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La poetica della mente: Pensiero, linguaggio e comprensione figurati
La poetica della mente: Pensiero, linguaggio e comprensione figurati
La poetica della mente: Pensiero, linguaggio e comprensione figurati
E-book752 pagine10 ore

La poetica della mente: Pensiero, linguaggio e comprensione figurati

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Info su questo ebook

Raymond Gibbs dimostra in questa opera che la cognizione umana è profondamente poetica e che l’immaginazione figurata è il modo in cui capiamo noi stessi e il mondo in cui viviamo. Secondo una visione tradizionale della mente, il pensiero e il linguaggio sarebbero di per sé letterali e il linguaggio poetico una speciale capacità umana che richiederebbe abilità linguistiche e cognitive diverse da quelle che sono impiegate nel linguaggio comune. È questa particolare concezione che ha imposto gravi limitazioni allo studio accademico della vita mentale e al modo d’intendere normalmente l’esperienza umana. La poetica della mente capovolge l’impostazione tradizionale, mostrando quanto gli aspetti figurati del linguaggio rivelino della struttura poetica della mente. L’autore passa in rassegna un enorme corpus di ricerche elaborate in ambiti disciplinari diversi, quali, psicologia, linguistica, filosofia, antropologia e critica letteraria, per stabilire importanti connessioni tra la struttura poetica del pensiero e l’uso quotidiano della lingua. La poetica della mente unisce all’utilità del manuale lo spessore critico del saggio, perché sottopone le moderne teorie filosofiche, linguistiche e letterarie del linguaggio figurato alla sistematica verifica della psicolinguistica e della psicologia cognitiva. È per questa ragione e perché riesce a collegare il lavoro empirico sul linguaggio figurato ai temi più generali della natura del pensiero e del ragionamento quotidiani che questo libro sarà di estremo interesse per studenti e ricercatori di psicologia, scienze cognitive e linguistica.


“La poetica della mente è la migliore dimostrazione di cosa s’intende per scienze cognitive: una straordinaria analisi delle prove raccolte da molteplici discipline a favore della tesi che il pensiero è intrinsecamente figurato, cioè, metaforico, metonimico e ironico. L’evidenza sperimentale è enorme e non esiste al mondo uno studioso che la padroneggi meglio di Ray Gibbs, uno dei maggiori psicologi sperimentali del nostro tempo. La sua trattazione è limpida e magistrale. Chiunque sia dell’idea che quando pensa normalmente, lo fa soltanto in maniera letterale, dopo la lettura di questo libro dovrà ricredersi”. — George Lakoff, autore di Metafora e vita quotidiana.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2016
ISBN9788878535985
La poetica della mente: Pensiero, linguaggio e comprensione figurati

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    Anteprima del libro

    La poetica della mente - Raymond W. Gibbs, Jr

    Raymond W. Gibbs, Jr

    La poetica della mente. Pensiero, linguaggio e comprensione figurati

    © 1994, Cambridge University Press0-521-42992-7

    © 2006, Edizioni Sette Città88-7853-056-5

    Traduzione di Daniele Niedda

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

    ebook realizzato da Ilaria Maria Antonelli.

    Stage del Dipartimento di Scienze Umane e della Comunicazione (Disucom) dell'Università degli Studi della Tuscia presso le Edizioni Sette Città.

    ISBN: 978-88-7853-598-5

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    ​Capitolo Primo

    Capitolo Secondo

    Capitolo Terzo

    Capitolo Quarto

    Capitolo Quinto

    Capitolo Sesto

    Capitolo Settimo

    Capitolo Ottavo

    Capitolo Nono

    Capitolo Decimo

    Bibliografia

    Indice dei nomi

    Ringraziamenti

    Prefazione

    Prefazione

    I

    Fissare al 1836 lo spartiacque temporale della fondazione delle discipline che si occupano di linguaggio ha ormai assunto il sapore della convenzione tra gli studiosi del settore. Qualche decennio dopo la pubblicazione postuma dell’opera di Wilhelm von Humboldt Über die Kawi-Sprache auf der Insel Java la ricerca empirica e la riflessione sulle lingue si erano ormai scisse definitivamente tra linguistica e filosofia del linguaggio. Per dirla con Tullio De Mauro, con Humboldt muore l’ultimo doctor in utroque, ché non sarà mai più dato ritrovare nella storia del pensiero l’opera di un filosofo altrettanto competente nella ricerca linguistica specialistica, così come sarà impossibile il lavoro di un linguista che lasci trasparire analoghe conoscenza e pratica di questioni propriamente filosofiche. In ambiente strutturalista, da un lato il campione della linguistica Ferdinand de Saussure, pur animato da spirito filosofico, non aveva certo grande familiarità coi classici della filosofia antica e moderna, dall’altro il campione della semiotizzazione del kantismo, Ernst Cassirer, pur essendo un grande lettore di studi etnoantropologici, non poteva dirsi di sicuro un esperto di ricerca linguistica. Eppure queste due anime humboldtiane si ritrovano nel concetto di lingua come forma, che è l’anticamera della legittimazione teorica della diversità delle lingue. Nel primo volume di Filosofia delle forme simboliche dedicato al linguaggio, Cassirer, richiamandosi esplicitamente alla lezione di Humboldt sui diversi modi di vedere il mondo che distinguono le lingue storico-naturali, assegna alla lingua il ruolo ontologico della formazione del pensiero: «Quando […] si tratta di foggiare in concetti la materia dell’interna percezione e sensazione, ciò dipende dall’individuale facoltà rappresentativa dell’uomo, che è inseparabile dalla sua lingua» (120). Nel capitolo sul valore linguistico del Corso di linguistica generale, Saussure arriva alla stessa conclusione; neppure per lui sembra esserci posto per un pensiero pre-linguistico. Lungi dall’essere sostanza, la lingua non può che essere forma, un sistema di valori puri senza il quale il pensiero resterebbe una massa amorfa e indistinta e l’elemento materiale non meno indeterminato e fluttuante. Il ruolo della lingua è quello dell’intermediario tra dato mentale e dato materiale, illustrato nello schema seguente

    in cui tra il piano A delle idee confuse e il piano B dei suoni indistinti interviene la lingua a segmentare in unità specifiche la loro unione. E come per Humboldt e Cassirer, ciascuna lingua opera suddivisioni diverse tra i due elementi che costituiscono il segno nella sua radicale arbitrarietà. Questo legame creativo che humboldtianamente e saussurianamente la lingua ha con la comunità dei suoi parlanti (la massa parlante, nei termini di Saussure) e la particolare epoca storica (il tempo, sempre con Saussure) assomiglia molto ai concetti di onniformatività e onnipotenza semiotica elaborati da Hjelmslev e Prieto, ossia la capacità di ogni lingua di dominare tutti gli altri codici, ivi incluse tutte le altre lingue – l’intrinseca capacità di tradurre, la possibilità che solo la lingua offre di «lottare con l’inesprimibile finché si arrivi a esprimerlo», come diceva Kierkegaard.

    In ambiente cognitivista, pur identificando questo particolare tipo di creatività con la "rule-changing creativity, l’attività creatrice di cambiare le regole del codice, Noam Chomsky ha finito col dare più peso teorico alla rule-governed creativity. La vera e propria creatività chomskiana secondo De Mauro, quella regolare" o di langue, presiede al funzionamento di codici che possono avere un numero infinito di segni a partire da un numero finito di unità di base e regole sintattiche (ad esempio, combinatorie e calcoli). Tale scelta di campo ha portato Chomsky a oscurare la diversità delle lingue storico-naturali che viene ridotta a una dimensione di pura superficie, laddove assurge a rilevanza scientifica la ricerca in profondità degli aspetti comuni a tutte le lingue, ovvero gli universali specifici di una facoltà autonoma del linguaggio. È questa opzione che lo psicologo e psicolinguista sperimentale Raymond Gibbs, autore dell’opera che presentiamo al lettore italiano, definisce scommessa generativista. Come vedremo, Gibbs in realtà punta sul cavallo del cognitivismo, che definirò puro e di seconda generazione per distinguerlo dal generativismo di chiara marca chomskiana. La poetica della mente è infatti un prodotto tipico della scienza cognitiva americana, che proprio alla palestra di Chomsky ha cominciato a muovere i primi passi.

