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Pirata bambino e la sfida del Bulbock
Pirata bambino e la sfida del Bulbock
Pirata bambino e la sfida del Bulbock
E-book247 pagine3 ore

Pirata bambino e la sfida del Bulbock

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Info su questo ebook

Non è né possibile né giusto che un gruppo di ragazzi e ragazze, ovviamente tutti pirati, in una notte di pioggia vengano catapultati in una sfida come quelle di cui hanno solo sentito parlare. Tutta colpa di un maledetto corsaro che biascicando li ha sfidati. E non in un posto qualsiasi. Ma proprio nella locanda di zio Jim… È tutta stramaledettissima colpa del Bulbock. E di chi ha stabilito che ogni cosa – la propria vita, i propri ricordi, Cittadella, il suo tesoro – possa essere oggetto di sfida e quindi di conquista e rapina.
Potremmo illuderci che basti avere un gruppo di amici su cui contare. E che Sambi, Junior Janez, quello strambo di Quiqui, Papavero (così come viene chiamato l’Olandese Volante), Silver, Tremal e le sue due bellissime sorelle Sayda e Alvyda, possano cambiare il misterioso destino di Pirata Bambino. Destino scritto e nascosto – intendiamoci – in una sfera di cristallo di rocca, che si dice sia stata trovata nella bocca di un teschio, che era un tutt’uno con il suo galeone.
No, non è giusto. A meno che non torni l’Olonese. Lui, che ha vinto una sfida antica contro i corsari.
Eppure qualcuno dovrà pure occuparsi di Cittadella. Farsene Guardiano. E della ragazza dalla lunga treccia che profuma di pane.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2023
ISBN9788861559899
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    Anteprima del libro

    Pirata bambino e la sfida del Bulbock - Francesco Sortino

    Francesco Sortino

    Pirata bambino

    e la sfida del Bulbock

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    ISBN 978-88-6155-989-9

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2023

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    A Luci, Marco e Ibo.

    La mia piccola ciurma.

    E a me stesso,

    ma bambino.

    1

    Non c’è niente di più disperatamente monotono del mare.

    Non mi stupisco della ferocia dei pirati.

    James Russel Lowell

    Chissà perché, quando fuori piove mi viene in mente mio padre.

    E subito maledico il mare. Ladro e truffatore. Maledire il mare, per un pirata, non è una gran cosa.

    Ero piccolo e mio padre mi aveva preso con sé. Cioè, da quel momento, era diventato mio padre. Avevo circa sei anni. Ero arrivato in porto con la nave scozzese. Ero da solo, sulla banchina, di sera. Pioveva che le gocce facevano male sulla faccia. E lui mi aveva visto che quasi mi nascondevo dietro ad un barile di acciughe. Ero bagnato fradicio e avevo i calzoni corti, strappati al ginocchio. Lui mi aveva notato, chiamato e mi aveva dato un nome: Pirata Bambino. Poi mi aveva preso con sé. Non mi piace parlare di lui, mi fa troppo male.

    Quella era stata la prima volta che l’avevo visto. L’ultima, invece, lo ricordo sulla sua barca, sempre sotto la pioggia, che imprecava contro il vento e intanto mi liberava dal verricello, che mi stringeva come una piovra.

    Un’onda se lo prese, come fosse un gigantesco pescecane. Un attimo prima imprecava, e un attimo dopo imprecava solo il vento. E non avevo avuto neanche il tempo di dirgli Ciao. Papà. L’avevo sempre chiamato così: Pirata. E basta.

    Il mare gli aveva dato me, diceva sempre. Il mare e la pioggia. E il mare e la pioggia si erano ripreso lui. Il mare e la pioggia avevano fatto uno scambio.

    Non ho molti ricordi di prima che arrivassi sul molo di Cittadella.

    Lo dichiaro in anticipo. Questa è una storia di pirati, cioè di noi, ma non è tanto una storia di mare. Scrivo perché le storie che ho vissuto non possono essere perdute. Davvero, sarebbe una vergogna. E che si dimentichi con chi le ho vissute. Non ho mai tenuto un diario di bordo e non voglio, e posso, redigere una cronaca esatta degli eventi. Voglio solo scrivere quello che ricordo e che mi ha ucciso. Quello che mi ha resuscitato. Quello che mi ha reso diverso. Emozioni.

