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Fulmicotone
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E-book232 pagine3 ore

Fulmicotone

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Info su questo ebook

È tutto vero! L'avventura qui è reale, quella della vita di ognuno di noi: un libro autobiografico febbrile, fluviale, a tratti devastante, ma pieno di arguzia, stimoli, mordente. Da leggere d'un fiato. Nulla di ciò che viene raccontato nel libro è frutto d'invenzione. Nessuna esagerazione estetizzante, nessuna deformazione letteraria, nessun aggiustamento romanzesco. Questa è la grande, coinvolgente potenza di Fulmicotone: un'irriducibile autenticità.
Un libro che spesso sacrifica all'autenticità la coesione formale, una gestione magari più ragionata del racconto, un pudore che viene sistematicamente stracciato nella precisione da entomologo con cui si restituisce il tumulto interiore, la cecità della furia, la scientificità icastica del turpiloquio.
Un libro che non teme ingenuità, screziature, cambi subitanei di velocità, ritmo, atmosfera, stile, prospettiva. Un libro che potrebbe risultare confuso, disomogeneo, ostinatamente sbagliato. E che proprio in questo trova la sua vulcanica bellezza.
Il valore dell'esperimento della Bettinelli è proprio nell'assoluta libertà stilistica, nel fregarsene altamente di convenzioni, stilemi, ammiccamenti, opportunità.
Una grande seduta di autoterapia, scandita dai riff ossessivi dei Led Zeppelin e guidata dalla calda voce di Mark Lanegan.
Un libro che rigetta in faccia al lettore tutto lo squallore acido dell'esistenza, eppure lo lascia, al chiudere dell'ultima pagina, con un'inebriante gioia di vivere.
E con una ilare, irrefrenabile, appagante commozione.

 
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2020
ISBN9788835899211
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    Anteprima del libro

    Fulmicotone - Virginia Bettinelli

    Nepal

    Occhi impiastricciati di mascara

    Ecco, un bicchiere in più di rum da Cuba invecchiato 23 a ños e la mente parte fuori dai binari, cerco di semplificarmi la vita, ripenso alla scrittura di Kafka o del poeta Rimbaud e rivolgendo a voi il pensiero, Maestri, io a voi m’inchino, non sono che una cacchetta di mosca dimenticata sul bordo del davanzale, rinsecchita dal sole.

    Ma il fatto è che io ho una storia in pugno che mi frulla in testa e non riesce ad uscire perché dalla testa al braccio al foglio questa cosa si perde, allora ho tolto la barriera e ho deciso di far scorrere e rifluire i pensieri, i ricordi frantumati . Ricordi esplosi in brevi racconti. Se ripenso al primo libro che davvero mi ha coinvolto e che ho divorato poco più che bambina, questo è stato Il bar sotto il mare di Stefano Benni, brevi storie strampalate raccontate da altrettanti personaggi sfasati.

    Ecco il 23 a ños ha buttato giù la barriera di cemento e la diga è straripata. Gli occhi impiastricciati di mascara non sono causati dal pianto o dalla stanchezza; no, no, sono il risultato di risate fragorose accompagnate da lacrime di gioia: storia ti ho in pugno, ti tengo per le palle e non ti mollo.

    Non c’è niente di speciale, non c’è niente di eclatante o romantico, c’è solo umanità nient’altro che passaggi sulla terra scanditi dal banale ticchettio della vita quotidiana unici e irripetibili, soffi di esistenze.

    Non c’è copia che renda il valore dell’originale.

    Scrivimi un libro dicevo a mio padre, se non posso fare le mie cazzo di esperienze; così leggo la tua di vita e la mia la passo seduta sul divano a leggere la tua. Ma non è così. Ognuno fa il suo, ma è fondamentale sapere che ognuno ha bisogno degli altri per muoversi in avanti. Un articolo sbiadito su una rivista frivola mi ha fatto riflettere: You need the others to keep you going . Eccomi lì attaccata al traino di persone strane che col loro bagaglio aumentano il mio. Come se le piccole esperienze di ognuno fossero una piccola parte fondamentale del contenuto della mia valigia personale e più vai avanti, più questa valigia si riempie di cocci, di frantumi… e più pesante diventa, più carica la ritrovo di un’infinita iride di colori smaglianti nella loro unicità. Le sfumature argentee delle squame di una trota che nuotando riflette i bagliori luccicanti del sole, o ra tutto m’è chiaro Sir, come un lago senza fango Sir, come un cielo di montagna sempre blu.