    II

    Gibbs apre e circolarmente richiude La poetica della mente con una domanda: «Perché l’immaginazione poetica interessa alla scienza cognitiva?». La risposta è tutta nella tesi che si prefigge di dimostrare nelle pagine che seguono, vale a dire che la poesia è la forma della mente umana; tesi che socraticamente – più che romanticamente – risuona nell’epigrammatico invito finale a riconoscere il poeta dentro ciascuno di noi. Il pregiudizio consolidatosi nella nostra cultura, secondo il quale il pensiero figurato dipende da quello letterale, è il punto di attacco dell’autore, e viene destrutturato impiegando gli strumenti analitici di numerosi saperi specialistici, tra cui la psicolinguistica sperimentale, l’antropologia culturale, la critica letteraria e la filosofia del linguaggio, e facendo ricorso alle evidenze linguistiche raccolte nei contesti discorsivi più disparati: dalle poesie di Pablo Neruda, Emily Dickinson e Robert Frost, alle canzoni degli Eurythmics, ai discorsi politici, alle espressioni slang dei neri di Philadelphia. Ai sostenitori del primato del pensiero letterale potrebbe forse bastare la lettura dei primi cinque capitoli del libro per rivedere l’idea che la lingua figurata vìoli delle norme, il cui insieme sarebbe da riportare per l’appunto alla letteralità. Appare chiaro infatti, arrivati già a metà dell’opera, che il concetto di pensiero letterale non tiene più per l’accertamento delle avarie linguistiche, non funziona da standard per la misurazione della trasgressione verbale rappresentata dalle espressioni figurate, secondo quella che Gibbs più volte definisce la cultura tradizionale. Proprio dal rapporto pensiero-linguaggio riparte Gibbs, cogliendo il perno teorico attorno al quale tutto gira. Lo studioso analitico americano della mente e del linguaggio non può eludere la scelta di campo tra generativismo e cognitivismo.

    Nel programma delle teorie generativiste delle grammatiche di Chomsky e della sua scuola, gli universali linguistici vengono identificati con una sintassi che è completamente sganciata da questioni primarie quali significato, contesto, memoria, intenzione comunicativa e conoscenze di base, e quindi riduce la lingua ad un insieme di regole per la manipolazione di puri simboli formali. A partire dai primi anni Sessanta dall’interno del generativismo chomskiano – strenuamente combattuta dal maestro – prende forma la teoria della semantica generativa a opera di George Lakoff, Haj Ross e Jim McCawley, che dimostrano l’intervento regolativo di fattori semantici e pragmatici nelle occorrenze sintattiche di frasi e morfemi, e avanzano la tesi della priorità della semantica sulla sintassi. Si tratta pur sempre di un tentativo di coniugare logica formale e grammatica generativa, ché per semantica s’intende qui solo logica deduttiva e teoria dei modelli. Ciononostante, la semantica generativa si rivela uno snodo cruciale nell’ambito del cognitivismo anglo-americano, non foss’altro perché apre la strada alla cosiddetta seconda generazione di cognitivisti, che si sviluppa a metà degli anni Settanta. È in questo periodo che i semantisti generativi si convincono dell’inconsistenza scientifica del tentativo di coniugare linguistica generativa e logica formale e, basandosi su scoperte come quelle della neurofisiologia del colore, dei prototipi e delle categorie di base, dei concetti di relazioni spaziali e della semantica dei frames, intraprendono un vero e proprio programma di rifondazione della linguistica generativa in grado di assorbire e adattarsi ai risultati della ricerca delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Protagonisti della svolta da allora conosciuta come linguistica cognitiva tra gli altri George Lakoff stesso, Gilles Fauconnier, Len Talmy, Ron Langacker e Mark Johnson: tutti studiosi che tracciano una netta distinzione rispetto ai cognitivisti della prima generazione quando sottolineano l’errore di Cartesio, per citare il titolo del libro di Antonio Damasio.

    Sulla base di numerose evidenze scientifiche, appare sempre più chiaro che della mente non si può più dare conto solo attraverso lo studio delle sue funzioni cognitive separate dal cervello e dal corpo, quasi fosse un congegno meccanico che sovrintenda all’elaborazione di informazioni, rinchiudendo così inesorabilmente l’intelligenza nella dimensione dell’artificiale e riducendola alla mera computazione di simboli formali senza significato, come succede nei programmi degli elaboratori elettronici. Al posto di una teoria della mente disincarnata, si afferma una visione profondamente incorporata della mente, come di una struttura concettuale sede di meccanismi razionali generati e formati essenzialmente dal sistema sensomotorio del corpo e del cervello. Con il che il cognitivismo di nuova generazione, che si autoproclama scienza, mette in discussione tutta una serie di premesse non dimostrate in quanto prodotto di una filosofia formalista e funzionalista. Non è vero, sostengono gli scienziati cognitivi, che concetti e ragionamento siano indipendenti dal sistema sensomotorio e si distinguano dalle immagini mentali, in quanto: (a) le categorie di base sono strutturate secondo la percezione gestaltica, le immagini mentali e gli schemi motori; (b) le informazioni sensomotorie caratterizzano in larga misura i prototipi che vengono utilizzati dalle categorie; (c) i concetti delle relazioni spaziali nelle varie lingue sono costituiti dalle stesse immagini-schema di base, generate a quanto sembra dalla struttura dei sistemi visivi e motori; (d) i concetti verbali che caratterizzano la struttura degli eventi sono prodotti dalle strutture neurali del controllo motorio. Sicché il corpo e il sistema sensomotorio del cervello giocano una parte decisiva nella costituzione dei nostri sistemi concettuali, liberando l’intelligenza dalla schiavitù della computazione – a cui, sulla scorta di Hilary Putnam, l’avevano relegata i primi cognitivisti – e ponendo le condizioni di possibilità delle intelligenze multiple. Infine, non è vero che i concetti devono essere letterali onde legittimare le operazioni di una ragione che, intesa in senso logico-formale, non lascia spazio al concetto e al pensiero metaforici. Sono le reti neurali, invece, che modellando tanto il controllo motorio quanto i processi inferenziali, costruiscono il nostro sistema concettuale. I concetti astratti sono in larga misura metaforici, essendo la metafora un meccanismo neurale che consente di adattare i sistemi neurali usati nelle attività sensomotorie per produrre inferenze. Il che dimostra come la ragione astratta sia in larga misura un risultato del corpo, che ne condiziona quindi le operazioni. Nell’ultima impresa di George Lakoff, compiuta assieme al matematico Rafael Nuñez, viene dimostrata la tesi che la mente incorporata, responsabile delle più semplici attività della vita quotidiana, informa persino i concetti della matematica più avanzata, come limiti e infinitesimi.

    III

    Lo statuto concettuale della metafora e delle altre figure del discorso non è certamente una scoperta che possa essere attribuita alla scienza cognitiva e alle neuroscienze. Come ricorda Mark Turner nel recensire La poetica della mente, sono parecchi i pensatori antichi e moderni da annoverare tra le fila di coloro che si sono posti il problema del ruolo attivo dei tropi nella scoperta e nella descrizione della realtà. A partire da alcuni luoghi della Poetica di Aristotele, in cui si vedono determinarsi nei traslati veri e propri rapporti di categoria e analogia tra concetti (57b, 7-18) e soprattutto se ne riconoscono le potenzialità euristiche (59a, 7-8), passando per le intuizioni di Demetrio sulla verità dei concetti metaforici (Sullo stile, 81-82; 86-88) e di Pseudo-Longino sulla comprensione automatica dei traslati (Del sublime, 17-18), per arrivare ai classici studi di Kenneth Burke (1969) e I.A. Richards (1936), che conferiscono al pensiero emotivo il potere di operare conoscenza; l’analisi dei meccanismi cognitivi delle figure, seppur intrapresa, resta tuttavia soltanto abbozzata e manca della sistematicità necessaria al controllo di una tesi così controversa. È solo nell’ultimo trentennio che i meccanismi cognitivi del pensiero figurato, la sua ontogenesi, i suoi limiti e il suo rapporto col linguaggio diventano oggetto di una ricerca empirica sistematica.