    Brindo a voi, che mi leggete. Che siate pirati, lo siate stati o lo sarete. Alzo il calice a voi e condivido con voi il mio rum del Caribe, vecchio almeno quanto me. E poi sputo per terra. Come si faceva una volta, giù alla taverna.

    2

    Una notte lontana di fine novembre veramente sembrava che cadessero bestie dal cielo invece che gocce d’acqua. Piovono cani e gatti mi aveva detto una volta un marinaio scozzese lungo quel viaggio che mi condusse qui. A pensarci, è uno dei pochi ricordi che mi restano di prima. Di prima, cioè, che diventassi, come ho detto, Pirata Bambino.

    Andai a controllare, come facevo sempre quando pioveva in quel modo. Non vidi animali cadere dal cielo, solo gocce grandi come paguri.

    Le banchine di Cittadella erano deserte. Tutte le barche erano coperte con i teli e sembrava che si facessero vicine vicine, quasi a proteggersi l’una con l’altra. Il porticciolo sembrava abbandonato. A guardare verso il mare si vedeva solo la luce del faro, là in fondo, nel nero della notte, nel punto dove si apre un buco tra i due moli e ci passano in mezzo le nostre navi pirata, quando è giorno, sfilando sotto la bandiera blu della nostra Cittadella, con il dipinto d’oro del tallero dentro un occhio.

    Io stavo dentro, su un tavolo separato dagli altri. E, per altro, la taverna era mezza vuota, con quel tempo da cani. Il tavolo era quello rotondo e avevo appena finito il mio bicchiere di latte.

    Non potevo far altro che pensare: Io non ho un nome. O se ce l’ho non lo conosco. Qui mi chiamano tutti Pirata Bambino, come mi chiamava mio Padre. Questo fatto mi batteva dentro la testa, come le gocce sulla finestra.

    L’acqua sul vetro si addensava e poi scendeva giù, quasi formando dei piccoli fiumi, che rigavano il vetro, dall’altra parte. Nascevano da una goccia e morivano in una goccia. Guardando fuori sembrava che intorno ai lampioni del molo la luce formasse un alone giallastro, come se ciascun lampione generasse un fantasma ectoplasmatico o, più semplicemente, che ciascuno dei lampioni fosse inserito in una bolla di acqua di mare.

    Le case, separate dal molo dal bordo della banchina, si affacciavano silenziose e indolenti sul mare. I loro colori, al sole così brillanti e gioiosi, mi sembrarono scoloriti.

    Da quel giorno, in cui il mare si era preso mio padre, ero solo.

    I miei zii mi davano da mangiare e se no venivo qui, alla Taverna del pesce martello. Che poi, tanto, erano tutti miei zii. E per dormire, zio Jim e sua moglie mi avevano preso a casa loro.

    La pioggia si era rubata il rumore consueto della taverna. E anche la solita luce del porto, là di fuori.

    Certo, dentro era asciutto. Ma sembrava come se un qualche spirito della pioggia fosse riuscito ad entrare e si fosse portato via il rumore.

    Io combattevo contro questo furto insolente e tamburellavo sul vetro, per ricreare un qualche suono che non fosse di pioggia. E ci alitavo, sul vetro, per nascondere nella nebbia creata dal mio fiato i piccoli rigagnoli che scendevano sulla superficie opposta.

    E Capitano Jim (zio Jim) dietro il bancone combatteva con me e sbatteva i bicchieri un po’ più forte sul pianale di noce.

    Ero sulla stanzetta rialzata che guardava a nord ovest, verso l’imboccatura del porto. Certo, guardava, naturalmente, solo quando c’era la luce.

    Dietro di me c’era un tavolaccio e io stavo tra il tavolo e la finestra seduto a cavalcioni di un panchetto a tre piedi, la faccia contro il vetro, come ho detto.

    Sul tavolo, dietro di me, c’erano i cerchi fatti nel tempo dai bicchieri e sembravano tatuaggi del legno che quasi formavano la mappa di un gioco misterioso. Gioco di pirati, of course.

    Il fondo del mio bicchiere di latte coincideva perfettamente con un cerchio più antico.