    Ci sono vite incasinate che non riescono mai a sciogliere quei nodi che si son formati ancor prima del cordone ombelicale.

    Vite tristi, un po’ sfigate, per le quali la ruota sembra non girare mai. Vite incazzate, vite traballanti, vite corte e spezzate che però hanno dato vita a loro volta.

    Vorrei raccontare di mio padre, anche se io a scrivere non sono mai stata un granché.

    Un caro amico un giorno mi disse che scrivere di lui sarebbe stata per me un’esperienza catartica; a me quando lo disse venne subito in mente il comico di Zelig e mi scappò da ridere, ma la verità è che io ne ho bisogno. Mio padre l’ho disprezzato, odiato, apprezzato ed amato con una sequenza di stadi ossimorici fino a star male; con la dolcezza e l’amarezza che ricoprono le esistenze di tutti. Pulp quanto basta a far passare la voglia di mangiare, ma allo stesso tempo di abbuffarsi e vomitare e ancora ingollarsi di delizie. Catartico significa purificatorio, liberatorio. Il metodo catartico, in psicoanalisi, è quello basato sulla rievocazione dei traumi vissuti. Non intendo piangermi addosso o scrivere un romanzo avventuroso, comico o strappalacrime, ma raccontare una storia come la conosco e l’ho vissuta io.

    E dai fumi del rum rinsavisco con gli occhi impiastricciati di mascara.

    PRIMA DELLA NASCITA

    Think outside the box

    Johnny Chopper

    Johnny Chopper era un ragazzo nato in una famiglia borghese benestante, con lo sguardo struggente e grandi desideri che mai portava a termine per il semplice fatto che non aveva mai dovuto far fatica, uno che appena aveva il culetto arrossato, la mamma lo seguiva con la cremina per strofinargli il buchetto stropicciato. A Johnny Chopper però piaceva pensare d’essere un rivoluzionario, un comunista sfasciacazzo con idee radicali e lottare per il popolo e per sentirsi realizzato all'interno dei suoi panni da fighetto travestito da sbandato, si ficcava nelle situazioni più disparate e frequentava persone ai limiti della società, come mio padre.

    Johnny era un bel ragazzo alto e magro con i capelli lunghi che i genitori avrebbero voluto tagliare, ma che lui con piglio capriccioso pretendeva di tenere in testa lisci e morbidi di balsamo, sempre selvaggi come quelli di una star che frequentava lo Studio 54. Giubbotto in pelle scamosciata con le frange quasi lunghe come quelle del cantate degli Who, molto alternative, cool.

    Faccia pulita, dita affusolate e bianche che han lavorato poco, il Sig. Chopper era soprannominato così perché guidava un Chopper fiammante color arancio tramonto della Patagonia, con le forcelle talmente lunghe da informicolare le mani appena le appoggiavi sulle manopole lassù in cima. Possedeva una moto simile a Capitan America sulla scia di Easy Rider, solo per pochi privilegiati. Una moto alleggerita da parafanghi, lucette inutili, sedile collocato a qualche centimetro sul livello del terreno, cromata a specchio nei dettagli strutturali. Quei predellini posizionati talmente avanti che toccava mettere scarpe con la zeppa per riuscire a schiacciarli, ci si doveva spalmare le balle come fossero Nutella sul piccolo serbatoio a forma di goccia. Un gioiellino, insomma, per gli appassionati del genere.

    Partiva, scorrazzava, studiava poi mollava, lavorava e poi mollava e tornava a casa sempre.

    Johnny aveva cercato di farla finita, più per mostrarsi nudo nel suo osceno egocentrismo che per portare a compimento questo progetto estremo. Agonizzante nel suo dolce far nulla e nel vuoto pneumatico della scarna quotidianità con poco da realizzare, ma tanto tempo per pensare.