    Dell’enorme corpus di studi condotti da filosofi, linguisti, studiosi di retorica, psicologi e informatici sullo statuto cognitivo dei tropi non esisteva manuale di presentazione, né tantomeno opera che, oltre a raccogliere, discutesse i vari filoni e le varie ipotesi, sottoponendole al vaglio di una sistematica verifica approntata con gli strumenti della psicologia. La poetica della mente di Raymond Gibbs serve all’uno e all’altro scopo, misurando l’imponente massa del materiale discusso col metro dell’a-priori cognitivista, che fa risalire a una matrice cognitiva generale la causa degli universali linguistici. Figure madri concettuali, metafora, metonimia e ironia, motivano le esecuzioni verbali figurate più disparate, determinando e limitando nel contempo le instantiations (le realizzazioni o attualizzazioni linguistiche) più creative della poesia così come quelle che si sono cristallizzate nelle espressioni convenzionali più comuni del parlare quotidiano, delle espressioni idiomatiche e dei proverbi. Tale è l’ubiquità della figuratività nel discorso a tutti i livelli, da quello quotidiano al letterario, allo scientifico, al giuridico, al mitico e al rituale, che lo stesso concetto di letteralità – cui la figuratività si contrappone – si assottiglia a tal punto che risulta alla fine arduo darne una definizione; come testimoniano, al termine degli esercizi confutatori delle teorie degli atti linguistici di Searle o della pragmatica di Grice praticati nella prima parte del volume, i ripetuti inviti dell’autore (anche a se stesso) a ripensare e riformulare il principio di letteralità. L’idea che la lingua figurata sia deviante rispetto a una norma letterale (il cosiddetto modello pragmatico standard) viene infatti scartata sulla base di una pletora di verifiche psicolinguistiche, che dimostrano come i processi di comprensione della lingua figurata non siano affatto speciali; non richiedono, infatti, come loro condizione, recupero e scarto del significato letterale dell’espressione, e quindi non richiedono un maggiore sforzo cognitivo. L’ipotesi di lavoro (idealizzata) che si fa strada è allora quella del tempo totale, secondo la quale «esiste un unico tempo totale collegato al recupero del significato di un parlante quando un’espressione è prodotta in un contesto adeguato» (Gibbs e Gerrig). Tale ipotesi è di lavoro e idealizzata perché restano ancora irrisolte molte questioni a proposito della conoscenza concettuale e del contesto in cui si dà la comprensione linguistica, sebbene Gibbs a integrazione della TTH (Total Time Hypothesis) operi una distinzione importante tra processi (veri e propri) e prodotti della comprensione (vedi infra, 80 e 83-86).

    È tale reductio ad figuras a comportare una visione superficiale delle lingue storico-naturali, dati fenomenici di superficie che rimandano a un sottofondo comune, un sostrato mentale inconscio prevalentemente figurato (lo strato di roccia della cognizione, infra, 141). Quella massa amorfa e indistinta del pensiero, di cui parlava Saussure, non è più tale per la linguistica cognitiva, bensì è già sempre strutturata secondo le forme dei tropi concettuali fondamentali. Quando però dall’individuazione di una serie di forme mentali che condizionano l’operare del pensiero in ogni campo del sapere e delle attività umane, si passa alla pretesa di riportare la stragrande maggioranza delle espressioni verbali di tutte le lingue del mondo a un numero determinato di metafore e altre figure concettuali, come ha fatto il gruppo di studio californiano capeggiato da Lakoff in persona (infra, 316), allora questo umanesimo del terzo millennio corre il rischio di scivolare verso antiche forme di essenzialismo. È forse questo determinismo di fondo che ha indotto Giorgio Manacorda a leggere nel libro di Gibbs la ricaduta in una retorica mascherata da poetica. Aspetto già criticato in una recensione inglese (Blakemore 1995) della Poetica della mente per il suo prescindere dalle metafore-immagine o metafore istantanee (image metaphors o one-shot metaphors) – quelle che secondo Gibbs non sono usate nel parlare quotidiano perché sono il risultato di mappature tra immagini mentali, ovvero mappature tra domini diversi di conoscenza mai verificatesi prima – come nella poesia di André Breton citata dall’autore (infra, 183-4). Insomma, da psicologo Gibbs elude la questione della creatività, che invece Saussure «da maestro di studi di tante lingue diverse», come ha detto recentemente De Mauro (2005: xxiii), vedeva all’opera incessantemente nella parole, baudelairianamente fourmillement di novations e flottements che sfuggono a schemi predefiniti. Tanto più apprezzabili, allora, e da annoverare tra gli innumerevoli meriti dell’autore di questo imponente lavoro la moderazione con la quale Gibbs presenta le tesi più controverse della scommessa cognitivista, come ad esempio la distinzione tra metafore universali e metafore culturali, e l’attenzione critica con la quale discute le ricerche di segno opposto, come nel caso specifico quelle dell’antropologa culturale Quinn (infra, 141ss), oppure, per fare un altro esempio, il diverso orientamento teorico della Wierzbicka sulle tautologie nominali (infra, 246).

    IV

    Nel congedare l’opera, il curatore non può esimersi dall’esprimere la percezione di un paradosso, che – come ha insegnato Emilio Garroni – è connaturato alla questione del senso. Nell’ipotesi improbabile che gli scienziati cognitivi riescano nella ricerca del Sacro Graal della lingua perfetta, la cui caratteristica universale dovrebbe assomigliare a un elenco rigorosamente elettronico di figure concettuali scritte in maiuscolo, magari con la nomenclatura di un depurato e asettico global English, del tipo anger is heated fluid in a container, è consolante sperare di entrare finalmente in possesso di una chiave per tradurre facilmente tutte le lingue del mondo. Resta a chi scrive lo sconforto di chi dovrà ancora attendere a lungo e soprattutto la consapevolezza della fatica titanica che sempre compie chi come il traduttore lotta con la diversità delle lingue-culture per assolvere alla sua alta Aufgabe.

    Daniele Niedda

    Opere citate

    Benjamin, Walter

    1982 (1955) Il compito del traduttore, in Angelus Novus, Torino, Einaudi.

    Blakemore, Diane

    1995 Review, Journal of Linguistics, 31, pp. 429-34.

    Cassirer, Ernst

    1996 (1923) Filosofia delle forme simboliche. 1. Il linguaggio, Firenze, La Nuova Italia.

    Chomsky, Noam

    1975 (1964) Problemi di teoria linguistica, Torino, Boringhieri.

    1969 Saggi linguistici, Torino, Boringhieri.

    Damasio, Antonio

    1995 (1994) L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi.

    De Mauro, Tullio

    1993 (1991) Premessa a Wilhelm von Humboldt, La diversità delle lingue, trad. it. di Donatella di Cesare, Roma-Bari, Laterza.

    2000 (1982) Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Roma-Bari, Laterza.

    2005 Introduzione a Ferdinand de Saussure, Scritti inediti di linguistica generale, tr. it. di Tullio De Mauro, Roma-Bari, Laterza.

    Garroni, Emilio

    1995 (1986) Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Roma-Bari, Laterza.