    Al di sotto della stanzetta, più in basso di tre gradini, si allargava il salone coi suoi tavoli sparsi. Come sempre, i clienti della taverna sembravano fantasmi seduti e ripiegati sui bicchieri. Erano pochi quella sera. Troppa pioggia. Chi poteva era a casa, davanti al fuoco. E gli altri stavano per mare, poveracci, quello stesso mare pescecane e ladro che aveva rubato mio padre.

    Poi, di colpo, accadde.

    Fu un attimo, come uno schiocco di frusta.

    Il sapore del mare entrò per primo nello stanzone, come se una balena ci avesse alitato dentro.

    Poi entrò il vento bagnato. E infine il rumore, come di uno scudiscio nel vuoto.

    Tutti i fantasmi, un numero davvero misero, quei tutti, quella sera, nella locanda – e io con loro – ci girammo nello stesso istante verso la porta, come i filamenti di un’alga quando cambia la corrente.

    Lui stava lì. Sagoma nera nel nero della porta aperta contro il nero senza luce del porto.

    Non entrava, ma stava sulla soglia. Non osava entrare. Non era il suo mondo quello, era uno straniero nel mio bagnato mondo di fantasmi.

    Parlò. Con quel tipico dialetto dei corsari che sembra abbiano in bocca lische di pesce.

    Il tono era perentorio e sibilante. Non faceva domande e non era lì per ricevere risposte.

    Noi vi scfidiamo. Noi corsari scfidiamo i pirati. E batté lo stivale per terra, ma il suono ne uscì acquoso. Mi arrivò una sensazione di viscido. Mi venne alla mente una medusa morta.

    Proseguì: Ad una luna da oggi, nel campo della Roscia del Falco. Chi vinsce spezza la malediscione del tescioro. E lo vinsce come giuscto trofeo. Non cerco voshtre parole. Tra una luna alla Roccia del Falco. Shette corsari e shette pirati, come nelle shfide antiche. Chi vinsce spessa la malediscione e ha il tesoro.

    Uscì con un sibilo. E per un attimo sembrò che nulla fosse accaduto. Tutti, dentro quella locanda, lo avrebbero sperato.

    Erano passati trentadue anni dall’ultima, memorabile sfida. E un quadro, ormai annerito dal fumo delle pipe e dall’umidità del porto, appeso proprio dietro al bancone di zio Jim, restava l’ultimo testimone di quell’antica sfida tra pirati e corsari. Nel quadro si vedeva ancora bene il profilo dell’enorme nave che allora era stata disalberata per permetterne lo svolgimento. Una gigantesca tolda senza ostacoli. E sopra, i quattordici sfidanti di allora. Non si distinguevano i volti, la pittura era quasi completamente invisibile. Ma qualsiasi pirata, sin da bambino, ne conosceva a memoria i nomi. Per i pirati, Morgan il gallese era il guardiano. A proteggere Edward Barbanera e Calico Jack, oltre all’enorme Black Bart. Al centro, l’Olonese. A destra Charlie Vane, capitano del mitico Ranger (che era ancora ancorato in porto, davanti al venditore di sartiame, che tutti chiamavamo zio Corda e che ci faceva lezione di pirateria, nel suo negozio) e a sinistra il cinese Po Tsai.

    I loro nomi erano ancora incisi e visibili sulla cornice del quadro. Privilegio di vincitori.

    Nessuno di loro viveva più a Cittadella. Edward, Calico e Vane erano stati uccisi anni prima nella battaglia del Calice Rosso, contro i soldati Gallesi (dopo l’emissione dell’Editto le armi si potevano usare solo con gli esterni e solo contro di loro si potevano usare per uccidere. O per essere uccisi. E comunque, solo se c’era una guerra).

    Black Bart era scomparso nel mare e si diceva che fosse stato inghiottito da una piovra (ma io non ci ho mai creduto: non ho mai visto, in tanti anni, una piovra così grande da divorare un gigante, come dicevano fosse Black). Il cinese era partito anni prima col suo galeone, insieme a Morgan e non era più tornato. In paese restava un suo nipote che era mio amico (ed era un po’ più grande di me) e che tutti chiamavamo Tremal.

