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Prima l'italiano
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E-book271 pagine3 ore

Prima l'italiano

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Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure

Il modo in cui parliamo e scriviamo ci qualifica costantemente agli occhi degli altri: per molti versi noi siamo la lingua che usiamo e, in base a questa, verremo costantemente sottoposti al giudizio altrui. In mille occasioni, un errore di sintassi o di ortografia, la scelta di un tempo verbale sbagliato o perfino l’inutile irrigidimento su una regola, che magari ci ricordiamo in maniera imprecisa dai tempi della scuola, potranno contribuire non solo a farci fare brutta figura, ma portare in alcuni casi anche a ripercussioni gravi sia a livello personale sia a quello professionale. In questo libro viene presentata, documentata con numerosi esempi tratti dall’uso e spiegata una rassegna degli errori che, ancora oggi, provocano uno stigma sociale, ossia sono percepiti come indicatori di scarsa cultura; a questi è stata aggiunta una breve rassegna di presunti errori che invece meritano di essere sottoposti a un esame più approfondito: scopriremo che forse sono meno sbagliati di quanto immaginassimo.

Semplice e di facile lettura, ricco di esempi e consigli per evitare gli errori più comuni

Qual è va senza apostrofo? Valigie o valige? Perchè o perché?

Apostrofi, accenti sbagliati, forestierismi e maiuscole

Tutti gli errori/orrori da evitare accuratamente

Vera Gheno
sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, ha lavorato per vent’anni con l’Accademia della Crusca nella redazione della consulenza linguistica e gestendo l’account Twitter dell’istituzione. Attualmente collabora stabilmente con la casa editrice Zanichelli. Insegna all’Università di Firenze, al corso di laurea di Scienze Umanistiche per la Comunicazione, dove tiene da molti anni un Laboratorio di italiano scritto. Ha pubblicato: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016), Sociallinguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello (con Bruno Mastroianni, 2018) e Potere alle parole. Perché usarle meglio (2019).
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2019
ISBN9788822737847
Prima l'italiano

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    Anteprima del libro

    Prima l'italiano - Vera Gheno

    Introduzione

    Che m’importa della grammatica e dell’ortografia! Però se mi scrivi io con te non esco

    Viviamo in un’epoca strana, davvero strana. Scriviamo – anzi, perlopiù digitiamo – quanto mai prima d’ora. Furiosamente, di continuo, dentro e fuori casa, appena svegli e prima di dormire, di nascosto, durante una lezione, a messa, in treno (senza mai abbassare la suoneria: che fastidio!), perfino in momenti in cui non solo non dovremmo, ma addirittura mettiamo proprio in pericolo la nostra pelle e quella altrui (ma dico: gente che spippola mentre guida?!).

    Scriviamo cose che sarebbe meglio dire a voce, con il rischio che ci si rivoltino contro (il dio dello screenshot, cioè dell’istantanea dello schermo, non perdona); diciamo la nostra anche quando stare zitti potrebbe essere un’opzione valida (per esempio, quando non siamo realmente competenti su qualcosa, o non abbiamo nulla di davvero interessante da dire).

    Insomma, produciamo un sacco di testi. E in questa produzione forsennata di parole scritte, accade che la norma che ne regola la stesura diventi in qualche modo meno rilevante. Spesso, scriviamo e digitiamo come viene, come càpita, senza dare troppa importanza alla forma. Come se pensassimo che, in fondo, ciò che conta è il contenuto, il cosa: chi se ne frega del come! Basta capirsi.

    Chiaramente, in molti contesti è davvero così, e scrivere bene, fare attenzione all’abito del nostro testo, ha una rilevanza bassa o pressoché nulla: pensiamo, per esempio, alle liste della spesa che alcuni ancora si appuntano su carta ¹. Lì non è davvero importante come scriviamo, dato che quel foglietto lo leggeremo solo noi o la persona per la quale l’abbiamo scritto.

    Tuttavia c’è un ma. O forse ce ne sono due. Per quanto oggi la forma sembri contare poco (e non solo sui social, verso i quali tutti tendono a puntare il dito in maniera accusatoria), in Italia accade una cosa estremamente controintuitiva rispetto a quanto detto: in un sacco di contesti – spesso anche quelli in cui pensiamo di poterci lasciare andare nello scrivere – veniamo giudicati in base agli errori che commettiamo. In particolare, quando le persone non ci conoscono in maniera diretta, ma possono solo leggere ciò che noi scriviamo, a volte incautamente, in un contesto pubblico come quello dei social, ecco che a causa di una nostra esitazione, una distrazione o uno sciocco errore di digitazione, si fanno di noi un’idea tutt’altro che positiva.

