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D'Amore non si muore: Diario-Terapia di una paziente Escort
D'Amore non si muore: Diario-Terapia di una paziente Escort
D'Amore non si muore: Diario-Terapia di una paziente Escort
E-book222 pagine3 ore

D'Amore non si muore: Diario-Terapia di una paziente Escort

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Info su questo ebook

Dando vita ad un personaggio: Sarah, donna immaginaria, di “professione escort” , dalla straordinaria ironia che ingloba le risorse e i drammi di tre donne reali; l’autrice porta il pubblico di esperti e il grande pubblico a prestare attenzione al delicato tema della violenza subita per strada e in famiglia e al diffuso fenomeno dello Stalking, invitando il lettore ad identificare una serie di segnali inequivocabili, a difendersi da queste situazioni, non così insolite che riempiono le cronache, e infine infondendo speranza che anche da traumi così profondi si può guarire.

Il libro descrive l’utilizzo di un approccio di cura integrato da colloqui clinici e tecniche terapeutiche psico-traumatologiche, (EMDR E PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA) utilizzate abitualmente dall’autrice per curare le sue pazienti, arrivate all’attenzione della stessa all’interno del circuito anti -violenza.

Viaggerete insieme all’autrice nella vita del personaggio e nella guarigione possibile da questi traumi!
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2013
ISBN9788891112224
D'Amore non si muore: Diario-Terapia di una paziente Escort

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    Anteprima del libro

    D'Amore non si muore - Lucia Chiarioni

    Sarah

    CAPITOLO 1

    L’ INFANZIA

    Sono nata ad Azemmour cittadina del Marocco, e da bambina ero allegra, nel mio paese le donne non sono così apprezzate, quando è nata mia sorella mio padre quasi piangeva, voleva un maschio, io invece ero felice perché sono stata da sola fino a quasi 3 anni e speravo tanto fosse femmina.Trascorrevo quasi tutti i pomeriggi, con mia sorella e mia madre a giocare nel cortile della nostra piccola casa, con altre bambine femmine, i maschi no, loro fanno cose da uomini. Nostro padre lavorava.

    Fortissimo il legame tra Sarah e sua sorella Aicha, l’unica persona che negli anni le ha sempre dimostrato il suo affetto e oggi le rimane come legame affettivo della sua famiglia. Ci ha aiutate molto nel programma di cura e riabilitazione. Dopo l'ultimo ricovero in ospedale, Sarah ha deciso di curarsi seriamente. Sua sorella è stata uno dei motivi della sua decisione e ha favorito e monitorato il suo percorso.

    Un pomeriggio come di consueto giocavamo nel cortile e un gruppo di bambini stranieri voleva divertirsi, prendendo di mira mio sorella. Appena sentii strillare mia madre in preda al terrore, non ci pensai due volte a rincorrere i malintenzionati. Avevo solo 8 anni, ma già da allora mi prendevo in carico la mia famiglia. Questo però lo capii molto dopo..

    Dall'inizio della sua infanzia si può intendere come Sarah sia stata ingaggiata dalla sua famiglia e dalle fragilità della sua storia, e di sua madre ad occuparsi degli altri, nonostante fosse femmina. Il suo carattere combattivo ha predisposto il resto.

    Mia madre mi raccontava di un mio comportamento strano. All’età di circa quattro anni, nel recarci a fare la spesa, percorrevo tutto il tragitto compreso il ritorno, sulle punte dei piedi, come se indossassi delle scarpe con il tacco a spillo.

    I bambini a volte camminano sulle punte perché possono avere problemi di sviluppo motorio, soprattutto questa condotta risulta essere normale anche fino ai due anni e mezzo, se si propone più tardivamente può rivelare alcuni tratti autistici e comunque merita l’attenzione di un posturologo o di un ortopedico. Una volta escluso però il problema fisico, nel caso di Sarah credo che la sua camminata da scarpe con tacco a spillo potesse rappresentare la felicità di trascorrere con qualcuno della famiglia un po’ di tempo dedicato solo a sé stessa, felicità espressa con un comportamento posturale che la faceva spiccare il volo verso il cielo. Pensando alla donna che è oggi è evidente il suo carattere entusiasta e la sua indole a godere anche dei piaceri della vita. I tacchi a spillo li ha messi molto dopo i 20 anni, quasi tutti i giorni per andare al lavoro.