    L’Olonese era stato senz’altro il più temibile di quella generazione di pirati. Nessuno poteva uguagliare il suo tocco. Il suo affondo sinistro era imprendibile. I vecchi raccontavano che la sua abilità era dovuta al fatto che aveva la gamba sinistra visibilmente più corta dell’altra. L’Olonese sapeva ondeggiare sulle gambe, avvalendosi del suo squilibrio nella postura. Ed era in grado di disorientare chiunque nei duelli corpo a corpo. Quella sua frizzantezza e armonicità nei movimenti era proverbiale e veniva chiamata la spuma dell’onda. Anche noi ragazzi quando giocavamo ad acchiapparci cercavamo di imitare la spuma dell’onda, ed io ero il più forte di tutti a riprodurla, o almeno così dicevano, forse perché sono mancino. Scartavo a sinistra e poi scattavo a destra. E nessuno riusciva a prendermi.

    Proprio per quella vittoria, in quella sfida celebrata dal quadro di zio Jim, la comunità dei pirati poté stabilirsi a Cittadella intorno al porto, mentre i corsari si ritirarono per sempre nella tenebrosa e irraggiungibile Isola delle Nebbie, non segnalata da alcuna mappa nautica. Diventarono gli altri. E da allora, fino a stasera, nessuno dei corsari era stato più visto. Tanto che i bambini cominciavano a dirsi tra loro che questa dei corsari era una storia inventata dagli zii, ed usata come minaccia per chi si comportava male: Ti faccio arrostire come un calamaro da un corsaro! si gridava a chi rubava le frittelle, ancora calde, dal bancone della bottega dietro al grande carrubo, sulla piazzetta. O Ti faccio sposare ad un corsaro, rivolto alle ragazze impertinenti.

    La sfida che era stata lanciata non permetteva repliche. Ed era clamorosamente importante. Da che mondo è mondo e da che esistono pirati e corsari, mai una sfida è stata fatta cadere nel vuoto. Il premio era spezzare la maledizione del tesoro. Maledizione per i corsari, fino ad allora, soprattutto.

    Perdere la sfida per noi avrebbe significato perdere Cittadella. Tesoro e Cittadella erano due parti di una sola cosa. O, forse, erano la stessa cosa. Così era stato da sempre, fin dall’antichità.

    E di questa storia, nel villaggio, tutti sapevano tutto. O credevano di sapere.

    3

    Il tesoro, o almeno la sua leggendaria esistenza, era collegato alla stessa esistenza e sopravvivenza di Cittadella e quindi della comunità dei pirati. Non a caso, solo a citarlo, evocava immediatamente tenebrosi presagi. Nessuno sapeva assolutamente da che cosa fosse composto. La storia che si narrava era antica e anche molto confusa.

    Si diceva che nell’esatto punto dove ora sorge la chiesetta di Cittadella Dei Pirati, tutta costruita su una baia a forma di medusa (e da ciò prende appunto il nome di Baia della Medusa), tanto tempo prima aveva fatto naufragio una nave. All’epoca non c’era Cittadella e non c’era neanche il porto. In tutta la baia, all’epoca, c’era solo una stamberga sulla punta nord, dove viveva la famiglia di un pescatore che aveva due figlie che si chiamavano Viola e Verde. Si dice che l’uomo avesse scelto quei nomi perché gli ricordavano il colore del mare dell’alba e del tramonto. L’uomo amava molto le sue ragazzine, anche perché aveva perso la moglie quando erano molto piccole. Ma la leggenda dice che un giorno, improvvisamente, le due ragazzine scomparvero. Senza che ci fosse un perché. Semplicemente, sparirono. E si dice che dopo un po’ anche il padre fece la cosa più assurda per un pescatore. Lasciò per sempre il mare e sembra – anche se francamente mi sembra assurdo che questo possa essere il destino di un pescatore – fosse andato a vivere in una lontana città e si fosse messo a fare il fabbro. Non oso dirlo a nessuno, ma io la capisco molto bene. La sua scelta, intendo.

    La casa del pescatore oggi non esiste più, però sulla punta nord hanno lasciato un pennone di maestra conficcato nel suolo che sopra ha inchiodata una tavola di legno che si dice fosse stata dipinta col nero di seppia dallo stesso disperato pescatore. Sopra la tavola c’è scritto ancora Vio… e V…de le m… pr…se.

    Con i miei amici ci andavamo spesso lassù, perché dall’alto si vedono bene le barche che entrano nel porto. Anche se io non avevo più nessuna barca da aspettare.