    In altre parole, il modo in cui ci esprimiamo attiva negli altri dei pregiudizi, rafforzati dal fatto che le parole scritte non hanno l’ausilio della nostra presenza fisica: "Questa è una persona poco colta perché ha scritto *perchè con l’accento grave invece che con l’accento acuto". E non è solo una questione di giudizi magari affrettati, ma fini a sé stessi (a proposito, hai notato l’asterisco messo prima di perchè e l’accento su ? Ne riparleremo); può succedere che, per colpa di un errore di questo tipo, magari davvero sciocco, non saremo convocati a un colloquio di lavoro, ci verrà negata una possibilità universitaria, magari vedremo fallire un’uscita romantica, o finiremo esposti a una vera e propria gogna pubblica: la lapidazione virtuale dell’ignorante è uno sport molto diffuso, di questi tempi ("Guardate qui: Tizio, che dice di essere un docente, ha scritto *con l’accento invece che con l’apostrofo!").

    È inutile girarci attorno: diamo una grande importanza al parlare e allo scrivere bene, anche quando pretendiamo che sia irrilevante. Anzi, a voler essere ancora più precisi, tendiamo a considerare irrilevanti gli errori commessi da noi ("Guardate che lo so che po’ si scrive con l’apostrofo, ero solo di fretta!; Ma che vi siete immaginati? L’ho fatto apposta, ero ironico) e gravissimi quelli commessi dagli altri (Questa distrazione è inammissibile, vergogna!"): siamo tutti un po’ ipocritamente doppiopesisti ² su questo, ammettiamolo.

    La parola, sia pronunciata che scritta, convoglia il nostro pensiero, racconta agli altri qualcosa di ciò che siamo, di ciò che vogliamo essere, di ciò che pensiamo del mondo e delle persone attorno a noi. In base a come parliamo e a come scriviamo, possiamo ritrovarci vittime di uno stigma, magari verremo presi in giro, passando un brutto quarto d’ora. O semplicemente, ci potrebbe capitare di non essere capiti, di non riuscire a convogliare con chiarezza il nostro pensiero. E anche questo può essere assai fastidioso. Allo stesso modo, in base a come parlano e scrivono gli altri, elargiamo giudizi spesso affrettati, rilasciamo patenti di cultura, ci uniamo alla gogna pubblica ai danni di un disgraziato che ha commesso un errore magari banale: qualcuno si ricorda del social media manager di Maurizio Gasparri che si ritrovò nella bufera per avere scritto chiesimo anziché chiedemmo in un tweet ³?

    Il messaggio venne subito cancellato, non prima di essere stato immortalato e riprodotto centinaia di volte, e l’ironia della rete su quello strano passato remoto sopravvive. Ecco alcuni esempi di commenti da Twitter ⁴, tuttora leggibili:

    Dopo #chiesimo è stato ritrovato senza vita il correttore automatico del telefono di Gasparri.

    3:56 PM · 17 mar 2016·Twitter for iPhone

    L’Accademia della Crusca nega al piccolo Maurizio la possibilità di aggiungere il verbo #chiesimo alla lingua italiana.

    3:52 PM · 17 mar 2016

    Chiedere le regole grammaticali è legittimo. E noi, modestamente, le chiesimo.

    11:31 AM · 17 mar 2016

    - Non le #chiesimo di candidarsi

    - onorevole, chiedemmo!

    - Non conosco nessun demmo, la solita macchina del fango

    8:52 AM · 18 mar 2016

    Possiamo anche far finta di nulla, ma parlare e scrivere correttamente non sono qualità accessorie. Esprimendoci bene, non solo possiamo ambire a fare una figura migliore, ma anche a trasmettere più chiaramente il nostro pensiero e far sì che le persone attorno a noi ci capiscano con meno sforzo. Nemmeno questo è irrilevante. Diceva uno dei miei maestri, Tullio De Mauro, grande linguista, ma soprattutto convinto sostenitore dell’educazione linguistica democratica, che c’è bisogno di insegnare a tutti, non uno di meno, a comunicare bene, perché solo in questo modo si garantisce la vera libertà alle persone, la piena democrazia: «Così, col fragile strumento delle parole e delle frasi, dalla notte delle origini alla luce della storia, abbiamo potuto vivere e ragionare fatti ed esperienze d’ogni genere. E la specie umana ha potuto e può farsi la più adattabile di tutte le specie animali della Terra» ⁶. Perché privarci di questo piacere e, soprattutto, di questo potere?

    Rivolgere un po’ di attenzione a come parliamo e scriviamo, in fondo, è anche un segno di attenzione per chi abbiamo attorno: dato che ogni deroga alla norma comporta, inevitabilmente, un maggiore impegno nella decodifica nel messaggio, faremo letteralmente un favore ai nostri interlocutori a esprimerci con più attenzione. E se a te non importa nulla della possibile fatica che dovranno fare gli altri per capirti? È possibile che tu sia un menefreghista, ma sappi che presto o tardi qualcuno si comporterà allo stesso modo con te; e sarai tu a ritrovarti nella posizione di dover fare quello sforzo supplementare di comprensione.

