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Alabaster. Guerra I
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E-book492 pagine7 ore

Alabaster. Guerra I

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Info su questo ebook


Eleanor, una commessa di libreria, in seguito all’incontro con l’affascinante François, verrà a scoprire che questi è un importante membro dell’Organizzazione, una setta che controlla il mondo dei non morti di tutto il pianeta, e che hanno il compito di salvare a tutti i costi Eleanor dalle fauci dei loro millenari nemici, i licantropi. Ma chi è veramente Eleanor? E soprattutto, qual è il sentimento che la lega a François? Avventura, inseguimenti, colpi di scena, creature straordinarie, in un susseguirsi incalzante e ricco di emozioni, per scoprire una verità sconvolgente: mai sentito parlare dei Cavalieri dell’Apocalisse?...
Un nuovo classico per il genere che ha appassionato milioni di lettori.
 
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2019
ISBN9788885629455
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    Anteprima del libro

    Alabaster. Guerra I - Nevis Menegatti

    Table of Contents

    Alabaster

    Prologo

    I. L’inizio

    II. L’incontro

    III. La cena con i genitori

    IV. Chiarimenti e cambiamenti

    V. Semplici, curiose coincidenze

    VI. La svolta verso l’ignoto

    VII. La casa sulla riva del mare

    VIII. La faida d’Irlanda

    IX. Quando due mostri si incontrano

    X. Confusione fra sussurri e seta

    XI. La rivelazione

    XII. La partenza. Nuovi incontri

    XIII. Tsung, la Serpe Scarlatta

    XIV. Il sapore del desiderio

    XV. Ricordi del passato

    XVI. Il castello di Leeds

    XVII. Il risveglio

    XVIII. Tra fuoco e fango

    XIX. Il rumore del silenzio

    XX. Prigionia

    XXI. Di nuovo insieme

    XXII. Sorgendo nelle tenebre

    XXIII. Una Promessa per il Futuro

    Nevis Menegatti

    Alabaster

    Guerra I

    Copyright WriteUp Site 2018©

    www.writeupsite.com

    info@writeupsite.com

    via Michele di Lando, 106 — Roma

    ISBN 978-88-85629-45-5

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

    di riproduzione e di adattamento anche parziale,

    con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie

    senza il permesso scritto dell’Autrice.

    Il viaggio era stato lungo, estenuante, e necessario.

    Gli uomini di mare sussurravano troppo, soprattutto quando gli occhi degli ufficiali non erano puntati su di loro, e ogni volta che qualcuno di quegli strani passeggeri si faceva raramente vedere in pubblico. Spesso li aveva sentiti sussurrare, durante quei quasi due mesi di navigazione, dall’Italia alla Grecia e ritorno. Storie passavano sottobanco, fra una bottiglia di acquavite e una vela ammainata. Parlavano di ciò che avrebbero fatto quando avrebbero rimesso piede sulla terraferma. Elencavano le bettole che avrebbero visitato, le strade che avrebbero percorso, il numero di prostitute di fronte alle quali avrebbero calato le brache, quando, e se, avrebbero visitato moglie e prole. Come mai, si chiedevano, quegli uomini di nero vestiti lasciavano così raramente le proprie cabine, e perché nessuno poteva avvicinarsi all’enorme cassa caricata sulle coste greche?

    Un mozzo aveva provato a dare una sbirciata, ed era sparito il giorno dopo senza lasciare traccia alcuna.

    La dannata cassa è maledetta, dicevano. I marinai che scendevano sotto coperta sputavano a terra ogni qualvolta erano costretti ad avvicinarsi ad essa, come se quel breve gesto di sdegno potesse allontanare l’aura di minaccia che aleggiava attorno al prezioso, misterioso carico. Alcuni non vedevano l’ora di sbarcare, e si preoccupavano di tener ben stretti portafortuna e rosari, così che il demonio non li portasse via durante il sonno, proprio com’era successo al giovane mozzo.

