Il tempo dei bioautomi: Odissea nel futuro 8
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Info su questo ebook
Forse la missione all'Isola Galleggiante non è stata del tutto infruttuosa. Scalatti rientra in Francia dove la situazione sta precipitando, a causa dell'invasione da parte dell'esercito dell'Impero Centrale. Riesce a organizzare con qualche espediente la resistenza, ma è solo rallentare un destino inevitabile. Resta solo una remota speranza, che condurrà Phil a tornare sui suoi passi, fino all'inizio del suo lungo viaggio.
Nato a Palermo ma residente a Milano, Piero Schiavo Campo, laureato in astrofisica, insegna teoria e tecnica dei nuovi media all'Università di Milano Bicocca. Nel 2013 è stato pubblicato su Urania il suo romanzo "L'uomo a un grado kelvin", vincitore del premio Urania. Collabora con Robot e ha un blog personale, "The Twittering Machine", dove pubblica racconti e brevi saggi scientifici.
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Anteprima del libro
Il tempo dei bioautomi - Piero Schiavo Campo
9788865307267
1.
L’amicizia con il santo non poteva che giovare ai miei rapporti con gli isolani. Quando uscimmo dall’acquario di Téleios, non ci fu neppure bisogno che il vecchio Custode spiegasse la situazione ai due chierici: bastò un suo sguardo perché ottenessi da loro un’obbedienza assoluta. Lasciai il mio nuovo amico nella sua casa appollaiata sulla roccia, e mi feci riportare a Lipari.
Il paese di Acquacalda era di nuovo popolato, questa volta non solo di donne e bambini: i pescatori, finito il turno di lavoro a Milazzo, erano tornati alle loro case. La notizia della mia beatificazione presso Téleios si era diffusa con la velocità del vento. Non ci furono festeggiamenti al mio arrivo, ma i sorrisi deferenti del locandiere bastavano per farmi capire come fosse cambiato l’atteggiamento della gente nei miei confronti. L’uomo m’invitò a restare nel suo albergo per tutto il tempo che avessi voluto passare nell’isola, ma io avevo fretta di andarmene. Ora che il bando era stato revocato, non vedevo l’ora di tornare in Francia.
Un pescatore acconsentì ad accompagnarmi subito fino al porto di Tropea, sulla costa calabrese. Da lì partivano i grossi barconi che rifornivano di pesce Napoli e tutta la costa tirrenica del regno. Partimmo a metà del pomeriggio. La barca aveva una cabina, dove riuscii a stendermi su una branda e finalmente mi addormentai per qualche ora. Quando mi svegliai, il cielo era nero, pieno di stelle. L’uomo che mi accompagnava cercava di essere sorridente e ciarliero, ma purtroppo capivo meno della metà di quello che tentava di dirmi; lui parlava, e io facevo grandi cenni col capo. Sul ponte era appesa un’unica lampada che oscillava nella notte. A tratti mi sembrava di intravvedere la costa. Non vedevo neppure una luce, segno evidente che Téleios aveva ragione quando sosteneva che la razza umana era ridotta al minimo. Verso le tre del mattino apparve un centro abitato: era la città di Tropea, la mia destinazione. Il porto e le strade erano illuminate; c’erano diversi pontili con associate le vasche per le balene che avevo già visto a Gaeta. Nel giro di mezz’ora attraccammo a un molo isolato, dove fui fatto sbarcare.
I pescatori si stavano preparando per uscire in mare. Diverse barche di grandi dimensioni avevano già gli ologrammi di bordo accesi, e i marinai erano indaffarati a stivare casse e materiale vario in attesa di salpare. L’uomo che mi aveva portato fin lì si diresse verso uno dei barconi, e si mise a parlare sottovoce con un pescatore alto, dal volto scavato. Ogni tanto faceva cenni nella mia direzione. Alla fine venni convocato con gesti eloquenti. Il marinaio era disposto a portarmi sulla costa francese, senza farmi pagare il passaggio. Mi fece capire che per lui pescare da una parte o dall’altra non faceva differenza. Salii a bordo, e per almeno un’ora assistetti dal ponte alle operazioni di carico, finché prendemmo il mare. L’equipaggio era composto da cinque uomini, e il barcone era trainato da otto simpatici delfini, molto veloci. A volte sentivano il bisogno di giocare, saltando fuori dall’acqua, ma nel farlo tendevano ad aggrovigliare le funi di traino.
Venne l’alba, e il sole tornò a illuminare la parte del pianeta in cui mi trovavo. Dopo avere parlato con Téleios, finalmente mi rendevo conto di quanto fosse grave la situazione degli esseri umani; distruggere i bioautomi non mi sembrava più un impegno preso con me stesso, o con la parte di me che derivava dall’antico condottiero Timur, ma una necessità impellente per l’intera specie. La frustrazione per il colloquio inconcludente che avevo avuto con il santo stava lasciando posto a considerazioni di altro tipo. Possibile che la psicologia dei bioautomi fosse davvero importante per la guerra in corso? Mi veniva in mente la storia di Davide e Golia. L’atteggiamento psicologico del gigante aveva contribuito non poco alla sua sconfitta: gli sarebbe bastato temere un po’ di più il suo minuscolo avversario per averne facilmente ragione. Il tallone d’Achille dell’Impero stava nella certezza della vittoria? Con l’esercito in Francia, probabilmente le città imperiali erano rimaste sguarnite; ma come avrei potuto approfittarne?
Pensavo a quello che mi aveva detto Téleios a proposito dell’inevitabile presenza di un bioautoma sul fronte di guerra. Nel mondo dei bioautomi tutto era controllato, deciso dall’alto. Questa era la loro forza, ma anche la loro debolezza: eliminando il bioautoma al comando, l’armata sarebbe entrata in stato confusionale. Certo, non era facile. La mente che guidava le truppe doveva essere molto ben difesa e, trattandosi di un’entità semi umana, un hack non sarebbe stato possibile.
Dormii per tutto il pomeriggio e parte della sera. L’equipaggio del peschereccio era composto di seguaci della Riunificazione, e il pescatore di Lipari che mi aveva accompagnato li aveva informati della mia amicizia con il santo. Quando mi svegliai, scoprii che