    Johnny tentò la prima volta. Saltò a cavalcioni del suo amato chopper e si diresse verso il più vicino passaggio a livello. Trovati i binari, invece di attraversarli da parte a parte, Johnny girò a sinistra bruscamente e, ritrovandosi ben presto sui sassoni all'interno delle rotaie, proseguì così per ore sbatacchiando i denti per l’effetto rimbalzo causato dalle traverse di legno e amplificato dall'assenza di ammortizzatori rimossi dalle super forcelle che fa molto figo. Le frangette del giubbino ballonzolavano dappertutto su e giù su e su e giù e avanti, avanti e ancora avanti senza che un cazzo di treno gli facesse capolino, almeno per dare il colpo di grazia a quelle povere frange bistrattate, così come quella sua tormentata esistenza.

    Deluso arrivò fino a non so quale frazione in culo al mondo, rimboccò un altro passaggio a livello e ne uscì ulteriormente ama reggiato e malinconico, ma con tanti nuovi spunti per il prossimo futuro.

    Ho immaginato di essere sul passaggio a livello in uscita e di aspettarlo giocando con i sassi della stradina un po’ stufa per l’attesa e finalmente udire, nel silenzio interrotto solo da qualche grillo insolente, il rombo smarmittato del chopper surriscaldato; mi alzo con la mano alla fronte per proteggere lo sguardo dal sole ormai basso all'orizzonte e lo vedo arrivare lentamente, in principio come un puntino con qualche riflesso lucido proveniente dalle cromature, poi sempre più vicino. Ora distinguo i forcelloni, poi vedo i capelli svolazzare nel vento e infine riconosco le frange... quando è vicino lo sento bestemmiare, gira a destra e se ne va. Che spettacolo!

    La seconda volta fu più drammatica. Johnny questa volta ebbe una vera idea di merda per farla finita: passare col rosso a tutta velocità... passò anche questa volta non so quanti semafori rossi prima d’impattarsi violentemente addosso alla portiera di un’auto con all'interno una signora che vide arrivarsi addosso il furibondo Sig. Chopper con le frange stizzite all'indietro. Lei gridò ed i capelli bigodinati le si abbandonarono sulle spalle come dopo un bel colpo di piastra rovente. Rumore di forcella che si pianta e davanti Johnny che vola sempre più in alto, molto più in alto e scavalca l’auto arrivando in planata molti metri oltre. Il fatto è che la moto era distrutta, la macchina della signora era sezionata a metà e pure la signora non stava un granché bene, ma Johnny niente, solo qualche frangia lasciata sull'asfalto, nulla di più!

    Johnny decise che era ora di finirla con questa storia di farla finita.

    Il padre di Johnny aveva molto denaro e quindi possedeva una bella spider di quelle che mio padre aveva in fissa. Mio padre è un pilota mancato, spericolato sì, ma sapeva guidare: moto, auto per lui dovevano essere bolidi e non avevano segreti. Di un motore malato mio padre sapeva fare la diagnosi ad orecchio e le sue mani erano miracolose per ravvivare qualsiasi ruggito di motore.

    La prima Kawasaki della quale ho ricordi era gialla più o meno come quelle di adesso, ma scarna con meno carter, più rudimentale, col cupolino davanti dove ficcarci la testa e giù tutta, quelle da andare a manetta. Con quella portò mia madre ad Amsterdam una volta, che viaggio!