    François era stato umano, un tempo, ma ogni ricordo legato alla sua vita passata era stato cancellato dalla sua memoria. Si ritrovava pertanto ad ascoltare il ciarlare di quegli uomini di mare dall’interno della sua cabina, dilettandosi in silenzio quando uno di loro, a turno, aggiungeva dettagli cruenti alla morte del mozzo. Il suo corpo, dicevano, era stato ridotto in cenere e risucchiato all’interno della cassa: un tributo che gli uomini in nero avrebbero presto condotto all’altare del diavolo. Speravano che la sua anima avrebbe seguito ciò che rimaneva del cadavere, non volendo avere spiriti a bordo. Avevano una commendevole immaginazione, in particolare quando ritenevano cha al malcapitato che aveva visto troppo era stato solamente rotto l’osso del collo, prima di essere gettato fuoribordo in mezzo all’Egeo.

    François e i suoi colleghi sentivano l’eccitazione e il sollievo crescere nell’aria durante gli ultimi giorni di navigazione; gli umani avrebbero concluso il lavoro per cui erano stati pagati fior di monete. Di quella cassa (e di coloro che la proteggevano), non avrebbero mai più sentito parlare. Tuttavia, prima di riconquistare la libertà e di scacciare la sfortuna accumulata ogni volta in cui avevano messo piede nella stiva, avrebbero dovuto scaricare l’oggetto di sventura, ed assicurarsi che venisse issato sul carro che lo avrebbe condotto oltre le Alpi.

    François avrebbe dato uno zecchino per vedere che cosa stava avvenendo sotto coperta, e come i marinai stessero decidendo i nomi degli incaricati allo sbarco. Tuttavia i suoi doveri lo chiamavano altrove, fortunatamente lontano dal tanfo di sudore, pesce e aria stantia della stiva.

    Il viaggio era giunto al termine, e la nave era finalmente ormeggiata al porto di Venezia. L’intensa luce del meriggio estivo bruciava gli occhi, e scatenava un senso di fastidio e oppressione nel suo petto. Nonostante gli anni trascorsi in quella non-vita, ancora si ritrovava a rimandare i momenti in cui il dovere lo portava ad esporsi al sole.

    Dal breve e tetro corridoio del castello di poppa, il vampiro osservava i suoi due colleghi emergere da sottocoperta. I loro vestiti erano uguali ai suoi: pesanti pastrani di velluto nero, lunghi fino all’inguine. Ogni orpello era stato abolito, come le steccature al farsetto e i colletti delle camicie in pizzo, a fuoriuscire da quei pesanti tessuti. I pantaloni, di foggia orientale, si allungavano morbidi oltre il ginocchio, infilandosi in alti stivali di pelle dal tacco rinforzato. Unica decorazione, orli e bottoni cuciti con fili d’argento.

    Silenziosi e scuri, si disposero all’ombra, sul ponte. E, poco dopo il loro passaggio, i marinai si mossero per rimuovere il tetto della stiva.

    François fissò la schiava che aveva acquistato alla loro partenza, mentre questa avanzava a capo chino, schivando gli sguardi degli uomini e intenta a spostare gli averi del suo nuovo padrone. Non poté far a meno di aguzzare lo sguardo e avanzare. Non poteva lasciarla da sola in mezzo a quelle bestie, che da troppo tempo non toccavano le curve di una donna.

    Il primo impatto con la luce lo costrinse a chiudere gli occhi, e a volgere il capo altrove. Il contatto con i raggi solari, una calda carezza per qualsiasi altra creatura terrena, dava a quelli come lui una sensazione assai diversa. Quell’intenso calore non era dissimile dal tenere la pelle pericolosamente vicina ad una fiamma viva, rendendo tutto insopportabile. Il canto dei gabbiani e le grida di mercanti e lavoratori diventarono immediatamente un’atroce cacofonia.

    Il tempo a disposizione, prima che gli effetti del sole causassero danni irreversibili, era poco. Dovevano fare presto.

    Afferrata la schiava per una spalla, e costretta a farla avanzare al proprio fianco, dove avrebbe potuto tenerla sott’occhio, i due scesero sulla banchina.

