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Eis aei: Per sempre
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Eis aei: Per sempre
E-book137 pagine1 ora

Eis aei: Per sempre

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Info su questo ebook

Due racconti brevi da leggere tutto d'un fiato. Tre personaggi diversi con un denominatore comune: il passato. I primi due, Margaret e Andrea, quel passato lo hanno vanificato fraintendendone i segnali che, se letti nella loro semplice verità, avrebbero potuto dare una svolta formidabile alle loro esistenze. Il momento della chiarificazione arriverà troppo tardi, quando un possibile recupero resta appeso a un filo sottile. Quanta profonda amarezza in quel "Eis aei" (Per sempre), che tale non sarà. Bianca, invece, la dolce autrice del diario protagonista del secondo racconto, "Quando eravamo sorelle", quel passato lo racconta. I ricordi della sua vita e di quella delle amatissime sorelle si snodano sull’onda della memoria. Ritratti di tre esistenze. Ognuna col suo percorso di gioia e sofferenza, partenze e ritorni. Bianca rende omaggio a "quello che è stato", perché sa che lì stanno origine e punto di partenza. La sua vita avrà un epilogo drammatico, ma Bianca sarà serena fino in fondo. Perché la memoria ci rende immortali.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2016
ISBN9788898980871
Eis aei: Per sempre

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    Anteprima del libro

    Eis aei - Daniela Di Cicco

    MicrosoftInternetExplorer4

    EIS AEI (Per sempre)

    PROLOGO

    è tardi per ringiovanire

    troppo presto per dire addio

    Il sole spunta in controluce dietro le rocce e incendia la sabbia.

    Il mare un perpetuo increspare di schiuma e l’infrangere lungo delle onde sulla spiaggia è quasi assordante.

    Ultimo giorno d’estate e i pescatori si riappropriano del borgo, svuotato dei colori artificiali dei turisti, silenzioso finalmente e placido di calma.

    Stanno asciugando gli intonaci e i gradini.

    Esco in giardino. La luce è sempre più alta e intensa, tanto da costringermi a riparare gli occhi con il palmo aperto. Il riverbero sul dorso dell’acqua è forte.

    Respiro il profumo di lavanda e sale.

    È finita la burrasca.

    CAPITOLO 1

    Oggi non è proprio giornata.

    Sono in ritardo, disperatamente in ritardo.

    La sveglia non ha suonato e quando ho aperto gli occhi la luce scialba carica d’umido di questa prima giornata d’aprile mi ha sorpreso.

    Dovrei essere già all’imbarco o per lo meno nelle vicinanze del terminal traghetti e invece sono ancora qui, vestita di tutto punto e digiuna, in attesa di un taxi.

    Il borsone carico e chiuso da ieri sera, le imposte serrate, il letto fatto.

    Solo il tempo di lavarmi il viso e di una spazzolata ai capelli.

    Il radio taxi ha risposto subito per fortuna ma ora Toro 5 sta impiegando ben più dei sei minuti previsti. D’altronde piove e la città si congestiona di niente.

    Esco sul pianerottolo, scendo la rampa che mi separa dal portone.

    Accidenti, che diluvio!

    Eccolo. Arranca lungo la pendenza scivolosa del senso unico.

    Salgo in fretta ma mi bagno scarpe e bagaglio cercando di dribblare le pozzanghere che paiono moltiplicarsi e nascondono totalmente il selciato.

    «Terminal traghetti, per cortesia. Il più in fretta possibile...»

    Toro 5 riparte sotto uno scroscio da foresta pluviale e sgomma a tutta velocità facendosi largo attraverso una cortina d’acqua continua e cattiva. In barba alla stagione teoricamente primaverile, si è alzata anche una nebbiolina sfilacciata e opaca che azzera il tono dell’umore.

    Speriamo di arrivare in tempo.

    Guardo dal finestrino lo scorrere ininterrotto di portoni, semafori, fermate d’autobus con sparuti drappelli di figurine fradicie e incupite, passanti radi si affrettano nei bar e negli uffici, incrocio gli occhi appannati di altri automobilisti nelle innumerevoli, nervose soste da traffico di punta.

    Non ci vuole ancora molto. Il cicalino gracchia richieste e indirizzi. Il tassista sbuffa.

    Scesi dalla sopraelevata, imbocchiamo la rampa verso il porto.

    Sospiro di sollievo. Ci siamo quasi.

    Mi allaccio la giacca e rovisto nella borsetta per trovare il portafoglio, come sempre infilato sul fondo, quando una frenata rovinosa e violenta mi sbalza contro i sedili anteriori, facendomi battere la fronte sul poggiatesta dell’autista.

    «Che caspita??!» riesco a borbottare nello stupore della botta.

    «Ma che succede...?!» ora il tono è più alto, quasi acuto. Sotto l’imprevedibilità dell’incidente prende forma il disappunto dell’offesa subita. «Che è successo?!!» grido ora all’autista che, dopo aver inchiodato così bruscamente, spalanca la portiera e sibilando un «Oh nooo!» salta giù con insospettata agilità.

    Si china davanti al muso del taxi mentre io, da dietro, ho la visuale coperta dalla posizione arretrata e da uno spesso sipario d’acqua battente.

    Intanto un capannello di passanti si sta addensando intorno alla vettura.

    Con gesto fulmineo apro la mia portiera e scivolo giù, dentro il nubifragio. Incurante dello scroscio che mi sta ammollando fino all’osso, mi sposto in avanti, facendomi largo con sgarbata decisione.