    Ma è bello comunque sdraiarsi sull’erba vicino al bordo delle rocce a guardare il mare di sotto e il cielo di sopra. Davvero, da lassù, il mare sembra verde e viola.

    E stando lì, viene bene pensare, guardando le nuvole.

    Siamo pirati. Che significa? Vuol dire che siamo ladri? Che siamo banditi? Perché ci chiamiamo pirati tra noi?

    Per tutti i miei amici, pirata vuol dire uomo del mare e del vento. Io non conosco altro che pirati. Quindi, per me, pirata vuol dire uomo. O donna. Nel mio caso poi, io sono pirata anche nel nome. Anche se avevo già compiuto dodici anni, io ero e sarò per sempre Pirata Bambino.

    Questi erano più o meno i miei pensieri, quando andavo lassù…

    E spesso mi interrogavo, guardando il cielo, se il mio nome avesse mai potuto adattarsi ad un comandante di una nave e se avesse mai potuto incutere sufficiente timore e rispetto alla ciurma che avrei avuto. E cercavo una nuvola che assomigliasse al galeone che avrei comandato. Per questo avevo deciso che la mia nave l’avrei chiamata Nuvola. Suonava bene. Nuvola. E al timone Pirata Bambino. Poi pensavo che per essere comandante di una nave avrei dovuto vivere per mare, e questa circostanza mi faceva rabbrividire.

    La storia del tesoro era in qualche modo legata a quell’antico pescatore. Perché nella nave che era naufragata nella nostra baia, vecchi pirati che vagavano per i mari e che si erano fermati da queste parti per fare rifornimento di acqua avevano trovato, si dice, qualcosa di incredibile e mostruoso. Al posto della polena, che è quella specie di statua di legno che viene messa sotto il pennone di prua, credo per spaventare le terribili bestie del mare mentre la barca taglia le onde (o forse per spaventare il mare stesso, ladro di uomini), quei pirati avevano trovato uno scheletro. Ma le sue ossa fradicie non erano separate dal legno della nave, né lo scheletro vi era in qualche modo incollato. Le ossa, letteralmente, proseguivano nel legno. Le ossa delle dita delle mani, aperte all’indietro come a voler afferrare tutto il mare e poterlo inghiottire in un sol colpo nelle terrificanti mascelle spalancate, erano come saldate alle due fiancate della nave. Ma non era una saldatura. Gli increduli pirati constatarono che le ossa di quelle mani, dei piedi ripiegati all’indietro, della nuca, dello scheletro continuavano nella nave. La nave era di osso. La nave era l’assurda protuberanza dello scheletro, e nave e scheletro erano una cosa sola.

    Ma non era tutto. La nave non era, come sempre per le navi che naufragano, adagiata su un fianco, o conficcata su uno scoglio appuntito. Affatto. La nave non era neanche più nel mare. Era a circa trenta piedi dal limitare delle onde, al confine interno della spiaggia. Ed era, incredibile alla vista, capovolta. La parte più in alto era la chiglia. Ma, altra assurdità, l’unico punto in cui la barca toccava la terra era l’albero di maestra, che era conficcato nel terreno. La nave, perfettamente intatta, si reggeva in equilibrio, posizionata sottosopra e sorretta dall’albero che sembrava un’assurda colonna, sormontata da un enorme e asimmetrico capitello con la forma di galeone rovesciato.

    Per effetto di questa posizione lo scheletro che si poteva vedere a prua non guardava in basso, come fanno tutte le polene, ma in alto. E digrignava i suoi denti verso il cielo, come a rappresentare un’assurda minaccia. O una sfida o un desiderio di vendetta.

    Quei pirati, allora, avevano esplorato ogni cosa, di quel galeone capovolto, ma non avevano trovato alcuna traccia di chi aveva abitato la nave. Poi avevano osservato da vicino quell’orrido scheletro, issandosi con delle cime sulla chiglia rovesciata. E si dice che, quando il pirata che vi salì notò cosa si nascondesse tra i suoi denti, cadde a terra e morì. Gli altri allora, terrificati dall’accaduto, presero delle scale per vedere cosa mai si celasse tra i suoi denti. Vi trovarono una bolla di vetro giallo, grande come una pigna (e per estrarla dovettero spezzare i denti del teschio) che però emanava dal di dentro una luce giallastra. Dentro la bolla, c’era un rotolo accartocciato

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