    Venezia, la Serenissima, era un gioiello di tagliente eleganza. Meravigliosa durante la notte, nei giorni sereni si trasformava in una belva crudele. Il candore delle sue mura feriva gli occhi di tutti quelli che, per decenni o secoli, avevano visto nient’altro che le tenebre della notte. Più calda era inoltre la giornata, più l’olezzo dei canali si spargeva per le vie. François si affrettò a raggiungere gli altri agenti, i quali stavano già conversando con i colleghi francesi; dietro questi ultimi, la carrozza, il carro e la scorta armata attendevano l’arrivo della cassa.

    Avete avuto problemi durante il viaggio?.

    Françoise scosse il capo. Mandò i suoi ad occuparsi dei preparativi per la partenza e la propria schiava sulla carrozza, invitando poi gli altri sotto una delle tante tende da mercato, lì dove il sole non poteva nuocere a nessuno.

    Nessuno, disse. Un mozzo morto non sarebbe mancato ad anima viva. Attirerete l’attenzione di molti. La scorta non era necessaria, aggiunse.

    La prudenza non è mai troppa.

    Il vampiro rimase in silenzio per un lungo istante, poi girò il capo verso la nave. La cassa, tre metri di altezza, due di diametro per uno e mezzo di profondità, tenuta in elevazione da un intricato verricello di funi, si stava lentamente adagiando sul carro. Era in legno di quercia, liscio e rinforzato sugli angoli da pesanti cardini in lega. Mentre il quartiermastro gridava istruzioni e gesticolava comandi dal sopraelevato ponte di poppa, in tanti erano sotto sforzo, per evitare che il carico cadesse, schiantandosi al suolo o, ancora peggio, in mare.

    Il solo pensiero di una tale eventualità gli causò un nodo alla gola. Se il contenuto di quella cassa fosse andato in frantumi, le disastrose conseguenze si sarebbero sparse per i continenti conosciuti in un singolo battito d’ali.

    Aveva cercato di non dare troppo peso all’importanza del proprio incarico, ma il vedere quei muscoli flettersi, il sudore imperlare la pelle unta e sporca degli uomini, e quella pallida cassa calare lenta sul suo prossimo nido, riportò a galla ciò che aveva provato quando le alte sfere dell’Organizzazione gli avevano affidato il compito.

    Paura, terrore ed ansia.

    François fece d’istinto un passo verso il carro, lasciandosi alle spalle l’ombra offertagli dalla tenda spiovente. La luce e il calore affondarono gli artigli nella sua pelle ma, questa volta, lui non riuscì a preoccuparsene.

    Dovremmo dire loro di fare in fretta, puntualizzò uno dei francesi.

    François socchiuse gli occhi, e spostò la mano destra sull’elsa della spada, chiudendo con forza le dita attorno al pomolo.

    Non sarà mai in fretta abbastanza.

    Prologo

    Notte.

    La creatura si muoveva silenziosa fra la boscaglia che circondava il paesino di cinquecento anime. Faceva freddo; febbraio era agli sgoccioli, eppure lì, ai piedi delle Dolomiti italiane, alle porte della città di Trento, il vento ancora ricopriva di un sottile strato di brina gli steli d’erba ingialliti dall’inverno.

    Freddo.

    I rami degli alberi erano ancora ammantati di neve, caduta copiosa per tre giorni consecutivi la settimana precedente. Si era ghiacciata e, ogni tanto, era possibile udirla cadere.

    Le ombre erano il suo regno, erano il regno della sua razza che aveva fatto delle tenebre e della notte le proprie alleate.

    Silenzio.

    Quando fa freddo, sono pochi gli animali che s’azzardano ad uscire dai caldi rifugi. Proprio come gli umani. Forse, molto tempo fa, anche lui era stato uno di loro. Forse. La creatura della notte era vestita di nero come l’Organizzazione richiedeva a quelli della sua specie. Nonostante fossero in trenta, dubitava di riuscire a portarli tutti sani e salvi alla sede; il nemico doveva essere abbattuto nel silenzio, senza destare sospetto nella popolazione del villaggio che, si sperava, dormisse.