    La nostra casa era piccola come quella di Pollicino, povera, ma io sognavo di diventare qualcuno e di comprare una casa grande con mobili lussuosi. Si entrava dalla strada secondaria in un piccolo cortile dove giocavamo. Si accedeva dalla porta principale, unica porta in realtà, e unica finestra. Il bagno non c’era. Io dormivo con mia sorella nel piccolo divano letto. La parte opposta della stanza era la zona notte dei nostri genitori, con il loro letto a due piazze. Il tavolo, le sedie un po’ mangiate dai tarli e tutto ciò che occorre per vivere, erano al centro della stanza. Ricordo il divano di velluto giallo sporco e ogni sera mamma diceva: ora facciamo una magia e… Voilà!!! questo divano diventa letto e io ci credevo, la credevo magica.

    Comincia il processo d’idealizzazione della madre, una delle ragioni che portò Sarah ad assumere determinate condotte per riscattare l’intera famiglia. Il processo di idealizzazione delle figure genitoriali è normale durante l’infanzia ma comincia ad essere messo in discussione durante l’adolescenza. Quando l’adolescente compie il suo processo di autoaffermazione e diventa adulto, la costruzione di un sé dai confini definiti è sani, si compie separandosi da alcune caratteristiche dei genitori e si auto-definisce come essere unico. Il processo di identificazione e separazione non è mai avvenuto in modo completo in Sarah che ha mantenuto negli anni un rapporto simbiotico con la madre continuando la sua idealizzazione e compensando le sue fragilità e cercando negli altri uomini un padre protettivo.

    Cucinavamo all’esterno, nel cortile sul camino di pietra i tipici piatti della cucina marocchina: Lahma bi ajeen (pizza araba), couscous, e carne di montone, quando ce la regalavano. Quel buco di casa l’ho amata più di ogni altra, per la gioia e la spensieratezza che mi ha regalato. Nei miei ricordi resta sempre la più piccola e splendida reggia della mia vita, di cui io sognavo di essere la principessa. Troppo presto la ho dovuta lasciare e poi le altre case, alcune belle e lussuose che ho comprato negli anni, non le ho mai sentite davvero mie.

    CAPITOLO 2

    I MIEI GENITORI

    I miei genitori si sono conosciuti in Italia. Mio padre vi ha lavorato per un po’. Il mio papà è nato in Marocco, mia madre Italiana, ci siamo trasferiti in Marocco dopo che mia madre si separò dal suo primo marito, di cui non so molto, lei non ne voleva mai parlare; so solo che non doveva essere uno stinco di santo. Un giorno mentre lei si faceva il bagno ho visto delle cicatrici sul suo braccio, ho capito, avevo 12 anni, troppi per non capire, troppo pochi per chiedere, troppi per non arrabbiarsi e al tempo stesso per rispettare il suo dolore. Della vita di mio padre conosco ben poco. Ha lavorato sempre, come tutto fare, con noi bambine parlava raramente, sempre arrabbiato; arrabbiato direi con la vita. Mio padre era stanco di lavorare appariva più vecchio della sua età, non ci ha mai fatto mancare niente ma non ha mai creduto in me. Quando sognavo di cambiare vita, lui mi diceva che sognare non serviva a nulla ad una ragazza come me, che non sarei mai diventata qualcuno che conta e poi ero solo una donna italo-marocchina, a volte mi chiamava mezzosangue, io pensavo che gli uomini fossero tutti come lui. Sebbene possedesse un cuore tenero, aveva un carattere passionale e impulsivo. Non amava le mezze misure, era molto determinato e risoluto nelle decisioni. Sotto alcuni aspetti gli somiglio.

    Sarah assomiglia molto a suo padre. E’ una donna creativa, che non si è arresa, è coraggiosa; molto determinata e passionale, libera e diretta nell'esprimersi, dal grande cuore, generosa ma ingenua. Una delle sue più grandi difficoltà è sempre stata quella di non riuscire a dire di NO alle persone, porre dei confini, per la paura di perdere il loro amore. Questo è tipico di chi vive nell’infanzia momenti di deprivazione e per riscattarsi da un lato, s’ingaggia alla risoluzione dei problemi familiari, dall’altro ha un disperato bisogno dell’amore degli altri, esterni alla famiglia, per auto-affermarsi. Disposto a dare tutto per non perdere la vicinanza dell’altro, molto spesso commette un errore di definizione dei confini del proprio sé, ponendosi a volte nella situazione di farsi abusare dagli altri, disposti a prendere e non sempre a dare. Prima e dopo il percorso terapeutico e il trattamento dei ricordi peggiori ho lavorato tanto con lei sui suoi confini relazionali come suggerisce Path Odgen, con il suo approccio, quando ho conosciuto Sarah non avevo ancora la formazione in questa tecnica e ho fatto del mio meglio, successivamente invece mi è servita per completare il nostro lavoro.

