una volta, alle scuole superiori, un mio compagno mi ha deriso perché avevo dichiarato che in Alto Adige sono molte le famiglie in seno alle quali il comportamento violento tra i singoli membri è all’ordine del giorno; che esistono famiglie in cui si esercita repressione su alcuni dei membri. Il mio compagno disse che probabilmente guardavo troppi programmi televisivi.

    I numeri si relativizzano. Il problema maggiore in Alto Adige è che il pudore di parlare liberamente di problemi, soprattutto di quelli familiari, è sempre ancora molto radicato. Ritengo sbagliato che nella nostra società passi per educazione non intromettersi nei problemi degli altri. Ne risulta che la violenza, sia essa fisica, psicologica, sessuale o il condizionamento finanziario, passino sotto silenzio e proteggano in tal modo i colpevoli, offrendo loro, in un certo senso, un lasciapassare per il loro agire. Quando un episodio molto grave viene reso pubblico, sono in molti a sostenere che loro lo sapevano da sempre. A questo punto mi domando – e la cosa mi rattrista – come mai nessuno sia intervenuto prima. La struttura delle campagne di sensibilizzazione è poco efficace: con slogan sensazionalistici si citano numeri e fatti e si sottolinea la necessità di agire. I numeri, però, si dimenticano in fretta e raramente ci toccano il cuore. Ma proprio questo sarebbe indispensabile per produrre dei cambiamenti.

    Quali opportunità sono date a un individuo la cui fiducia è stata spezzata sin dall’inizio? Come può stabilire una relazione, vivere felice e sereno, riporre fiducia nel prossimo, l’individuo del quale è stata mutilata per sempre l’anima nella propria famiglia, in seno alla quale dovrebbe trovare, invece, protezione e sicurezza? La parola mutilazione non è casuale. Per la persona colpita, le conseguenze a lungo termine sono disastrose. Le ferite fisiche guariscono, rimangono però quelle emozionali che sono irreversibili.

    Ecco, ora, un altro aspetto spesso sottovalutato: anche se la violenza fisica colpisce direttamente un solo membro della famiglia (violenza tra partner o simili), la pressione psicologica è pur tuttavia immensa anche per il resto della famiglia. Per molto tempo, la pressione esercitata indirettamente, soprattutto sui bambini testimoni di atti di violenza attiva o passiva, non è stata riconosciuta e presa in considerazione neppure dagli esperti. La responsabile di un corso nell’ambito di un incontro specialistico per case di tutela della donna, ha dichiarato che uno dei metodi di tortura più crudeli durante la guerra, era di costringere la vittima ad assistere al maltrattamento di una persona cara. Alla luce di questa informazione, si pensi alla situazione di un bambino che deve assistere, spesso regolarmente, alla violenza tra i genitori.

    Per i motivi ora citati voglio illustrare una storia tutt’altro che indefinita. Il protagonista è un individuo, una bambina, una persona concreta. Ho deciso di muovere questo passo per rappresentare tangibilmente la violenza in famiglia. Per molte persone in Alto Adige come nel resto del mondo, questa è una realtà all’ordine del giorno. È un dato di fatto che – a dispetto dell’attività dei servizi sociali che offrono sostegno a molti bambini e adulti – rimangano sempre ancora nascosti troppi destini di persone maltrattate nelle famiglie, ma trascurate dalla società.

    Questo libro non intende riferire realisticamente i fatti descritti: è possibile che la cronologia del seguente racconto non corrisponda al cento per cento alla sequenza reale dei fatti, data la mancanza di una documentazione precisa a riguardo. È altresì possibile che i ricordi della prima infanzia siano stati confusi con racconti di altre persone. Ciononostante ho deciso di offrire una documentazione in base alla mia personale percezione poiché le sensazioni/sentimenti e le conseguenze personali che ne sono nate, erano reali sin dall’inizio.