    Gli umani, fragili e ingenui, credono di essere al sicuro all’interno delle mura domestiche. Basta un antifurto per permettere loro di chiudere gli occhi con serenità.

    A volte la creatura desiderava provare, almeno per una volta, cosa volesse dire potersi addormentare sperando che il giorno successivo fosse migliore.

    A loro, che conoscevano la verità che all’umanità doveva rimanere celata fino alla fine, non era concesso questo privilegio. Gli umani vivevano le proprie vite preoccupandosi di pagare i mutui dell’auto, della casa. Si lamentavano anche delle cose più piccole. Essi invece sapevano, e lottavano con le unghie e con i denti per mantenere quelle infide, a volte odiate, creature al sicuro.

    Era solamente per questo che agivano? Certo che no, la preservazione della razza umana era solamente uno dei tanti compiti. Dopotutto, loro erano cibo.

    La creatura spiccò un balzo di cinque metri, e atterrò silenziosissima sul ramo di un albero, aggrappandosi al tronco con le mani pallide, mentre gli occhi, che tanto avevano visto durante i secoli passati, si posarono sulla strada principale che tagliava a metà il paesino. Le auto erano parcheggiate lungo i bordi, i lampioni proiettavano una luce giallognola sui cumuli di neve, depositati ai lati delle strade dagli spazzaneve. Tutto sembrava tranquillo.

    Dovevano muoversi.

    Osservò alle proprie spalle: le tenebre, seppur fitte, non riuscivano ad impedirgli di vedere con nitida chiarezza le trenta figure nascoste nelle ombre della vegetazione. Alzò una mano, per indicare al gruppo alla sua sinistra di proseguire. Quindici dei suoi, nel giro di un battito di ciglio, si mossero veloci per aggirare il paese tanto che un umano li avrebbe visti sparire nel nulla. La creatura tenne momentaneamente per sé gli altri, e scese dall’albero cominciando l’accerchiamento della parte sud.

    L’Organizzazione era stata chiara. I nemici avevano sterminato una famiglia dei loro senza che questa mostrasse aperta ostilità. Non potevano permettere che un’altra faida scoppiasse nella penisola italiana, ce n’erano già troppe nel resto del mondo. Il branco nemico era piccolo: ucciso il loro leader e gli immediati parenti, gli altri avrebbero abbassato le orecchie e si sarebbero rintanati in silenzio… per alcuni mesi, almeno. Guardò di nuovo dietro di sé, e si compiacque nel vedere che i due che aveva osservato direttamente negli occhi, senza bisogno di cenni o parole, si accostarono a lui, e silenziosamente si allontanarono avvicinandosi ad un giardino che confinava con il bosco.

    Un vento gelido cominciò a soffiare, muovendo i suoi lunghi capelli neri. Un cane, nel giardino, uscì dalla sua cuccia, li puntò, e cominciò ad abbaiare. François fulminò l’animale con lo sguardo. Uno dei due agenti in avanscoperta piombò alle spalle dell’animale, gli afferrò la testa, e la torse in un colpo netto. Il cane si accasciò a terra senza vita.

    Egli scavalcò assieme alle altre figure il muretto che delimitava il giardino. Si avvicinarono alla facciata dell’abitazione e saltarono sul tetto. Avanzò fino al lato dove c’era una stradina minore, e divise nuovamente gli agenti. Rimanevano i due membri in avanscoperta, dietro i quali egli procedeva insieme ad altri tre. Attesero per un minuto e mezzo, il tempo necessario alle squadre per circondare la casa nella quale l’Alfa e la sua famiglia vivevano. Solamente François e quelli al suo diretto seguito sarebbero entrati nell’abitazione e, mentre gli altri si sarebbero presi cura del resto della famiglia, a lui sarebbe toccato il capo branco.