    Mio padre diceva che la vera emozione arriva quando la velocità è talmente elevata che nel rettilineo la strada diventa un triangolo... Una volta di ritorno dal lago col gruppo di amici raccattati all'ultimo minuto era buio e cominciava a piovere. Raccolti gli asciugamani in fretta, tutti ci dirigemmo a piedi lungo il sentiero per raggiungere il parcheggio. Mio padre era in moto, gli altri in macchine di vario genere: 2 cavalli, Renault 5 e forse c’era di mezzo anche l’Opel catarro da lavoro. Mio padre decise di portarmi con lui. Io mi divertivo un sacco in moto, perché da piccoli l’incoscienza è uno stato d’animo e di lui mi fidavo: sarei andata ovunque. Mia madre si opponeva, ma io ormai ero già in sella con il casco mollaccione troppo grande per la mia testolina. Prima di partire, lui mi disse che con la pioggia sarebbe stata un’esperienza unica; io mi preoccupavo del freddo. Indossavamo pantaloncini corti e maglietta e qualcuno dei ganzi mi aveva prestato un giubbotto di jeans anche questo sovradimensionato, ma mio padre disse solenne: Sentirai la pioggia sulla pelle, le gocce saranno come degli spilli. Buio, cominciava a venir giù di brutto, le macchine ormai erano dei faretti microscopici riflessi sugli specchietti retrovisori ed io ormai prigioniera di questo psicopatico come il tenente Daaan di Forrest Gump , quando nella tormenta sull'albero mozzato litiga con Dio. La pioggia all'inizio era una figata, ma poi cominciò a farmi male sul serio. Sembravano migliaia e migliaia di piccoli spilli che mi si conficcavano nella pelle di bambina, ma ormai era troppo tardi, ero sola in mano ad un pazzo fuori di testa. Credo avesse rallentato ad un certo punto solo perché mia madre ci accostò e imprecando dal finestrino, gli fece cenno di fermarsi per farmi montare in macchina, ma lui ripartì dando gas e seminandoli di nuovo... Sono arrivata a casa sana e salva, un po’ sconvolta e spaventata: è stata l’unica volta nella vita che ho sentito gli spilli di pioggia sulla pelle.

    Johnny una sera, risorto dalle ceneri dopo i vari tentativi falliti, uscì in piazzetta con la spider nuova di zecca del padre. Mio papà aveva la bava alla bocca e lo pregava con la faccia sforzata da bravo ragazzo e con gli occhi luccicanti di farlo guidare. No, no, no, Ma dai famela provar!, No, no, no!, Ma dai sol che sinque minu ti!, No no no me pare me copa!, Ma come xe che’l fa a saverlo? Mhmmm va be dai ma sol che un giret!.

    Scambio di posto. Mio padre era assatanato cominciò a sgasare di prima, i copertoni stridevano di brutto, la gente si girava, chi imprecava e chi applaudiva; Johnny era dentro non poteva più scendere come me incastrata sul sellino alto della moto, sequestrati dal pazzo furioso. Mio padre sghignazzava e via, fermo al parcheggio, prima ingranata giù il pedale a fondo e giro a 360 gradi. La trazione posterie non ha rivali in quanto a divertimento, sgasata e freno a mano… No, no, no, no pian che se copemo... me pare me copa!, Benon cussì! Così magari stavolta te ghe'a fa!. Una risata nella notte irrompeva fuori dai finestrini. Nel buio profondo di fronte c’era un breve rettilineo fra due file di case medio borghesi costruite negli anni ‘70 con i giardinetti curati e la siepe bassa davanti alla recinzione… una sbandata per la velocità e la macchina s’imbarcò andò a destra poi a sinistra, mio padre diede un colpo di controsterzo, tiene, la tiene, la tiene e cazzo no no non la tiene non la tiene porca troia! Johnny gridò e si tenne forte sulla maniglia anti-panico, immaginò suo padre che lo seguiva col badile per il cortile per tirarglielo di taglio sugli stinchi! Quanto dolore provava già al pensiero! La macchina svirgolò un’ultima volta e partì di punta sulla recinzione di una delle tante casette. Plink plonk plonk, 3,4, paletti se ne volarono via, la corsa furiosa rallentò e si fermano così quasi capottati con le teste verso il centro della strada. Il rombo, la frenata, lo sconquasso di paletti, svegliarono le donne che assonate nelle loro vestaglie rancide sempre con quelle cose in testa ficcarono il naso fuori dal pertugio nella notte e sbirciando videro la macchina in una posizione inverosimile e cominciano a gridare in coro come durante una messa gospel: I se gà copà o signor benedet i se gà copa! ... alcune prese da malore... si tenevano il viso e sembravano una serie di urla di Munch… e mio padre stuntman di professione, uscì in un balzo dal finestrino aperto e in piedi sul muretto sfondato a sembrare imponente, alzò la mano e gridò: Donne tornate tutte dentro, via da qui tutte a dormire!... e lo ripeté più volte con tono perentorio e non ci furono repliche. Tutte le vestaglie di colore sbiadito girarono e sparirono inghiottite dal buio delle loro case.