    Prefazione

    Niente e nessuno potrà mai giustificare il comportamento violento o abusante di un uomo nei confronti di un bambino né di una donna all’interno e all’esterno delle mura domestiche

    I traumi piscologici, le ferite dell’anima di un bambino, vittima di violenza e trascuratezza, non guariranno mai. Si potranno chiudere, superare, elaborare attraverso lunghe terapie; ma guarire mai. Noi del Consultorio per Uomini della Caritas (Caritas Männerberatung) abbiamo iniziato a occuparci del tema alcuni anni fa guardando la complessità del problema da un’altra prospettiva e cioè quella dell’uomo.

    Nessun tipo di giustificazione nei confronti di chi agisca violenza (Täter) o minimizzazione del suo comportamento ma un tentativo di offrire a questi uomini uno spazio dove affrontare il loro problema e la loro incapacità di gestire la rabbia. L’obiettivo del nostro Training Antiviolenza, attivato nel 2011, è quello di aiutare questi uomini a riflettere su sé stessi affinché assumano la responsabilità delle proprie azioni e sviluppino una maggiore consapevolezza relativa al proprio comportamento violento. Quando parlo con gli uomini del lavoro che faccio, c’è sempre una reazione di distanza da ciò che dico, come se la cosa non li riguardasse.

    Occuparsi dell’uomo maltrattante significa, per noi, cercare di tutelare e proteggere maggiormente le donne, attraverso la presa in carico dell’uomo che agisce condotte violente. Occuparsi dell’uomo significa, anche, cercare d’impedire che continui ad agire comportamenti violenti verso le donne.

    È necessario parlare degli uomini, non descriverli solo come mostri, come molti vorrebbero, ma di uomini che necessitano di un aiuto!

    Il libro sottolinea l’importanza di parlare e denunciare socialmente le esperienze di violenza subita – e il coraggio di Monika è un esempio da imitare. Attraverso il suo racconto, ognuno potrà capire l’importanza di denunciare le violenza subite e urlare il proprio diritto a reagire e a voler vivere.

    Ma questo libro è utile anche per gli uomini, che potranno comprendere i danni derivanti da un comportamento violento e accettare che dal circolo della violenza si possa uscire.

    Leggendo il libro la mia motivazione a voler continuare a lavorare con gli uomini violenti è aumentata e, di ciò, ringrazio ancora una volta Monika!

    Dott. Massimo Mery

    psicologo e psicoteraopeuta nel consultorio per Uomini della Caritas

    Introduzione

    Mi sveglio di soprassalto come morsa dalla tarantola e mi rizzo nel letto. Il mio cuore batte all’impazzata come se volesse aprirsi dolorosamente un varco attraverso il petto. Tendo l’orecchio per captare ogni alito d’aria, sento il mio stesso sangue scorrere frusciando nelle vene. Non ho il coraggio di respirare, trattengo il fiato. Maledizione! Premo le mani sul petto come per far tacere il forte martellare del cuore. Gli occhi spalancati scrutano disperati il buco nero della notte. Devo correre in soccorso? Cosa sta succedendo? Espiro piano per non far rumore e sento che mi tremano le mani.

    Su, coraggio!, mi impongo mentalmente, ma il corpo s’irrigidisce ancora di più. Quando mi abituo al silenzio, odo il respiro regolare proveniente dalla camera accanto. Sembra che dorma, quindi vive. Poi sento un respiro più profondo, più pesante, un’espirazione più forte: dorme anche lui. Pian piano, quasi impercettibilmente, la tensione lascia il mio corpo. Sono sfinita. La parte superiore del mio corpo s’inclina lentamente e si adagia sul cuscino, ma sussulto ancora due volte per accertarmi che tutto sia veramente tranquillo. Solo adesso mi accorgo che mi duole la schiena. Sprofondo nel letto; gli occhi si chiudono ben presto, ma guizzano dietro le palpebre chiuse, si muovono inquieti in un brutto sogno. Le orecchie sono all’erta fino a mattina, pronte a mettermi in guardia e scuotendomi dal sonno in ogni momento.

    Per tutti quelli che sono sempre stati presenti per me, anche quando non me ne potevo accorgere.