    1998 L’indeterminatezza semantica: una questione liminare, in Ai limiti del linguaggio. Vaghezza, significato e storia, a c. di F. Albano Leoni et al., Roma-Bari, Laterza, pp. 49-76.

    Gibbs, Raymond W. e Gerrig, Richard

    1989 How Context Makes Metaphor Comprehension Seem ‘Special’, Metaphor and Symbolic Activity,4, pp. 154-58.

    Hjelmslev, Louis

    1968 (1961) I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, Einaudi.

    Lakoff, George e Johnson, Mark

    1998 (1980) Metafora e vita quotidiana, Milano, Bompiani.

    1999 Philosophy in the Flesh, New York, Basic Books.

    Lakoff, George e Nuñez, Rafael

    2000 Where Mathematics Come From: How the Embodied Mind Brings Mathematics into Being, New York, Basic Books.

    Manacorda, Giorgio

    2002 La poesia è la forma della mente. Per una nuova antropologia, Roma, De Donato-Lerici Editori.

    Prieto, Luis

    1976 (1975) Pertinenza e pratica. Saggio di semiotica, trad. it. di Daniele Gambarara, Milano, Feltrinelli.

    Richards, I.A.

    1967 (1936) La filosofia della retorica, trad. it. di Beniamino Placido, Milano, Feltrinelli.

    Saussure, Ferdinand de

    1974 (1922) Corso di linguistica generale, trad. it. di Tullio De Mauro, Roma-Bari, Laterza.

    Turner, Mark

    1995 As Imagination Bodies Forth the Forms of Things Unknown, Review, Pragmatics and Cognition, 3, pp. 179-85.

    Siti visitati

    http://www.edge.org/documents/archive/edge51.html

    http://www.icsi.berkeley.edu/NTL/

    ​Capitolo Primo

    Capitolo Primo

    Introduzione e sommario

    Perché la scienza cognitiva dovrebbe interessarsi all’immaginazione poetica? Tra gli studiosi della mente prevale ancora la vecchia idea che la natura del pensiero e del linguaggio è essenzialmente letterale. Pur essendo in grado di parlare per metafore, e facendolo nella realtà, la nostra capacità di pensare, immaginare e parlare in modo poetico è stata storicamente considerata una caratteristica umana speciale che richiede abilità linguistiche e cognitive diverse da quelle impiegate nella vita quotidiana. Questa concezione tradizionale della mente ha comportato gravi limitazioni tanto alle ricerche accademiche sulla vita della mente intraprese dalle scienze cognitive e dalle scienze umane, quanto alla concezione popolare dell’esperienza umana. Si considera la mente come lo specchio di una qualche realtà divina da descriversi più adeguatamente con termini semplici, non metaforici, adottando un linguaggio che rifletta più da vicino le fondamentali verità del mondo. Come per primo decretò Platone nella sua celebre condanna della poesia, le asserzioni poetiche o figurate sono diverse dalla vera conoscenza. Pensare o parlare poeticamente equivale allora ad adottare nei confronti del mondo normale una posizione sbagliata, che suscita lo sdegno della maggioranza di filosofi, scienziati ed educatori.

    La tesi avanzata da questo libro corregge la visione tradizionale della mente, in quanto la cognizione umana si struttura secondo vari processi poetici o figurati. La metafora, la metonimia, l’ironia e le altre figure retoriche non sono infatti distorsioni linguistiche di un pensiero mentale letterale; costituiscono bensì gli schemi di base per mezzo dei quali comprendiamo le nostre esperienze e il mondo esterno. Dato che ogni costruzione mentale rappresenta un adattamento al mondo da parte della mente, la lingua che esprime queste costruzioni manifesta il perenne operare del pensiero poetico. Pertanto compito di questo saggio sarà mettere in risalto il modo in cui gli aspetti metaforici della lingua rivelano la struttura poetica della mente.

    Di pensiero e lingua figurati si discute soprattutto nell’ambito degli studi su letteratura e poesia. Sono in particolare i testi letterari lo scenario riconosciuto come il più adatto per correre il rischio calcolato di esprimersi con metafore. Lo riconosce implicitamente Sylvia Plath in una poesia che intitola semplicemente Metafore:

    Sono un indovinello a nove sillabe,

    un elefante, una casa massiccia,

    un melone che vagola su due viticci.

    Oh frutto rosso, avorio, legni pregiati!

    Questo pane è grande e cresce e fermenta.

    I soldi sono di zecca in questo portafoglio rigonfio.

    Io sono uno strumento, un palcoscenico, una mucca gravida.

    Ho mangiato un sacchetto di mele acerbe,

    preso un treno da cui non si scende.

    La poesia imita la tipica relazione tra lo stato fisico della gravidanza e l’arte poetica dell’analogia. Nel loro rapido turbinio le numerose metafore mettono in evidenza da un lato i vari aspetti di una donna incinta – dimensione, forma, fertilità, valore e inevitabilità del suo destino; dall’altro, non preannunciano soltanto la nascita imminente di un figlio, bensì anche l’emergere della voce poetica della Plath, nel momento in cui afferma l’importanza letteraria del corpo femminile che genera incessantemente nuove relazioni tra le cose del mondo e l’io della poesia. Le metafore della poesia compongono tutte insieme un indovinello che i lettori sono chiamati a interpretare e gustare. Il poeta, come qualsiasi altro artefice della lingua figurata, corre il rischio che i lettori non siano in grado di riconoscere ciò che ha voluto dire da ciò che ha detto. Quando però una poesia è comprensibile, quando cioè riesce a comunicare intuizioni originali sull’esperienza umana, allora al suo autore vengono riconosciute speciali doti intellettuali. Allora di scrittrici come Sylvia Plath si esalta il genio creativo che pensa e si esprime poeticamente.

    Eppure, sarebbe un errore pensare che l’uso della lingua figurata richieda una speciale capacità cognitiva, così come sarebbe sbagliato convincersi del fatto che un siffatto linguaggio lo si possa incontrare solo ed esclusivamente in testi letterari. Infatti, sebbene per consuetudine venga considerato come lo strumento privilegiato di poeti e politici, la lingua figurata si trova disseminata nella lingua quotidiana parlata e scritta e non soltanto in pagine straordinarie di letteratura. È ovvio che la lingua dei grandi poeti è più creativa o poetica di quella impiegata dalla maggioranza dei comuni parlanti. Però, tanto i poeti quanto la gente comune fanno uso degli stessi schemi figurati del pensiero quando parlano. Ed è proprio tanta parte del parlare quotidiano che attesta la nostra capacità di pensare secondo modalità che vanno oltre il letterale.

    Fin dai tempi degli antichi greci si dibatte con animosità dei pregi del pensiero e della lingua figurati, che sebbene siano al giorno d’oggi oggetto di apprezzate ricerche nel campo delle arti e delle scienze umane e cognitive, suscitano comunque grande scetticismo (tropofobia, o paura dei tropi) da parte di molti studiosi. Di tanto in tanto scienziati, filosofi, educatori e psicologi si sono schierati contro le presunte malefatte del pensiero figurato. Vi sono ad esempio alcuni manuali in uso nei corsi di scrittura e retorica che avvertono gli studenti dell’incompatibilità tra chiarezza e pensiero letterale da un lato e linguaggio figurato dall’altro, sostenendo che quest’ultimo va soffocato a vantaggio della trasparenza del significato. Come si afferma in un libro di testo della scuola superiore:

    La lingua figurata è […] complessa e utile allo stesso tempo. Quando si ha in vista un significato astratto, bisogna assicurarsi che le metafore siano morte del tutto. Qualora si aspiri alla poeticità, bisogna vedere che la limpidezza e la solidità necessarie siano mantenute; altrimenti si ritorni all’espressione letterale, poiché è preferibile usare un’espressione piatta piuttosto che insozzare con un’accozzaglia di macerie il paesaggio verbale (Crews, 1984, p. 233).