    Una volta risolto il problema delle vestaglie nella notte, c’era il problema del badile. Mio padre guardava Johnny vulcanizzato nella pelle del sedile che non reagiva e stava immobile; mio padre partì col convincimento… Scusa casso no so cosa che xe successo vara a mi me despiase mai gavaria pensà na roba del genere....

    Johnny cucito al sedile non dava cenni di reagire.

    Respira, non è ferito ma il pensiero del badile è padrone dei suoi ragionamenti. Ouh Johnny dighe che te yeri ti al volante e che un can el ga traversà e che ti te gà sbanda ouh dai no star fa cussìtta... to pare el ga schei la mete a posto come nova...

    Johnny si girò con lo sguardo vuoto, la pupilla, inglobò l’iride e la parte bianca. Bon dai fasemo cussì se ghe digo che te si sta ti xe pezobestemmie di vario genere alternate da imprecazioni colorite mani al cielo man in scarsela e via parlando. Johnny a piedi fino a casa.. mio papà a piedi fino in piazzetta. Cosciente della cazzata triste e pensieroso.

    Presto si scoprì che Johnny, al quale le palle erano rimaste spalmate come Nutella sul serbatoio, invece che dire la bugia concordata si sbrodolò addosso e per la paura fottuta del badile, riversò su suo padre il piagnisteo più triste del mondo, e così mio papà si trovò a pagare le prime di una lunghissima serie di interminabili rate di debiti per risistemare la macchina al padre del Sig. Chopper... che poi si arrangiasse con autoradio prese in prestito in affitto da altre persone o con borse di tè coltivato sui tetti, questo è un altro discorso. Sta di fatto che Johnny l’avrebbe avvolto sulle frange e gettato giù dal ponte, ma pagò fino all'ultimo centesimo.

    Appena la macchina fu completamente ripagata e parcheggiata al sicuro all'interno del garage della villa, Johnny ossessionato da un moto ribelle contro la dittatura di suo padre prese una bottiglia, la riempì di benzina ci mise uno stoppino, aprì diligentemente il portellone del garage con una sigaretta fra le labbra diede un colpo di capelli all'indietro si accese una sigaretta e con la stessa fiamma diede fuoco allo stoppino lo guardò con l’occhio brillante infiammarsi per bene e tirò con forza ben diritto dentro il garage... un fuoco rosso ardeva dappertutto. Girò i tacchi giusto in tempo per non beccarsi il badile. Fiero raccontò tutto a mio padre che disse: Bravo mona te podevi farlo prima che finissi de pagar le rate.

    Questa è la storia di Johnny Chopper un malinconico burlone.

    Malcricca

    Essendo mio padre considerato un peso per chiunque, dalla madre alla famiglia del patrigno, un po’ anche dalla nonna che non riusciva a sostenere tutto da sola e che al massimo per merenda poteva offrire una fetta di pane raffermo col burro e un po’ di zucchero, (la merenda più buona al mondo), mio papà venne ficcato in collegio a Milano a 16 anni e lì ebbe modo di frequentare la creme del la creme , tutta concentrata all'interno di quattro fatiscenti mura. Lì imparò un po’ il mestiere. Aveva deciso di lavorare il materiale più duro, il ferro, con dovizia , intelligenza e forza. Là cercavano d’insegnare a vivere ma il rispetto era poco e di sani principi ce n’erano ancora meno.

    Una sera ci scappò quasi il morto, quando il gruppetto di ragazzi assatanati e lasciati in disparte, si riunì sopra la tromba alta delle scale al terzo piano e lanciò un oggetto da

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