    Soprattutto per la mia madrina e la mia mamma

    Primo

    Perché piangi mamma? Sono ferma sull’uscio, devo tendermi in alto per tener ben salda la maniglia, i miei occhi si dilatano inorriditi. La mamma è appoggiata con la schiena al fornello e piange. Appena mi vede nasconde il viso dietro il palmo delle mani. Non è niente, dice con voce piatta: Tutto a posto! Ma allora perché piange? Mi sento strana. La mamma non ha mai pianto. Il mio sguardo corre verso il papà che indietreggia di un passo, poi guardo la mamma. Passano alcuni secondi. Il papà si avvicina alla mamma, la abbraccia brevemente e dice a voce bassa: Mi dispiace! Non succederà mai più. Poi esce.

    La mamma si volta e prende a mescolare in una pentola.

    Un senso di oppressione si propaga nel mio petto, ma non capisco. La mamma ha detto che è tutto a posto. Cerco di sottrarmi pian piano a questa situazione, cerco di muovere i piedi, di rivolgere altrove il mio sguardo. Mi volto, vado a prendere la mia bambola in camera da letto. Avrà certo bisogno di me, ora; credo che sia triste. La prendo in braccio per consolarla, la stringo al petto. Pssst …, le sussurro. Non devi aver paura; va tutto bene. Cullo delicatamente la bambola, su e giù, le do dei bacetti in fronte, continuo a parlottare tra me e me. Con la guancia le accarezzo delicatamente il viso; le mie piccole braccia la sorreggono e la proteggono. Sono assorbita dal mio gioco che però non è un gioco. Mi prendo cura della mia bambola. Sembra che si calmi pian piano. Sono certa che è felice di avermi. Lentamente svanisce la sgradevole sensazione insieme ai pensieri di questa strana circostanza. Le settimane successive tutto torna normale, tutto va bene.

    *

    Il mio fratellino è morto improvvisamente. Non capisco che cosa voglia dire morto. Vedo solo che molta gente va su e giù nervosa per la casa. Vicini, parenti. Alcuni piangono, tutti hanno uno sguardo triste. Nessuno ride. Mi faccio largo tra la gente fino al bebè e trovo strano che non si muova. Ha un aspetto diverso dal solito. Probabilmente sta solo dormendo; penso almeno. Forse gli adulti esagerano col loro comportamento. Mi spingono da parte, mi sento esclusa. Respinta da tutti: decido di sparire.

    Ancora non so che non giocherò mai più col bebè. Ho appena due anni. È per questo che non capisco dove sia finito il bebè, neppure nei giorni successivi. In casa domina un grande silenzio. Certo dà fastidio quando il bebè piange e la mamma se ne deve occupare, ma è brutto anche senza bebè. E poi mi sto annoiando; mi sento molto sola. Sono profondamente triste, ma non lo dico a nessuno. Continuano a parlare di morte improvvisa del neonato, ma non so cosa voglia dire. Il papà ce l’ha con la mamma, talvolta la sua voce è dura quando parla con lei. Che la mamma abbia nascosto il bebè…?

    Non capisco, ma mi incammino. I miei fratelli più grandi sono all’asilo poco distante da casa nostra; basta attraversare il prato. Penso che andrò lì; forse mi lasceranno giocare con loro. In tutto il mio entusiasmo non mi accorgo neppure di indossare solamente un pannolino. Me ne avvedo solo quando arrivo all’asilo con tutti che mi guardano stranamente. E tu cosa ci fai qui?, esclamano sorpresi i miei fratelli. Non sembrano particolarmente felici di vedermi. Dov’è la tua mamma?, mi chiede la tata dell’asilo. Sono venuta a giocare , esclamo orgogliosa, felice di non essere più sola, e corro veloce nella stanza dove ci sono i cubetti e comincio a giocare.