    Suo padre, mio nonno, morì in seguito a un incidente, quando lui aveva appena undici anni. Mio nonno era un Ingegnere, lavorava sulle piattaforme petrolifere e una notte sparì in mare. Lo cercarono ovunque, senza ottenere alcun risultato.

    Il padre di Sarah, da questa perdita non si riprese mai, aveva paura di tutto e trasmetteva alle figlie un’idea del mondo come pericoloso. Le reazioni che aveva si potrebbero descrivere proprio come sintomi tipici del Funzionamento Post Traumatico a causa di traumi irrisolti. Quando vivono queste esperienze le persone divengono il loro stesso trauma, come se l’esperienza negativa cambiasse i loro pensieri e dissociasse le loro emozioni. Dalla descrizione di Sarah sembrava avere sintomi appartenenti alla configurazione fobica, sul polo indipendente, il trauma aveva fatto il resto del lavoro per lui, trasformandolo in iper-controllante e iper-protettivo verso i propri cari e contro tutti i possibili pericoli imminenti.

    La sventura rimase avvolta nel mistero e in un secondo tempo, nessuno ne parlò più. Ci arrivai molto dopo a capire che mio nonno forse si tolse la vita, non amava le navi e gli mancava la sua famiglia, la verità non si saprà mai e fu la mia Dottoressa a spiegarmi che i segreti familiari, pesano come macigni nella vita dei figli e delle generazioni future. A quei tempi era una vergogna per la famiglia se capitava che uno dei membri commettesse un gesto irreparabile, o fosse colpita da una disgrazia di quel genere. Non esistevano in ogni caso foto che lo ritraessero. Probabilmente la sua famiglia le fece sparire, per mettere a tacere le chiacchiere su quella storia e io… ho sempre avuto il peso nel cuore, perché il mio papà non aveva nemmeno una tomba sulla quale piangere. Mio padre fu costretto ad andare a lavorare ed abbandonare gli studi per mantenere i suoi fratelli e sorelle. Era il maggiore proprio come me.

    Un trauma come questo, disorganizza tutta la vita familiare e crea un prima e un dopo questo evento inaccettabile, che ha costretto il padre di Sarah a crescere troppo in fretta per la sua giovanissima età. All'epoca i figli maschi in assenza di un padre, diventavano l’unica forza lavoro per il nucleo, pertanto perdevano la loro adolescenza. L'onta della vergogna aleggia sulle morti improvvise e inspiegabili, almeno all'apparenza. E quest’uomo dal volto ignoto, di cui era vietato parlare, rappresenta un primo importante interrogativo sulle radici di Sarah che, per riparare alla avventurosa vita del padre e a quella altrettanto singolare di sua madre, si prese fin da piccola un pesante mandato su di sé. Guardandola si intuiva che la sua sofferenza non era legata solo ai traumi esperiti nella sua vita ma anche a quelli delle generazioni passate. Come insegna la Sistemica e anche Bert Hellinger nel testo Riconoscere ciò che è, tutti quelli che possono essere ricordati, fino alla generazione dei nonni e dei bisnonni, si fanno sentire come se fossero ancora qui.

    Mio padre ha fatto studiare due dei suoi tre fratelli per poi vederli partire e lasciare il Marocco, uno abita in Italia ed è così che un giorno venendo a trovarlo, conobbe mamma. Lui non ha studiato ma ha sempre provveduto a noi e ha pagato tutto, fino all’ultimo Dirham.

    Ecco che la favola del riscatto continua.

