Zàghiri e Parmi
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Anteprima del libro
Zàghiri e Parmi - Salvo Micciché
onesti
Prefazione
Chissà se nel giardino dell’Eden biblico erano presenti "zàghiri e parmi e
àrvuli putati" (alberi potati) di eterna memoria. Chissà quanto inebriante profumo avvolgeva l’animo in uno sposalizio continuo tra natura e sensi.
Una dimensione, forse, edenica, per quanto sfumata nella lontananza del sogno, quasi inaccessibile, come oggetto di nostalgico desiderio, ma che l’autore delicatamente evoca attraverso i suoi versi che aprono la presente silloge con mirabili pennellate intrise di sensibilità e animosa affabulazione dialettale. È, forse, il giardino di casa, richiamato da fanciulleschi ricordi, a fungere da elemento trainante e viatico per questo ulteriore volume, sequel poetico del suo Argu lu cani (2016).
Nei versi di Salvo si notano talora subitanei affioramenti memoriali colorati con angoli di luce, in mezzo al tripudio dell’aria, dei colori, degli alberi in fiore. È un palcoscenico in cui la parvenza reale del paesaggio siciliano lievita e fermenta, diventa sede di rinascenze.
È, forse, una dimensione onirica. La Sicilia oggi, a causa anche della selvaggia cementificazione, sembra non profumi più di agrumi i cui effluvi intensi ne rappresentano il manifesto immaginifico sensoriale. Dacia Maraini in un recente nostalgico articolo[1] ricorda, per chi l’abbia già dimenticata, un’Isola d’altri tempi dove a dominare era proprio il profumo di zagare. Resterà, forse, un ricordo sbiadito quello delle lumie di Pirandello, dei limoni dipinti da Renato Guttuso, degli agrumeti[2] e dei lapuzzi
(piccole api) che, nelle reminiscenze di Salvo, mangiucchiano "nne macchiteḍḍi sucannu nèttiri friscu re çiuri cjù beḍḍi. Un’immagine sensoria, carica di inesausta vitalità, che dà l’idea del ronzio delle laboriose api domestiche orbitanti
nno jardinu" (nel giardino): un universo straordinario, visto come angolo di paradiso (dal latino paradisus - che solo nel lat. tardo, della Chiesa, acquista le accezioni rimaste poi tradizionali - e questo dal greco παράδεισος, cioè giardino).
Le epifanie dei luoghi di Sicilia "pitrudda cu tri punti, dove è nata la
Puisia, espressione letteraria della cosiddetta
Scuola Siciliana", diventano anche crogiuolo di voci e armonia di suoni che si intrecciano, si accavallano.
La voce della terra e il rumore del vento, il cui soffio modella i "çjanchi re macchi i carrua, sono elementi essenziali della campagna e del duro lavoro che scoraggia i giovani e necessita di:
rasuliari, ’nsitari, putari, tratturiari, scavari u filàgnulu, sprucchiari, spampinari. Azioni che, espresse con il verbo coniugato all’infinito, danno l'impressione del movimento, del lavorio frenetico e incessante della campagna. Operosità che non conosce giorni festivi. Per la campagna tutti i giorni sono uguali, come uguali sono tutti i lavoratori che si accingono a lavorare e zappare. Guai a lasciar perdere le attrezzature da lavoro! Un mestiere antico, quello del contadino, che rispetta la natura con l’utilizzo dello
zappuni che
stocca i vurazza ma jìnchia la ucca".
La silloge raccolta nel presente volume è un esempio di come si possa miscelare la cultura di uno spicchio di Italia (la Sicilia della zona iblea) con la naturalezza del raccontare e raccontarsi in versi. Dalla lettura di ogni poesia emerge l’amore profondo di Salvo per la sua terra e la dedica che lui fa di questo libro ai siciliani onesti è un po’ la dedica che può sentire per sé ogni suo conterraneo.