    Che bello stare con tutti questi bambini! Ben presto, però, compare sull’uscio la mamma. Ah ecco dove ti eri cacciata, accidenti!, esclama sollevata. E dove credevi che fossi? Sempre questi guastafeste… proprio adesso che sto giocando. La mamma vuole che torni a casa con lei. Ma lì nessuno s’è mai curato di me. Cosa ci dovrei fare a casa…? Nei giorni successivi, faccio altri tentativi di fuga dalla solitudine: una volta corro per tutto il paese fino alla fontana, un’altra volta nuovamente all’asilo per giocare. Ma senza successo; così torno a casa… più o meno volontariamente.

    Ora, un anno dopo, qualcosa è cambiato: abbiamo un altro bebè. Forse la mamma non è riuscita a ritrovare quello di prima.

    Il nuovo arrivato è carino. È un maschietto, come il bebè di prima. Spesso sgattaiolo di nascosto nella camera da letto della mamma per vederlo dormire. Talvolta scuoto il lettino e se per caso si sveglia, chiamo subito la mamma. Per fortuna sono stata attenta; la mamma forse non si sarebbe accorta che s’era svegliato. Mi diverto un mondo a fargli il solletico al pancino; lui ride che è uno spasso, ma solo per poco, perché se gli faccio il solletico più forte, comincia a piangere. Che sciocchino! Un attimo fa lo trovava ancora divertente… La mamma lo solleva e lo stringe al petto per consolarlo. Splendido! Così io rimango sola e mi siedo imbronciata sul letto della mamma.

    *

    Adesso ho l’età per andare all’asilo. Finalmente! Era ora! Mi piace star lì. Faccio lavoretti e disegno. Grazie ai miei fratelli grandi che mi hanno insegnato molto, in certe cose sono più avanti della maggior parte degli altri bambini. So già maneggiare perfettamente le forbici e lo vado a dimostrare subito coi miei capelli. Zic e zac! Via la frangetta dalla fronte! La tata però non sembra molto d’accordo; i bambini, invece, lo trovano divertente. Ogni tanto cerco di star vicina alla maestra d’asilo senza che se ne accorga; vorrei che ogni tanto si occupasse anche di me. Del resto gli altri bambini non sono autonomi come me. Inoltre sono sempre stata la più grande del gruppo. I piccoli devono essere seguiti di più, devono essere sostenuti e accuditi. La tata arriva e mi sgrida solo quando la faccio grossa. Vorrei che fosse più gentile con me. Ma è tanto difficile?

    Presso l’alveare sul prato davanti all’asilo un’ape mi punge sulla mano. Fa un male cane, ma non dico niente. Perché dovrei? Passerà: io sono forte. Gli altri bambini se ne sono accorti e corrono gridando dalla tata. Quando tornano, hanno smesso di gridare, alzano le spalle e mi dicono che non è stata un’ape a pungermi perché altrimenti piangerei. A dire il vero, sono perplessi; non capiscono come mai poco prima hanno visto il pungiglione penzolare dalla mia mano insieme all’ape.

    Io non piango, rispondo secca e torno al mio gioco per non avvertire il dolore pulsante nella mia mano.

    *

    Adesso ho quattro anni. Oggi andrò in piscina con papà. Sono agitata e non sto nella pelle dalla gioia; non riesco proprio a star seduta tranquilla. Finalmente è il momento di imparare a nuotare. Il mio papà è il migliore dei maestri: non c’è nulla che io desideri di più che trascorrere il tempo con lui. È divertente e pieno di affetto. Sono la sua bambina. Talvolta mi tocca il naso con la punta del suo naso e, per dispetto, mi passa con la barba ispida di tre giorni grattugiandomi la guancia. Io mi piego dal gran ridere. Vedrai! A forza di sfregare, crescerà la barba anche a te! Non riesco a smettere di sbellicarmi dalle risa. Una bambina piccola con una barba nera! Troppo divertente.

    Poi ci scateniamo e facciamo la lotta perché sono già molto forte. Mi piacciono troppo questi dispettucci. Poi appoggio i miei piedini sui piedoni di papà. Ci capiamo al volo e senza dire una parola mormoriamo la melodia del Valzer Viennese. Il papà muove le gambe al ritmo della melodia e insieme balliamo lungo il corridoio. Rido con gli occhi luccicanti guardandolo da sotto in su. Sono troppo felice, voglio tanto bene a papà. Il mio papà.