    Questo figlio facendosi intrappolare dagli eventi, libera la sua famiglia d’origine dalla disgrazia e dalla vergogna, insegnando implicitamente alle sue figlie un grande valore: volere è potere, grande determinazione e possibilità di vita e riscatto. Quello che Sarah farà a suo tempo per la madre. Basta guardare Sarah per vedere quanto le somiglia, nella sua spontanea semplicità e simpatia. Ma è sua madre che rappresenta il legame affettivo più importante per lei, sul cui altare ha sacrificato tutta se stessa, un lutto irrisolto che non ha avuto la forza di affrontare fino in fondo ma che porta nel cuore con grande dignità. Sarah assomiglia a sua madre nel temperamento allegro e accudente e questa sua caratteristica che descrive nel racconto, è stato il suo motore, anche se durante le crisi maniacali, diventava un serio problema comportamentale. Gli up and down delle crisi, dovute al problema del disturbo bipolare, trasformavano la sua natura positiva e il suo temperamento in comportamenti pericolosi per lei: shopping compulsivo, piacere sessuale senza controllo, uso di sostanze psicotrope e problemi con la giustizia. Il senso dell’umorismo invece nella relazione con Sarah, emerge quando lei sta bene e non è depressa ma anche in piena crisi maniacale e scompensata, Sarah rivela la sua straordinaria ironia e la meravigliosa capacità di ridere dei suoi guai.

    CAPITOLO 3

    IO: SARAH

    La vita dovrebbe essere vissuta al contrario

    La vita dovrebbe essere vissuta al contrario. Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così tricchete tracchete il trauma è bello che superato. Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono. Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d'oro. Lavori quarant'anni finché non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finché non sei bebè. Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo.

    (Woody Allen)

    La mia vita fu un vero disastro fin dal primo giorno… O forse prima ancora.

    A una settimana dal parto, mia madre fu costretta ad andare all’ospedale perché mi ero girata al contrario. Mio padre sperava fossi un maschio, e penso da allora di averlo deluso, forse è per quello che da bambina volevo esserlo? Tanti ricordi della mia infanzia sono emersi grazie alla Psicoterapia perché tanti erano chiusi nel cassetto dell’inconscio e sentivo che tendevano ad affiorare di più solo quelli dei distacchi, quelli della mia terra natia e quelli delle violenze e ingiustizie subite. Oggi ricordo alcuni piacevoli episodi della mia vita, come a confortare il cuore e a ricordarmi chi ero e chi sono diventata. Da bambina sedermi a tavola per mangiare, è sempre stato difficile per mia madre, io volevo sempre giocare e anche il cibo diventava oggetto di divertimento. Lanciavo il cibo a mia sorella, che spesso si finiva il mio piatto, io invece ero magra da paura. Mia madre si disperava, e io lo facevo anche per attirare la sua attenzione, mio padre invece, quando c’era, beh! Mi bastava una sua occhiata per capire che era l’ora di smetterla, altrimenti arrivavano le botte. Io e Aicha eravamo due bambine allegre, nonostante la povertà, lei sognava di diventare un Medico, io famosa, nell’ambiente dello spettacolo e ci giuravamo di non separarci mai. Noi come la maggior parte dei bambini, eravamo spensierate, delle bambine fortunate, prive di problematiche, sane e vivaci e senza troppi capricci. Aicha e io eravamo inseparabili. Mi seguiva come un’ombra. A me non dispiaceva e non la mettevo mai in disparte. Inventavo incredibili trovate, pur di non rimanere esclusa dai suoi giochi. Ero un po’ gelosa dei suoi amichetti ma con lei non mi sentivo mai sola. Lei andò all’asilo io no, e la guardavo anche giocare dal cortile, sognando e rifugiandomi nel mio mondo. Giocavamo poco con le bambole, ne avevamo solo due, una bionda regalata da una zia di mamma, veniva dall’Italia, che tenevo come una reliquia, e un bambolotto di pezza di mia sorella. Facevamo finta di preparare il pranzo, di cambiare i vestiti, e costruivamo tante storie strampalate. Mia madre restava incantata ad osservarci cercando d’interpretare il nostro gioco, ci suggeriva spesso delle trame per le storie, e non ci crederete, le bambole femmine finivano sempre per sposarsi, fare figli e cucinare. Non aveva l’abitudine di sgridarci, alzare la voce e le mani non era nella sua indole, preferiva spiegare con pazienza e descrivere qualsiasi cosa in maniera comprensibile. Mio padre l’esatto contrario, ricordo un solo abbraccio da parte sua, il giorno in cui Aicha partì per l’Italia per fare l’Università. Ricordo che nelle torride estati, spostavamo i materassi sulla veranda, con l’idea che ci fosse meno caldo. Spesso per la calura che a volte sfiorava i cinquanta gradi di temperatura, s’impiegava parecchio tempo ad addormentarsi. Avevamo inventato il gioco del cercare nomi strani alle stelle, io ero la più brava, la più veloce, Aicha si arrabbiava. Mia madre amava disegnare nella sabbia, creava un sacco di cose, e noi rimanevamo ore con lei mentre seduta nella terra rossa, la

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