    Si accovacciò sul tetto assieme agli altri e attese paziente. Una piccola luce rossa lampeggiò un paio di volte dall’altra parte del paese, a nord. Un’altra luce verde si accese per un secondo ad ovest, e infine ad est. La creatura annuì ed infilò una mano nella giacca nera, estraendone lo stesso piccolo laser, rosso. Lo accese facendolo lampeggiare per tre volte.

    Era il momento di agire.

    Il vento spirò più forte, sollevando la polvere di ghiaccio sui tetti, che colpì la sua pelle levigata e dura come il marmo. Nonostante la neve, saltare da un tetto all’altro, per i membri della sua razza, non era difficile. Saltò su un paio di essi, fermandosi quando la casa fu in vista: si affacciava sulla distesa di alberi dove il branco era solito riunirsi e dove, al momento, si trovava il primo gruppo di agenti. I due dell’avanscoperta erano appostati sui tetti delle case ai lati del bersaglio. Tutti gli altri agenti all’esterno avevano il compito di impedire a chiunque di accorrere o di scappare.

    François osservò le finestre, e tese il proprio udito per catturare i rumori provenienti dalla casa: con la sua acuta vista perforò le tenebre, passando in rassegna le finestre affacciate a sud. Niente, ma seppe benissimo che non poteva ancora tirare un sospiro di sollievo. Fece attendere i tre al seguito, mentre, sfruttando la propria velocità, egli raggiungeva e disattivava il pannello elettrico esterno. Fece un cenno, e la sua squadra si mosse, raggiungendo la porta finestra del giardino. Tagliarono il vetro con una punta di diamante; una volta all’interno, uno di disattivò con velocità e sicurezza il pannello dell’antifurto.

    Erano dentro.

    Al piano terra c’erano cucina, soggiorno, uno dei due bagni e il ripostiglio. Al piano di sopra, invece, c’erano la camera matrimoniale, la stanza della figlia adolescente, quella del figlio maggiorenne, e il secondo bagno. L’odore di licantropo gli riempì le narici con fastidio. Salirono le scale. Si spostarono davanti alle stanze dei membri della famiglia, pronti ad agire.

    Se fosse stato un umano, la creatura avrebbe preso un profondo respiro prima di aprire la porta: ma non aveva bisogno di respirare per sopravvivere, e il puzzo di licantropo era troppo nauseabondo.

    L’uscio si schiuse lentamente. Nel buio, quattro occhi luccicarono alla poca luce che penetrava dalle finestre. Egli spinse di lato il proprio compagno, e si piegò con il petto a terra, giusto in tempo per evitare la femmina dominante che li scavalcò con un balzo. Aveva provato ad atterrarli senza riuscirci. Così entrò subito nella camera, per attirare su di sé l’attenzione del grosso maschio, mentre il suo compagno si occupava dell’altra.

    Il lupo, dalle sembianze umanoidi, alto più di tre metri e dal foltissimo pelo nero, spalancò le enormi fauci e ruggì, prima di caricarlo e tentare di colpirlo con un’artigliata che avrebbe potuto staccargli la testa. François di nuovo si piegò in avanti, così da lasciar passare la zampa sopra la propria testa, chiudendo la mano sinistra in un gancio che andò a colpire lo sterno robusto del licantropo, con sufficiente forza da farlo arretrare, guaendo. Sapeva che un colpo del genere, che avrebbe frantumato la cassa toracica di un umano, per un maschio Alfa era solamente un fastidio ignorabile. Dalle altre stanze provenivano altri ringhi, segno che il combattimento era cominciato anche lì.

    Dovevano metterli a tacere nel minor tempo possibile.