    Dopo il nostro balletto mi siedo affamata e sfinita, al tavolo della cucina e lo osservo mentre, in quattro e quattr’otto, prepara la pasta della pizza con mani esperte. Non c’è nulla che non sappia fare. Sotto le sue mani, una palla di pasta si trasforma in un disco che lui fa roteare velocemente, una, due, tre volte. Poi lo sistema sulla teglia e in un batter d’occhio ecco guarnita una bella pizza. Non molto dopo, una fragranza appetitosa si espande in cucina e mi fa venire l’acquolina in bocca. Il papà racconta una storia alla quale, ovviamente, ha assistito personalmente. Un uomo, uno straniero, ha voluto provare a far ruotare in aria la pizza come sa fare lui. L’uomo si meravigliò nel non veder più tornare giù la pizza. Solo poco dopo, si accorse di cosa fosse successo. La pizza era rimasta attaccata a un chiodo infisso nella parete sopra la sua testa. Io ricomincio a ridere come una matta. È troppo divertente il papà quando racconta storielle comiche! Poi mi fa l’occhiolino e aggiunge: Ce n’è solo uno, un’unica persona brava come me, ma abita molto lontano, forse in Cina o in America. Lo guardo con tanto amore e ammirazione mentre taglia grandi fette di pizza che pone sui nostri piatti. A questo ci credo: il papà è l’uomo più intelligente e abile del mondo. Conosce e sa fare semplicemente tutto. Con grande appetito cominciamo mangiare la pizza migliore del mondo. E poi andiamo in piscina. Che giornata fantastica!

    Ma non sempre le cose vanno secondo i piani. È già successo altre volte che non potevamo fare come avevamo stabilito. Aspettavo papà in cima alle scale con la borsa già pronta, ma lui non arrivava. Poco prima di partire ha dovuto sbrigare ancora qualcosa d’importante. È tornato solo dopo diverse ore. Le prime volte lo avevo accolto imbronciata, delusa come non mai, abbattuta. Poi mi sono accorta che questo atteggiamento non gli garbava. Si arrabbiava e mi ignorava a lungo. Preferisco dunque starmene buona ad aspettare finché mi solleva con le sue braccia forti per giocare insieme rincorrendoci per le stanze.

    Amo il mio papà sopra ogni cosa. Essendo l’unica bambina di quattro figli, siamo stati sempre molto uniti. Posso accompagnarlo quasi ovunque, facciamo sport insieme. Sono una bambina forte, una cosa di cui papà va particolarmente fiero. Sono coraggiosa, intelligente e voglio provare di tutto. Ho sentito che ha raccontato a qualcuno che sono molto sveglia e che mi ricordo subito le parole in italiano. Sono felice che papà sia tanto orgoglioso di me.

    *

    La prima rissa alla quale ho assistito è stata uno shock terribile. Papà era appena rientrato, tardi la sera. Noi bambini eravamo già a letto. Improvvisamente mi accorgo che al piano di sotto sta accadendo qualcosa di terribile. Sento passi pesanti, forti rumori e qualcuno che sale di corsa le scale fino alla nostra porta d’ingresso. Sui vecchi scalini di legno si sente distintamente ogni passo, un rumore spaventoso. Deve trattarsi di una persona gigantesca: ogni movimento si percepisce chiaramente attraverso le vecchie mura. Un forsennato martellare alla porta, segue un urlo raccapricciante che spezza drammaticamente la quiete notturna. La voce profonda di un uomo urla che gli si apra la porta.

    Ho tanta paura. Chi sarà mai? Cosa sta succedendo? Sono seduta tremate nel mio letto e non ho quasi coraggio di respirare. La paura cresce a dismisura quando sento, come in un incubo, che la vecchia, grande porta d’ingresso cede a

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