Giuseppe Nativo
La Forza del Dialetto
Argu lu cani
e Zàghiri e parmi
di Salvo Micciché e Palloncini d’America
di Renato Fidone (tratto da un articolo di Giuseppe Pitrolo pubblicato su Il Giornale di Scicli, aprile 2016)
Pavala a pivala [3]
Pàvala a pìvala, çiavala,
a carcarazza,
supra na macchia arrira
e strummazza,
«Cicca a Pàvala e cca ta lassu!»
ci rispunna la cumpagna
d’abbassu.
Pica ladra, carcarazza siḍḍjusa,
‘rrobba lu frummientu di la chiusa,
e u massaru l’assicuta cca
scupetta:
«morta si’, e ora canta,
maladetta!»
Salvo Micciché
Pigghiati çiatu[4]
Scinniennu ppi li curvi
ra balata
Firmativi sulu ppi ‘nmumentu:
pigghiati çiatu e poi ccu quanta forza aviti
chiuriti l’occhi e subitu ‘i rapiti:
chi sorti di spittaculu
ca spunta:
casi, palazzi, jardina
e muntagneddi.
Pigghiati çiatu pirchì vi batti
‘u cori
E cu la menti vulati finu a mari
Renato Fidone
Prima di parlare delle poesie in lingua siciliana di Salvo Micciché e di Renato Fidone è necessario distinguere fra poesia vernacolare e poesia in dialetto: se la prima, infatti, è regressiva e arretrata, la seconda è connessa alla modernità e intimamente legata «alle letterature contemporanee, in polemica coi tradizionalismi locali» (Pier Paolo Pasolini).
Ciò si deve alla geografia e storia
della nostra letteratura, in cui la questione della lingua è stata fondamentale fino a qualche decennio fa e in cui la lingua nazionale riceve i suoi apporti lessicali più espressivi dai tanti dialetti (Gadda e Camilleri docent).
Ma si deve pure al bisogno, formalizzato dai Formalisti russi, di "straniamento, ovvero
la procedura stilistica attraverso la quale l’artista ci dà un’inedita percezione della realtà, deautomatizzando il linguaggio, deformando i materiali compositivi (Marchese): il dialetto ci fa percepire la lingua e la realtà in modo nuovo, diverso dalla nozione banalizzata. Ogni scrittore deve quindi tendere alla creazione del proprio
idioletto", del proprio linguaggio e stile personale, diverso e dunque straniante. E il dialetto è, probabilmente, quanto di più originale e nativo può usare un bravo scrittore. Difatti Montale, recensendo alla metà degli anni Cinquanta l’antologia La poesia dialettale del Novecento curata da Pasolini, scriveva che si può ricorrere «al dialetto come ad una lingua vera e propria, quando la lingua sia considerata insufficiente o impropria a una ispirazione».
Il dialetto pertanto può opporre alla lingua piatta, plastificata, dei mass media, la propria originalità, espressività, metaforicità primigenia ("çiamma rô mà cori! Çiamma!"): «il dialetto è divenuto oggi un codice iper-letterario, una lingua selettiva e anacronistica che si oppone all’italiano standard (…), una specie di nuovo latino con cui lo scrittore fugge il nuovo ‘volgare’ d’uso comune» (Brevini). Esemplare il caso di Michele Sovente (1948-2011), che scriveva in un latino che traduceva poi in italiano e in napoletano: "me tenebrae tenent tenaciter diventa
tenaci m’inghiottono tenebre e
me fòtte ‘a notte, me gnòtte" …
Date queste premesse, è consequenziale qui ricordare che, nel secolo appena trascorso, accanto al novecentismo
in lingua
di Ungaretti, Saba, Montale, Caproni, Bertolucci, Sereni, Luzi, Fortini, Zanzotto, Erba, Giudici, Sanguineti, Rosselli, Merini, Raboni, Antonio Porta, Insana, Ortesta, Lamarque, Zeichen, Krumm, Conte, Cucchi, Cavalli, De Angelis, Viviani, Mussapi, D’Elia,