    VOCI DA TWITTER

    Puoi recitarmi tutta la Divina Commedia a memoria ma se sbagli un congiuntivo sei catalogato a vita come ignorante.

    9:25 PM · 28 set 2014 da Tavernerio,

    Lombardia

    Gente ignorante che si diploma con 80 e passa e poi magari scrive ancora po’ con l’accento e qual è con l’apostrofo

    11:18 PM · 7 lug 2015 da Bellaria-Igea Marina,

    Emilia Romagna

    Amore ti rispondo qui prima di silenziati. Po’ ha l’apostrofo e non l’accento e i puntini di sospensione sono 3. E sì, sei un ignorante, ma non solo per questo basta scorrere la tua TL. A non risentirci.

    3:39 PM · 28 lug 2018

    Qual è con l’apostrofo è un metodo anticoncezionale.

    7:17 PM · 1 mar 2016

    Visti gli errori di ortografia, mi chiedo come abbia fatto costui a laurearsi e poi superare l’esame di stato. Sono assolutamente convinto che il degrado di questo Paese sia passato attraverso quello delle scuole.

    1:56 PM · 8 ago 2019

    Se già nella bio hai errori di grammatica e faccine ti avverto che difficilmente io e te faremo sesso in questa vita.

    1:25 PM · 9 nov 2018

    Tutto scorre, tanto più la lingua

    Viviamo immersi in un eterno fluire linguistico. La lingua cambia di continuo – perché deve rimanere perennemente in sintonia con la realtà che la circonda per non morire – ma noi, dopo essere andati a scuola, normalmente smettiamo di studiarla. A scuola leggiamo testi letterari a rotta di collo che lì per lì odiamo e che poi, se li riprendiamo in mano successivamente, al di fuori della costrizione scolastica, scopriamo essere spesso godibilissimi, come la Commedia di Dante o i Promessi sposi, pluricitati in questo libro. Per anni facciamo analisi grammaticale e logica fino alla nausea; io ho ancora l’incubo dei complementi: ogni tanto ne spuntava uno nuovo! Attenzione: con questo non dico che non sia importante riconoscere un complemento oggetto o distinguere uno stato in luogo da un moto a luogo, ma… il complemento di pena, o quello di stima, o quello di svantaggio: aiuto! Dopodiché, dopo tutta questa messe di informazioni linguistiche anche molto tecniche, spesso pretendiamo in qualche modo di vivere di rendita: a livello di lingua, riteniamo di sapere quanto c’è da sapere, e va bene così.

    Ma non è vero! Il cervello va tenuto in esercizio, anche per quanto riguarda la competenza linguistica. Magari non possiamo pretendere che tutti studino, ma leggere, fruire di contenuti culturali, sarebbe importante. Altrimenti, si regredisce inesorabilmente: ci esponiamo al rischio di ripiombare nel semianalfabetismo, se non nell’analfabetismo totale.

    E se anche leggiamo e continuiamo a esercitare il muscolo linguistico, siccome raramente facciamo una riflessione metalinguistica, cioè sulla lingua, accade spesso che, per quanto riguarda le regole, ossia la norma, finiamo per affezionarci al Verbo trasmessoci dai nostri professori e per fossilizzarci su quanto studiato tra i banchi in maniera acritica, senza se e senza ma: procediamo nella nostra vita con convinzioni incrollabili, certezze assolute e anche un certo odio per chi, magari, la pensa diversamente da noi. Ecco un esempio, sempre da Twitter, di un fossile che secondo me molti ricordano:

    Raga si dice grafia e non calligrafia l’avete capito o no?

    1:23 AM · 3 set 2019

    È un pensiero che riceve molti like o mi piace (qualcuno potrebbe addirittura dire che molti l’hanno mipiaciato), e commenti di questo tenore:

    Brava. Prima elementare la mia maestra lo ripeteva ogni santissimo giorno. Ogni tanto gente ringraziate chi vi corregge e non rompete sempre le balls

    9:51 AM · 3 set 2019

    E se invece la maestra di prima elementare non avesse completamente ragione? Parleremo della correttezza o meno di bella calligrafia tra qualche capitolo…