    Visto l’uso inopportuno e contorto di metafore miste e figure retoriche, che, come viene spesso notato, insozzano la lingua parlata e scritta, richiami come questi ad un impiego più moderato del linguaggio figurato possono sembrare assolutamente legittimi. Il periodico «New Yorker» è solito pubblicare in una rubrica intitolata Attenti a quella metafora divertenti esempi di metafore mal riuscite. Eccone due tratti da articoli di fondo pubblicati su quotidiani:

    (Mobile, Alabama) – Nel tramonto evanescente di un giovedì scosso dal maltempo, Charlie Graddick ha afferrato le leve brunite della demagogia politica per accendere la folla della sua cittadina e ridare vita a una candidatura da governatore che ha avuto un andamento più tortuoso di una strada di montagna piena di tornanti (27 ottobre 1986, p. 115).

    (Montgomery, Alabama) – Il sindaco ha un cuore grande come una casa quando si tratta di difendere i suoi poliziotti; il che è lodevole. Purtroppo spesso rovina le marce per non utilizzare il cambio quando quello che ha nel cervello passa alla bocca. Troppo spesso si spara sui piedi (16 novembre 1987, p. 146).

    Alla vista di tali distorsioni del discorso figurato la maggioranza dei docenti di scrittura inorridiscono e, nonostante si capisca il senso di ciò che i due autori hanno in mente, l’ammonimento agli studenti di stare attenti a non mischiare le metafore da loro coniate sembra perfettamente logico.

    Comunque, non è la questione delle metafore miste il motivo principale che spinge molti studiosi a mettere in guardia dall’uso del discorso figurato tanto nella lingua quotidiana quanto in quella accademica. Sono altre e ben radicate le ragioni che hanno creato una storica diffidenza nei confronti della lingua e del pensiero figurati; ragioni che discendono direttamente dall’antica supposizione, ancora di moda in molti ambiti delle scienze cognitive, che il linguaggio è indipendente dalla cognizione e che la lingua figurata è soltanto un ornamento della lingua letterale comune e in quanto ornamento ha di per sé scarso valore cognitivo. Tali ragioni si palesano in due assunti filosofici fondamentali (G. Lakoff, 1990).

    Il primo è l’assunto oggettivista, che prevede una realtà oggettiva fatta di entità determinate, aventi proprietà e interrelazioni che sono sempre valide. È una teoria su come è la realtà, la quale realtà si predispone a essere descritta in un modo ben preciso. Il secondo è l’assunto fregeiano (da Frege, 1892-1952), che partendo da quello oggettivista, concepisce il significato in termini di referenza e verità. Alla semantica compete il rapporto tra simboli e mondo oggettivo, che si prevede autonomo da qualsiasi relazione con la mente di chiunque. Inoltre, l’assunto fregeiano svincola la semantica dalla pragmatica, in quanto definisce la prima (il rapporto tra simboli e cose nel mondo) senza preoccuparsi di come vengano utilizzati i simboli e le loro interpretazioni, laddove la seconda (le relazioni tra i segni e chi li usa) viene limitata allo studio del significato nel contesto. Tanto l’assunto oggettivista quanto quello fregeiano stanno a fondamento del concetto che il significato letterale meglio rispecchia il mondo esterno oggettivamente determinato ed è il primo modo per descrivere la verità. Per questo motivo linguistica, logica e filosofia giudicano ancora la semantica come lo studio del significato letterale, laddove relegano quello figurato nel cestino della pragmatica.

    Limitare la lingua figurata a fenomeno strettamente pragmatico ha come effetto il perdurare della concezione convenzionale, secondo la quale tali espressioni sono devianti o, al massimo, decorative. Secondo la pragmatica la comprensione della lingua figurata va separata dall’elaborazione linguistica normale o comune proprio a causa della sua massiccia dipendenza dalla conoscenza contestuale, del mondo reale. Eppure oggi tante ricerche mostrano che il nostro sistema linguistico, anche quello responsabile per ciò che viene spesso concepito come lingua letterale, è connesso inestricabilmente col resto del nostro sistema fisico e cognitivo. Sviluppi recenti nei diversi ambiti della linguistica cognitiva, della filosofia, dell’antropologia e della psicologia mostrano che non solo la maggior parte del nostro linguaggio è strutturata metaforicamente, ma lo è anche la maggior parte del nostro sistema cognitivo. Le esperienze umane vengono concettualizzate in termini figurati attraverso metafore, metonimie, ossimori, ironia e così via; e sono questi principi che stanno alla base del nostro pensiero, della nostra ragione e della nostra immaginazione.

    Prendiamo in considerazione l’idea di amore. Parecchie espressioni linguistiche creative che si riferiscono all’amore e ad altri concetti difficili si basano su un numero molto più contenuto di modelli cognitivi che limitano il modo in cui i singoli pensano ed esprimono le proprie esperienze. Si parla sovente dell’amore nei modi seguenti: Ardeva d’amore, Sono pazzo di lei, Siamo una cosa sola, Il suo amore mi ha dato nuova energia, La magia è svanita, Gli faceva una corte assillante, e così via (Kovecses, 1986; G. Lakoff e Johnson, 1980). Ognuna di queste espressioni rispecchia modi particolari di pensare all’amore. Per esempio, Il suo amore mi ha dato nuova forza, L’amore mi fa vivere, Mi nutro del tuo amore, e Ho fame di te rimandano al concetto metaforico di amore come specie di sostanza nutritiva. La metafora concettuale amore come sostanza nutritiva ha come sua funzione primaria il ruolo cognitivo di comprendere un concetto (amore) nei termini di un altro (sostanze nutritive). Le metafore concettuali nascono nel momento in cui cerchiamo di comprendere concetti difficili, complessi, astratti e meno delineati come l’amore, nei termini di idee familiari come le diverse specie di sostanze nutritive.

    La poesia serve spesso ad ingentilire i modi più comuni di parlare di esperienze d’amore (Gibbs, 1992a). Tra gli esempi che prediligo c’è una poesia d’amore di Emily Dickinson intitolata Assaporo un liquore mai gustato:

    Da calici scavati nella perla

    assaporo un liquore mai gustato –

    tutti i tini del Reno non distillano

    un alcool come questo!

    Ebbra d’aria

    ubriaca di rugiada –

    vaneggio da taverne di blu fuso

    lungo giorni d’estate senza fine –

    L’ape ubriaca cacceranno gli osti

    via dalla porta della digitale –

    le farfalle dovranno rinunciare

    ai loro sorsi – ed io berrò di più!

    E i candidi cappelli i serafini

    sventoleranno – e i santi alle finestre

    correranno a vedere la bambina

    ubriaca riversa contro il sole –[1]

    La descrizione poetica dell’amore che diventa per la Dickinson un liquore mai gustato ingentilisce l’idea che l’amore è una specie di sostanza nutritiva, secondo quella mappa metaforica che determina espressioni convenzionali del tipo Sono innamorato cotto, Mi nutro del tuo amore, Ho fame di te e così via. È assai probabile che persone di grande creatività offrano realizzazioni artistiche originali di metafore concettuali che strutturano parzialmente le nostre esperienze.

    Ma, allora, sono le metafore a creare intuizioni nuove dell’esperienza umana, oppure sarebbe più giusto dire che le metafore riflettono schemi di pensiero sottostanti che si basano a loro volta su processi fondamentali di figurazione? Io credo che sia metaforica larga parte della concettualizzazione dell’esperienza, fatto che motiva e limita nel contempo il modo in cui si dà pensiero creativo (G. Lakoff, 1987; G. Lakoff e Johnson, 1980; G. Lakoff e Turner, 1989). L’idea che la metafora limiti la creatività parrebbe in contraddizione con la convinzione largamente diffusa che la metafora libera la mente per impegnarla in un pensiero deviante. Invece sarebbe veramente fuorviante asserire che una poetessa creativa come la Dickinson abbia creato una vera e propria mappatura metaforica originale tra campi distinti, laddove ha soltanto svelato alcune potenzialità espressive sull’amore implicite nella metafora concettuale l’amore come sostanza nutritiva. D’altra parte guardare con occhi nuovi alle implicazioni delle metafore concettuali è di per sé un atto creativo. Tuttavia, questi atti creativi poggiano sulle fondamenta delle categorizzazioni dell’esperienza, le quali rispecchiano le metafore convenzionali della vita quotidiana.