    Approfittò dell’arretrare del licantropo per aggirarlo e piantargli un calcio di piatto contro la caviglia, rompendogliela con uno schiocco. Il grosso esemplare guaì dal dolore, trasformando il dolore in furia cieca; si girò, restando ritto su una zampa sola. Il vampiro sentì gli artigli affondare per due centimetri buoni nella carne durissima del proprio petto. Sarebbero arrivati più a fondo, se non fosse riuscito a compiere quel mezzo passo indietro. Mentre il sangue cominciava a macchiargli la camicia scura, afferrò con la mano destra il polso del mostro. Diede un colpo deciso con il palmo della sinistra al massiccio gomito del licantropo, che si ritrovò senza la possibilità di utilizzare un braccio. La belva ruggì, e torse il busto: abbassò velocemente il muso, e serrò le fauci affilate come coltelli intorno al polso della mano che lo aveva colpito.

    Il giovane vide la propria mano cadere a terra. Il dolore che avvertivano quelli della sua specie era di gran lunga minore rispetto a quello degli umani. La perdita di una parte del corpo era come un fastidioso pizzicore che gli risaliva dal gomito alla spalla. Aguzzò lo sguardo e balzò di nuovo all’indietro. Il licantropo ruggì soddisfatto al vampiro, che ricambiò con un sibilo breve e stridente. Ancora una volta, l’Alfa caricò, cercando con la zampa buona di afferrare il collo del rivale che, per qualche motivo, lo lasciò fare. Fu sollevato da terra, e avvicinato ai denti sporchi del proprio stesso sangue, mentre convogliava l’energia del proprio potere all’interno dell’unica mano che gli era rimasta.

    Il vampiro ghignò, e non diede il tempo al licantropo di mostrare confusione per quell’espressione. La mano destra penetrò nella gola dell’Alfa. L’agente dell’Organizzazione poté, con la propria forza, oltrepassare le fasce muscolari del collo, rilasciando nel sistema nervoso dell’altro un’ingente scarica elettrica che uccise la bestia sul colpo, facendola crollare a terra. Osservò l’enorme licantropo che, con la propria sola mole, occupava quasi metà della stanza, e si chinò per raccogliere la mano. Avvertiva il proprio sangue coagularsi attorno alle ferite sul petto. Se non avesse indossato la camicia, sarebbe stato in grado di vedere le labbra della ferita richiudersi, eliminando ogni traccia di cicatrici. Il vampiro avvicinò la mano al moncherino che già aveva cessato di sanguinare, e osservò le fibre muscolari allungarsi dal braccio all’arto perduto. La prima volta che, tanto tempo prima, aveva osservato il proprio corpo ricongiungersi, i suoi tendini riallacciarsi, e quelle poche vene e arterie che gli erano rimaste ricostruirsi, aveva gridato dall’orrore.

    Ormai non si stupiva più, e si ritrovò a pensare a quanti uomini sarebbero stati necessari per ripulire la casa dall’attacco. Un minuto dopo, mentre saggiava i movimenti eleganti della mano ricollocata al suo posto, uscì dalla camera. Nella casa era tornato a regnare il silenzio. Uno dei suoi agenti giaceva morto nella camera del figlio adulto dei licantropi, senza testa. Al giovane maschio aveva pensato un altro. Il vampiro entrò nella camera per ispezionare il cadavere del licantropo, constatando come un buco grande come un pugno, all’altezza del cuore, fosse stata la causa della sua morte, quando avvertì una presenza dietro di sé. Si girò, e l’agente che s’era occupato della compagna dell’Alfa gli fece un cenno del capo. Lo seguì, e fu condotto fino alla camera della giovane femmina, che giaceva con il cranio fracassato sul pavimento. Un altro agente si trovava fermo di fronte ad una culla, dalla quale proveniva il respiro raschiante di un neonato. Aggrottò le sopracciglia e si avvicinò.

    Fra le coperte, si agitava un bambino di appena qualche giorno, maschio, avvolto da una copertina azzurra trapuntata. Muoveva le piccole mani chiuse a pugno, e osservava incuriosito le figure sconosciute.

    Quel bambino non era nel programma.

    «Lo eliminiamo, signore?».

    La femmina dell’Alfa non era incinta, ma la collocazione della culla nella stanza dell’adolescente gli fece comprendere chi fosse la madre. Si girò e si avvicinò al corpo della femmina, mentre uno dei suoi agenti raccolse dal lettino il bambino, che cominciò immediatamente a piangere.