    Davanti alle ruote di Toro 5, sull’asfalto screpolato, sta disteso un uomo. Al primo sguardo colpiscono le scarpe. Mocassini morbidi scamosciati, di ottima fattura, certo non adatti ai monsoni che si stanno abbattendo oggi su Genova. E, straordinario, sono bagnati solo un po’ in punta, segno che il loro possessore deve essere appena sceso da un mezzo asciutto. Sopra le calzature, il risvolto di un paio di pantaloni di lana leggera, grigi e perfetti di piega. Più su la giacca a chiudere una camicia azzurrina ora lievemente macchiata di pioggia. Niente cravatta. Al suo posto una larga, stupefacente macchia di sangue, così fuori luogo in quella perfezione di stile e così assurda per un’ordinaria mattina come questa, da sembrare falsa. Una finzione scenica. Un film da vedere la sera a casa, seduti comodi a sgranocchiare biscottini di frolla.

    L’impatto è stato violento e il cofano di Toro 5, una monovolume giapponese, ha subito una bella ammaccatura.

    E probabilmente io perderò il traghetto. Devo avvertire i ragazzi.

    Questo viaggio è stato organizzato da mesi e guarda un po’ cosa va a capitare!

    Non sento neppure il vociare e il concitato scambio di battute intorno a me.

    Qualcuno sta chiamando il 118, un uomo con l’impermeabile giallo sta girando l’uomo su un fianco, aiutato dal tassista, visibilmente sotto choc.

    Nel morbido movimento per sistemare la vittima di lato, rotola via, verso il bordo del marciapiede da cui evidentemente il malcapitato era sceso, un involucro tondo e colorato. Sembra carta lucida blu, come quella che si usa a Natale per fare il cielo del presepe. Un fiocco argentato lo sigilla, ma nel movimento rotatorio si è schiacciato e allentato. Un vigile giovane e magro lo raccoglie.

    Solo ora il mio occhio incontra il viso dell’uomo e un brivido tagliente mi attraversa la spina dorsale. Un pugno stringe lo stomaco e sudori freddi mi avvisano che sto per svenire.

    Quegli occhi azzurri ancora spalancati io li conosco bene. Oh se li conosco.

    Poi una mano mi afferra mentre cado a peso morto davanti a tutti.

    CAPITOLO 2

    Un’esplosione di arcobaleni. Ma la cromia è molto più estesa.

    Una scomposizione in sfumature innaturali e frammenti pulsanti mi avvolge e il mio corpo fluttua nel vuoto. Che la morte sia questa?

    Un perenne dondolare nel nulla, una perdita di contatti tangibili, un movimento circolare dentro all’immenso caleidoscopio di un universo suddiviso e insieme miscelato di tinte, di forme che si sussurrano, inseguendosi all’infinito senza raggiungersi mai? Sto sospeso in una sensazione di assoluta libertà. Nessuna sofferenza ma una sconfinata meraviglia che mi calma, una sorta di analgesico cosmico che convoglia le ansie della natura terrestre in un oblio siderale, fuori dalla pena quotidiana dell’esistenza.

    Davvero è questo il cielo?

    Qualcosa di umano ancora, però, è rimasto perché la memoria non è del tutto spenta.

    Qualcosa ricordo.

    Mi chiamo Andrea. Andrea? Ronchese. Sì, Andrea Ronchese.

    Piccole schede d’informazione si affollano in testa, quella che era la mia testa e ora è solo un’immagine che galleggia nello spazio. Ecco, sì. Sto camminando e sono felice. Il perché non lo so più, tutto ora è confuso e sfocato.

    Sono appena sceso dalla metro, sotto un acquazzone, e ho fretta.

    Non ho mai amato la pioggia o forse ho un appuntamento.

    No, non è un appuntamento. Devo partire, sì partire per un viaggio importante. O almeno così mi pare.

    Sono vestito leggero e ho le scarpe nuove, primaverili, che mi piacciono così tanto.

    Devo correre. Qualcosa mi dice di muovermi o perderò... cosa?

    Il treno forse?

    Le tessere del mosaico di quello che è stato sono un po’ lente a ritrovare i giusti profili d’incastro e faccio fatica a riafferrarne il disegno.

    Tutto si muove in un liquido desiderio di sonno e vorrei solo lasciarmi andare.

    Dunque sono in partenza. Probabilmente in ritardo e sotto l’acqua.

    Ho a tracolla un borsone e ovviamente non ho l’ombrello. Il cappello a tesa larga dovrebbe proteggermi raccogliendo le gocce a mo’ di grondaia. L’idea del cappello grondaia mi fa ridere.

    Mi ricorda le storielle che si inventava mio fratello quando eravamo piccoli, per farmi stare buono in attesa che mamma rientrasse dalla spesa, del cappello grondaia e dell’omino di pan di zenzero.

    Strano mi venga in mente ora. Ma la mente viaggia a ritroso, in un passato davvero datato, più sicura e precisa in questo, che non nel riordino degli avvenimenti recenti. Forte, mio fratello. Avrebbe dovuto fare lo scrittore, sempre pronto a rielaborare con ironia il tessuto consunto del vivere comune, trasformandolo in trame sorprendentemente originali. Chissà lui come avrebbe descritto tutto questo.

    Dunque allungo il passo.

    Un piccolo ingombro mi occupa le mani. Un pacchetto forse?

    Sotto le dita lo scivoloso contatto della carta inumidita. Cerco di ritrovare il percorso dei cinque sensi affinché mi rendano il fotogramma dell’ultima scena vissuta. Sento

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