    Prendiamo in considerazione un altro concetto metaforico che struttura parte della nostra esperienza nella vita di tutti i giorni: la rabbia è un liquido riscaldato in un contenitore. Questa metafora concettuale è invero uno dei pochi modi in cui le culture occidentali concepiscono la rabbia. Intendere la rabbia (dominio di partenza) come un liquido riscaldato in un contenitore (dominio di destinazione) apre un ventaglio di implicazioni interessanti (Gibbs, 1990a; Kovecses, 1986; G. Lakoff, 1987). Con l’aumentare d’intensità della rabbia, ad esempio, sale anche il liquido (La rabbia repressa gli montava dentro). Inoltre, il calore intenso provoca vapore, esercitando pressione sul contenitore (Le vene del collo gli si gonfiarono dalla rabbia e Gli usciva il fumo dalle orecchie), come pure una grande rabbia produce una pressione sul contenitore (Scoppiava di rabbia). Se la pressione è troppo alta all’interno del contenitore, questo esplode (Dette in escandescenze contro di me). Ebbene, ognuna di queste implicazioni metaforiche procede direttamente dalla mappatura concettuale della rabbia sulla nostra comprensione di un liquido riscaldato in un contenitore.

    Come si è già affermato, non è creare nuove categorizzazioni dell’esperienza quello che fanno innanzitutto i poeti, bensì parlare in modi nuovi delle implicazioni metaforiche delle mappature concettuali comuni. Si veda questo frammento tratto dalla poesia di Adrienne Rich intitolata La fenomenologia della rabbia:

    Fantasie di omicidio: non basta:

    uccidere è stroncare il dolore

    ma l’assassino continua a ferire

    Non basta. Quando sogno di incontrare

    il nemico, ecco cosa vedo:

    acetilene bianco

    onde dal mio corpo

    agevolmente rilasciate

    perfettamente addestrate

    contro il vero nemico

    che braccano il suo corpo fino all’ultima fibra

    di esistenza

    consumandone la menzogna nelle fiamme

    lasciandolo in un nuovo

    mondo; un uomo

    cambiato.

    La Rich assegna al liquido riscaldato che rappresenta la rabbia la caratteristica dell’acetilene che può puntare come un’arma sull’oggetto della sua passione. I versi sono di una poeticità stupenda, eppure l’autrice ha utilizzato le stesse modalità figurate di pensiero che determinano tanto dei modi di dire comuni come sbottare, dare in escandescenze, esplodere, quanto delle espressioni convenzionali come La rabbia repressa gli montava dentro. È proprio in quanto Adrienne Rich si rivolge e sviluppa una visione metaforica collettiva della rabbia che esercita sui lettori una grande e immediata attrazione.

    La tesi di questo lavoro è che le concettualizzazioni metaforiche elementari dell’esperienza limitano il modo in cui si danno il pensiero creativo e l’espressione dei concetti tanto nella lingua quotidiana quanto in quella letteraria. Non è illimitato il modo in cui comunemente si parla né il modo in cui gli scrittori creativi compongono le loro opere. Eppure ad imporre costrizioni alla lingua parlata e scritta non sono i limiti del linguaggio, bensì le modalità che vengono adottate normalmente quando pensiamo ad esperienze comuni. Non si sceglie di esprimere la rabbia nei termini del giardinaggio o della spesa alimentare, ma usando espressioni come sbottare, diventare rosso paonazzo, esplodere e così via, proprio perché le esperienze della rabbia vengono concettualizzate metaforicamente (infatti la rabbia è un liquido riscaldato in un contenitore). La metafora così non aiuta soltanto a vedere le cose da nuovi punti di vista, ma costituisce innanzitutto larga parte dell’esperienza e serve a restringere il campo del pensiero e della lingua nella vita quotidiana. Parecchi linguisti, filosofi, critici letterari e psicologi non colgono questo punto essenziale, in quanto non riescono a riconoscere la struttura concettuale sistematica della stragrande maggioranza delle espressioni linguistiche metaforiche e creative. Quella che di frequente viene giudicata un’espressione creativa di qualche idea, spesso non è altro che un’attualizzazione spettacolare di implicazioni metaforiche particolari, che nascono da un piccolo insieme di metafore concettuali condivise da parecchi individui all’interno di una cultura. Tra queste implicazioni ve ne sono alcune che sono frutto di un pensiero altamente deviante e flessibile; ma l’esistenza stessa di queste implicazioni di concetti si deve agli schemi metaforici sottostanti del pensiero che delimitano, e definiscono persino, il modo in cui si pensa, si ragiona e si immagina.

    Non solo nelle opere di grandi poeti e nelle espressioni comuni si manifesta la natura metaforica del pensiero quotidiano, ma anche nei modi in cui i parlanti assegnano il significato alle singole parole. Si prenda il fenomeno della polisemia, nel quale a ogni singola parola corrispondono vari significati correlati. Per esempio, nella lingua inglese la parola stand ha molti sensi correlati, come si può vedere in The house stands in the field (La casa sta nel campo), He couldn’t stand the pressure of his job (Non sopportava la pressione del suo lavoro), The law still stands (La legge è ancora valida), The barometer stands at 29,56 (Il barometro segna 29,56). Alcuni di questi significati si basano sull’atto fisico dello stare eretto; altri estendono il senso primario, a volte metaforicamente, per esprimere idee di verticalità (She stood six feet tall; era alta 1m90), di resistenza (He stood up to the verbal attacks against his theory; ha resistito agli attacchi verbali mossi contro la sua teoria) e di tenuta (The law still stands).

    La semantica lessicale classica presuppone l’esistenza di un complesso altamente astratto di elementi che racchiuderebbe l’insieme dei diversi significati di una parola polisemica. Secondo quest’impostazione, ci deve essere un insieme di elementi che sottostà a ogni uso della parola stand. Di molte parole polisemiche, comunque, la semantica lessicale non è riuscita a specificare con esattezza quali siano questi significati astratti. D’altronde, recenti lavori di semantica lessicale suggeriscono che dei significati di molte parole polisemiche si può dare una spiegazione in termini di metafore elementari, che tra l’altro motivano il passaggio di parte del lessico inglese dal dominio del movimento fisico e della manipolazione e ubicazione di oggetti (stand nel suo senso fisico) a diversi domini sociali e mentali (stand in He took a stand on the matter; ha preso posizione sulla questione).

    Passando a un altro esempio, si consideri l’usatissima parola inglese see, in I see the plane in the sky (Vedo un aereo in cielo), I see what you’re doing (Capisco quello che fai),oppure I see your point (Comprendo la tua posizione). L’Oxford English Dictionary elenca un nutrito numero di significati che vanno da perceive by the eye (percepire con l’occhio) a meet a bet in poker or equal a bet (nel poker accettare la posta). Per la maggior parte delle teorie del significato see è un classico esempio di metafora morta; vale a dire che a un certo punto il significato letterale di see, percepire con l’occhio, sarebbe stato esteso metaforicamente ad altri significati come scoprire o comprendere. Col tempo la relazione metaforica tra i due sensi di see sarebbe andata persa, cosicché oggi i vari significati della parola verrebbero compresi all’interno di un rapporto che li lega tutti ad un insieme di elementi fortemente astratto.