    Per molti è difficile da accettare, ma oltre alla lingua, muta anche la norma. Ogni lingua, infatti, non è altro che un codice, che funziona in base a regole che sono convenzionali: non arrivano dall’alto e non sono incise nella roccia, ma sono una specie di coagulo dell’uso sensato della maggioranza della comunità dei parlanti. In altre parole, noi, rappresentanti della comunità linguistica di coloro che parlano italiano (gli italòfoni), manifestiamo sostanziale accordo su una serie di regole che ci permettono di capirci. Non esiste una legge di natura che prescriva che il congiuntivo di battere sia batta e non batti («Fantozzi, batti lei!»); siamo noi, comunità di parlanti, che in qualche modo ci siamo accordati perché oggi il congiuntivo di battere sia batta. E proprio perché la norma è convenzionale, essa può modificarsi nel corso del tempo. Si modifica, di nuovo, non dall’alto, ma in base a come noi parlanti usiamo la nostra lingua. Magari, avranno più rilevanza i parlanti colti; in ogni caso, i linguisti in linea di massima non fanno che prendere atto dei cambiamenti e, casomai, cercare di capire quando una certa anomalia linguistica cessa di essere tale e diventa normale.

    In sostanza, siamo noi responsabili della salute dell’italiano. Molte persone si arrabbiano per qualcosa che sentono come sbagliato, almeno in base a ciò che hanno studiato; magari se la prendono con i linguisti, con i grammatici, con i lessicografi, con l’Accademia della Crusca; ma di fatto, gli unici, veri responsabili dei processi di cambiamento della norma sono i parlanti. Non ti piace che piuttosto che venga usato al posto di o (quando non addirittura al posto di e)? Non lo usare. Ma sappi che, se la maggioranza delle persone si abitua a usarlo così (quest’estate andrò al mare piuttosto che in montagna piuttosto che al lago, non ho ancora deciso), i linguisti non potranno, alla lunga, che registrarne l’uso. Vediamo un esempio di tweet di questo tono:

    Sí è vero,la lingua la fa chi parla,però non mi sembra che negli ultimi tempi l’eloquio sia cosí forbito,anzi!Forse mi sbaglio,parlo da ignorante,ma non era uno dei compiti della Crusca quello di sorvegliare e tutelarela correttezza nell’uso scritto/orale della lingua italiana?

    2:07 PM · 6 gen 2018

    Ora, seriamente, come potrebbe la Crusca, o chiunque, sorvegliare e tutelare la correttezza dei costumi linguistici delle persone? Dovrebbe dotarsi di una sorta di corpo militare privato che pattuglia giorno e notte le strade (fisiche e digitali) alla ricerca dei trasgressori? Al massimo, i linguisti, gli studiosi, i docenti, gli enti che studiano l’italiano possono far notare un errore, spiegare perché un uso è corretto o sbagliato (levando gli occhi al cielo nel vedere lo scempio di spazi e accenti compiuto in messaggi come questo): possono, insomma, cercare di fare una sorta di prevenzione dell’errore: il resto ricade su ogni singolo parlante.

    La lingua è essenziale per la definizione del sé e della propria tribù, e per difendere noi stessi o la nostra tribù finiamo a discutere in maniera sanguinosa su questioni apparentemente risibili come, appunto, l’italiano, le sue regole, i si dice così e non si dice colà. Persone litigano, amicizie si sfaldano, coppie scoppiano a causa di un accento messo male, un fraintendimento lessicale, un congiuntivo saltato. Magari anche a torto: uno degli effetti collaterali della fossilizzazione di cui abbiamo parlato poco fa, infatti, è di diventare degli spietati difensori di idee a volte reazionarie, conservatrici, magari frutto di una regola mandata a memoria ai tempi delle medie ma mai rielaborata razionalmente. In altre parole, diventiamo dei grammarnazi, dei nazisti della grammatica. Non c’è nulla di gradevole nell’esserlo, nel digrignare i denti davanti a un errore altrui, nel non arretrare mai dalle proprie posizioni, anche quando palesemente errate. Perché non provare, allora, a diventare invece dei grammamanti?

    Basta poco: in sostanza, ricordarsi che non esiste una norma linguistica eterna, ma che questa cambia, a volte nello spazio di pochi anni. Contemporaneamente, tenere a mente che non c’è una lingua giusta, ma tante varietà diverse di italiano, ognuna adatta a un particolare contesto. In breve, esistono situazioni in cui è meglio dire «lui è andato» e altre in cui è preferibile «egli si è recato»; nessuna delle due forme è corretta a priori, sempre. La vera cintura nera di conoscenza linguistica ce l’ha chi sa quando scegliere lui e quando usare egli: chi sa stare, linguisticamente parlando, a proprio agio in un pub a fare gara di karaoke come pure alla prima della Scala. La parola chiave, insomma, è mobilità.

    Le regole, di conseguenza, sono altrettanto relative. In alcuni contesti non è lecito sgarrare (per esempio, in un testo di legge), in altri è concessa la massima libertà espressiva (come in una poesia). Nel mezzo, esiste (o esistono? Ha! Ne riparleremo) una miriade di contesti in cui ci muoviamo tutti noi, più

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