    Oggi però la linguistica cognitiva è in grado di dimostrare che molte parole che sembrano casi lampanti di metafore morte hanno al contrario radici metaforiche vivissime. Nelle lingue indoeuropee, infatti, parole dello stesso significato di see acquisiscono di norma la significazione conoscere in varie epoche e luoghi (Sweetser, 1990). La teoria semantica della metafora morta non è in grado di spiegare perché nella storia delle lingue indoeuropee ricorrono gli stessi tipi di modificazione semantica, che invece si comprendono con facilità ricorrendo alle metafore concettuali (ibid.). Nel caso specifico delle parole equivalenti a see, esiste una metafora concettuale antica e molto diffusa conoscere è vedere appartenente a quella più generale la mente come corpo. Dato che tale metafora esiste nel sistema concettuale dei parlanti indoeuropei, la mappatura concettuale tra vedere e conoscere definisce un percorso di variazione semantica tale che i termini nuovi sviluppatisi da vedere finiranno per estendere il loro significato a conoscere. Come la maggioranza delle altre metafore concettuali, conoscere è vedere ci spiega bene perché in quanto parlanti del presente comprendiamo senza sforzo i molteplici significati che tante parole acquisiscono di continuo. Che la polisemia venga almeno in parte ricondotta alla strutturazione metaforica dell’esperienza comporterà un avanzamento decisivo per le teorie della semantica lessicale. Su ben altra dimensione va però misurato il vero impatto di questo lavoro, in quanto presenta prove ulteriori del nesso inestricabile che lega la natura figurata del pensiero quotidiano e l’uso comune del linguaggio verbale.

    Un’altra modalità figurata del pensiero che si riflette tanto nella lingua letteraria quanto in quella comune è la metonimia (G. Lakoff, 1987; G. Lakoff e Turner, 1989). Esaminiamo dal libro La vita di E.M. Forster di P.N. Furbank (1978) il brano seguente, che descrive in maniera originale la vita quotidiana dello scrittore, facendo uso quasi interamente di metonimie.

    … begli occhi, dietro gli occhiali con una montatura d’acciaio, e una bocca al massimo grado espressiva e sensibile, variabile dal tremolante al divertito, al moralmente riprovevole, al disprezzo totale. Si percepiva che era la bocca di un uomo che difendeva il diritto alla propria sensibilità. Fisicamente era goffo, zoppo e immobile allo stesso tempo. Se ne stava mezzo storto, come se si reggesse tenendo la mano sinistra stretta nella destra. Eppure i suoi gesti avevano una grazia rara (pp. 292-93).

    Il brano riflette il principio cognitivo generale della metonimia, ossia il modo in cui un aspetto ben compreso di qualcosa viene usato per rappresentare la cosa intera o qualche altro aspetto di essa. Gli occhi, la bocca e i gesti di Forster vengono presentati uno dopo l’altro, ma è grazie alla nostra capacità di pensare in forma metonimica che ci raffiguriamo la persona tutta intera.

    I testi letterari fondano sulla metonimia gran parte del loro realismo e della precisione nella descrizione dei dettagli. Una forma particolare di metonimia, la sineddoche, scambia il nome della parte per il tutto. A un certo punto dell’Otello (III, iii, 464-66) di Shakespeare, per esempio, Iago giura a Otello fedeltà assoluta e si rivolge agli astri:

    Siate testimoni

    che Iago dedica la forza del suo ingegno,

    delle sue mani, del suo cuore,

    al servizio di Otello.[2]

    Ingegno, mani e cuore sono metonimie che rappresentano la tradizionale tripartizione del soggetto in mente, corpo e anima; e sono talmente normali le sineddochi di questo tipo che non ci si fa più caso, mentre poeti come Shakespeare, al pari di scrittori di romanzi realistici o di biografie si servono abbondantemente del dettaglio sineddochico per evocare scene, personaggi ed esperienze culturali. Un altro poeta, Philip Larkin, evoca i fasti delle corse di cavalli in questa strofa di In pensione:

    Giubbe alle gabbie: contro il sole

    numeri e ombrellini: all’esterno,

    eserciti di macchine vuote, calore eterno,

    e cartacce sull’erba: poi l’urlo che sale

    e resta sospeso finché cede

    alle ultime notizie da marciapiede.

    È alla nostra capacità di pensare in forma metonimica che dobbiamo la comprensione e il piacere che proviamo per questa poesia, come ad esempio, quando individuiamo in Giubbe alle gabbie il riferimento ai fantini in sella nelle gabbie di partenza.

    Sebbene la si studi soprattutto in quanto modalità di discorso letterario e poetico, la metonimia pervade la lingua della quotidianità, come ben attestano questi esempi (tratti da G. Lakoff e Johnson, 1980):

    Washington ha iniziato le trattative con Mosca.

    La Casa Bianca non si pronuncia.

    Wall Street è in preda al panico.

    Il Cremlino ha acconsentito ad appoggiare il boicottaggio.

    Hollywood produce film orribili negli ultimi tempi.

    Lungi dall’essere figure isolate, tutti questi esempi hanno in comune il principio metonimico generale che un luogo sta per l’istituzione situata in quel luogo. Quindi, un luogo come Hollywood sta per l’istituzione situata in quel luogo, e precisamente le maggiori case produttrici cinematografiche. Allo stesso modo, La Casa Bianca sta per il presidente e il potere esecutivo dello stato americano.

    Oltre a questo, ci sono tanti altri modelli convenzionali di metonimia che sono molto diffusi nella lingua d’uso comune. Concettualizziamo un oggetto usato per chi lo usa (Il sassofono oggi ha l’influenza, Ci serve un guanto migliore in terza base), il comandante per il comandato (Nixon ha bombardato Hanoi, Ozawa ha dato un concerto orribile l’altra sera), il luogo per l’evento (Watergate ha cambiato la nostra politica, Non facciamo che Il Salvador diventi un altro Vietnam) e l’autore per l’opera (Hai mai letto Hemingway?). Modelli metonimici di questo tipo interessano un singolo dominio concettuale, in quanto la mappatura o connessione tra due oggetti avviene all’interno dello stesso dominio. Infatti, il riferimento all’industria del cinema tramite il luogo dove vengono girati i film individua una caratteristica saliente di un dominio (la sua collocazione) a rappresentare l’intero dominio (l’industria cinematografica). Viceversa, nella metafora abbiamo due domini concettuali, dei quali se ne comprende uno nei termini dell’altro (come quando si comprende l’amore come una specie di sostanza nutritiva). Malgrado le differenze nel tipo di mappatura, tanto la metafora quanto la metonimia possono essere rese convenzionali, ossia integrate all’interno del nostro sistema concettuale abituale. È proprio il fatto che le persone usano e comprendono con facilità le espressioni metonimiche ad attestare che le loro esperienze vengono strutturate in termini metonimici in modo automatico, spontaneo e inconscio.

    Tra i modi figurati più importanti mediante i quali si concettualizza l’esperienza, oltre alla metafora e alla metonimia, anche l’ironia è stata analizzata più come una figura retorica che come un aspetto fondamentale del nostro sistema concettuale. Si può dire al proprio interlocutore, per esempio, Bell’amico che sei, dopo che il destinatario dell’espressione verbale ha fatto qualcosa di male nei confronti del mittente della stessa. Vero è che sarcasmo e ironia sono chiamati a svolgere molteplici funzioni interpersonali di una certa importanza (quali, ad esempio, essere gentili o allontanare responsabilità per ciò che si sta dicendo), ma è altrettanto vero che questi frequenti usi linguistici dell’ironia rispondono alla nostra capacità fondamentale di concettualizzare delle situazioni in quanto ironiche. Quando si dice nel bel mezzo di un temporale È proprio una bella giornata, si vuole segnalare l’evidente incongruità tra il bel tempo sperato e la pioggia effettiva. Allo stesso modo si giudica ironico un avvenimento a partire dalla consapevolezza dell’incongruità tra aspettativa e realtà, anche se gli altri partecipanti alla stessa situazione forse non si rendono conto di ciò che sta accadendo realmente (ironia spesso denominata drammatica). Di tale incongruità il racconto di O. Henry Il dono dei magi è un meraviglioso esempio. Una coppia di giovani sposi voleva farsi un regalo speciale per il Natale, ma nessuno dei due aveva abbastanza denaro. L’unica cosa di valore che la moglie possedeva erano dei bellissimi capelli lunghi, mentre il marito aveva un bell’orologio. Così per raggiungere la cifra necessaria a comperare il regalo per l’altro, il marito vendette l’orologio per comprare alla moglie un pettine decorato e questa vendette i capelli per comprargli una catena d’oro per l’orologio.

    La svolta ironica di questa storia è comune a molte situazioni della vita che concettualizziamo come ironiche e commentiamo parlandone ironicamente nella lingua quotidiana. Gli scrittori hanno infatti sempre espresso in forma ironica la propria comprensione di situazioni ironiche. Si prendano in considerazione le parole di una recente canzone degli Eurythmics intitolata I need you, una ballata nella quale la cantante Annie Lennox dice:

    Ho bisogno che tu mi tenga bloccata

    inchiodata solo per un momento.

    Ho bisogno che tu mi tenga bloccata

    perché possa vivere nel tormento.

    Ho bisogno di te per sentire

    la torsione della mia schiena che si rompe.

    Ho bisogno di qualcuno

    che ascolti l’estasi che fingo.

    Ho bisogno di te di te di te

    Ho bisogno che tu catturi ogni respiro

    che mi esce dalla bocca

    ho bisogno di qualcuno che mi fracassi la testa

    ho bisogno di baciare qualcuno.

    Perciò adesso tienimi stretta

    e fai finta che non cadrò mai

    sì, tienimi stretta

    sarò la tua bambolina

    Ho bisogno di te di te di te …

    È veramente di te che ho bisogno?

    Sì sì sì

    ho bisogno di te…

    Come spesso accade per molti componimenti ironici, è difficile valutare all’istante se chi parla crede veramente a quello che dice, ma nonostante il tono di voce sincero e accorato della cantante Lennox, non sembrano esserci dubbi sul fatto che stia fingendo di avere realmente bisogno di qualcuno che la tratti così male, proprio al fine di mostrare che di uomini come quelli lei e tutte le donne non hanno bisogno. Il messaggio ironico della canzone degli Eurythmics, pertanto, viene compreso proprio in quanto si riconosce l’incongruità tra una certa realtà e le nostre aspettative.

    Tali considerazioni su metafora, metonimia e ironia fanno vedere come l’uso abituale e poetico della lingua rifletta schemi comuni di pensiero figurato. Questo libro descrive con dovizia di dettagli la naturale inclinazione delle persone a pensare in modi poetici per dare significato alle proprie esperienze comuni e come il pensiero poetico dia origine alla lingua impiegata per esprimere pensieri, sentimenti ed esperienze. La mia strategia di ricerca nel dimostrare la pervasività del pensiero figurato nell’esperienza e nella lingua comuni fa quella che si potrebbe chiamare la scommessa cognitivista (cfr. H. Clark e Malt, 1984):

    È altamente probabile che la maggior parte degli universali linguistici siano una conseguenza non di vincoli linguisticamente autonomi, ma di vincoli comuni ad altre funzioni cognitive. È pertanto appropriato assumere a priori che gli universali linguistici derivino da vincoli cognitivi generali e lasciare agli altri provare il contrario.

    Facendo tale scommessa mi impegno su due fronti principali: (a) ricercare i principi generali che soprintendono a ogni aspetto del linguaggio umano (istanza della generalizzazione) e (b) rendere questo studio del linguaggio coerente con le conoscenze già acquisite sulla cognizione umana (istanza cognitiva) (G. Lakoff, 1990). Tento di dimostrare che i modi in cui parliamo delle nostre esperienze sono strettamente legati a quelli che impieghiamo per concettualizzare la vita, differenziando così il mio metodo da quello adottato da molti scienziati cognitivi, che invece vanno alla ricerca di generalizzazioni che sono spesso considerate delle riproduzioni di sottostanti universali linguistici. Si potrebbe chiamare scommessa generativista (cfr. H. Clark e Malt, 1984) quella su cui hanno puntato questi studiosi:

    È altamente probabile che la maggior parte degli aspetti universali del linguaggio sia conseguenza non di vincoli cognitivi generali, ma di vincoli specifici delle funzioni del linguaggio – specifici di una facoltà autonoma del linguaggio. È pertanto appropriato assumere a priori vincoli psicologici autonomi e lasciare agli altri provare il contrario.

    La scommessa generativista non sembra reggere granché, in quanto spinge i ricercatori non a cercare spiegazioni degli universali linguistici che siano indipendenti dalla struttura, ma ad accontentarsi di una descrizione puramente linguistica di un universale, la quale viene assunta anche come una caratteristica della facoltà umana del linguaggio. Chi ha fatto la scommessa generativista spesso non coglierà le spiegazioni cognitive/funzionali di struttura linguistica, perciò assumerà a priori che una costruzione linguistica è autonoma rispetto alla conoscenza concettuale generale. Motivazioni cognitive di strutture linguistiche che in molti casi, comunque, dipenderanno da particolari tipi di conoscenza figurata.

    Scommettendo sul cognitivismo come strategia di lavoro, finisco con l’offrire un quadro del pensiero e del linguaggio umani diverso da quello assunto tradizionalmente da parecchie discipline delle scienze umane e sociali. A tale nuova visione della poetica della mente appartengono le seguenti caratteristiche generali:

    L’essenza della mente non è letterale.

    Il linguaggio non è indipendente dalla mente, ma riflette la nostra comprensione percettiva e concettuale dell’esperienza.

    La figurazione non è soltanto una questione di linguaggio, ma fornisce molta parte del fondamento di pensiero, ragione e immaginazione.

    La lingua figurata non è deviante né decorativa, ma pervade il parlare quotidiano.

    Il significato di molte espressioni linguistiche, che vengono comunemente interpretate in chiave letterale, è motivato dai modi figurati del pensiero.

    Il significato metaforico si fonda su aspetti non metaforici di esperienze corporee ricorrenti o gestalt esperienziali.

    Le teorie scientifiche, il ragionamento giuridico, i miti, l’arte e varie pratiche culturali esemplificano molti degli stessi schemi figurati che si trovano nel pensiero e nella lingua della quotidianità.

    Molti aspetti del significato verbale sono motivati dagli schemi figurati del pensiero.

    La lingua figurata non richiede dei processi cognitivi speciali per essere prodotta e compresa.

    Il pensiero figurato determina la notevole capacità dei bambini di usare e capire parecchi tipi di discorso figurato.

    Tali affermazioni mettono in discussione molte certezze su linguaggio, pensiero e significato che hanno dominato la tradizione intellettuale occidentale. È naturale che alcune di queste affermazioni non siano del tutto nuove, provenendo da una tradizione minoritaria, che vede il pensiero poetico come una fondamentale caratteristica della mente umana. Personalità del calibro di Giambattista Vico, Jean-Jacques Rousseau, Friedrich Nietzsche, Ernst Cassirer e Suzanne Langer e inoltre Kenneth Burke e Hayden White, due critici letterari del Novecento, hanno ognuno a suo modo sostenuto che la costruzione della realtà si basa su un insieme di forme simboliche essenzialmente figurate. Recentemente nella schiera crescente degli scienziati cognitivi i linguisti George Lakoff e Eve Sweetser, lo studioso di retorica Mark Turner, il filosofo Mark Johnson e il teorico del diritto Steven Winter hanno dimostrato in opere molto accurate che la metafora, e in grado minore la metonimia, è il meccanismo principale attraverso il quale comprendiamo concetti e svolgiamo ragionamenti astratti. Il merito fondamentale di

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