    A nessun bambino piaceva essere tenuto in mano da una creatura sospesa nella non-vita.

    «Controllalo mentalmente e fallo dormire. Lo spediremo nel Montana» ordinò uscendo dalla camera.

    «Queste bestie si riproducono come conigli», sussurrò ad uno degli agenti, quello incaricato di trasportare il cucciolo d’uomo.

    Il vampiro si chinò sul corpo senza vita della femmina adulta, quando vide uno degli agenti avvicinarsi alla finestra, estrarre da una tasca il laser, e puntare il fascio in direzione dei tetti delle case vicine, facendolo lampeggiare per tre volte. Comunicava alle squadre di perimetro la buona riuscita della missione. Questi avrebbero avuto il compito di ripulire l’appartamento da ogni traccia del loro passaggio, ben sapendo che gli esseri umani non avrebbero tenuto il naso al di fuori dalle faccende che non li riguardavano.

    Un’intera famiglia sarebbe sparita nel nulla senza lasciare traccia. Doveva sembrare che si fosse trasferita senza dire una parola ad anima viva. E Trento, aristocratica e silenziosa, non avrebbe protestato.

    Era stato un lavoro netto, preciso. Un’altra missione perfettamente portata a termine.

    Si alzò avvicinandosi alla portafinestra. L’aria all’esterno spirava gelida. Dal cielo cominciavano a scendere fiocchi di neve; quella neve avrebbe aiutato a nascondere la loro presenza. I suoi occhi blu, che avevano ammaliato tante donne, si chiusero. Fece un profondo respiro, assaporando l’apatia che, nonostante il combattimento di poco prima, riconquistava il posto nel suo animo.

    D’un tratto, il cellulare gli suonò nella tasca dei pantaloni. Inarcò un sopracciglio cliccando il pulsante dell’auricolare, per mettere a tacere la suoneria. Non voleva svegliare tutto il vicinato.

    La voce che proveniva dall’altra parte della linea sembrava agitata per quanto cercasse di nasconderlo, di trattenersi. La vibrazione della voce gli fece capire immediatamente che era qualcosa di importante.

    Terribilmente importante.

    «L’abbiamo trovata. I vertici chiedono la sua presenza in Irlanda, signore».

    Sgranò gli occhi. Non riusciva a crederci. Nonostante non gli fosse necessario, l’antico istinto di umano gli fece trattenere il fiato. Osservava un punto bianco davanti a sé.

    Aveva pensato, sperato, che quel momento non sarebbe mai arrivato. Che qualcuno avrebbe posto la parola fine alla sua eterna dannazione, prima che lo scontro finale potesse cominciare.

    Abbassò il capo. All’interno, gli agenti, ancora ignari, si affannavano a raggruppare i corpi in un angolo. Dai tetti delle case cominciarono a scendere altre squadre. Come ombre silenziose, cominciarono il lavoro di pulizia.

    Avrebbe dovuto dirglielo.

    Non rispose alla voce, chiuse la chiamata e si ritrovò ad osservare le tenebre del bosco.

    Era cominciata… E lui vi era dentro fino al collo.

    Il rumore delle onde, che si infrangevano contro gli scogli scuri ricoperti di alghe, accompagnava il suo respiro cheto. Poi c’era quel cielo, dipinto di oro, arancio e rosso, come le nuvole di candido cotone, vestite quasi a festa per essere osservate da quell’unica spettatrice, in piedi, su una rupe, in un posto senza nome, su un prato di un verde vivo, costellato di piccoli fiorellini bianchi e azzurri. Era tutto bello, perfetto e impeccabile. In quella specie di dipinto fatto dagli angeli, la giovane si sentì sollevata. Era la prima volta, da quando la sua vita e quella della sua famiglia erano andate a rotoli, tormentati dai problemi quotidiani sempre così opprimenti. A volte era difficile chiudere occhio, la notte, e lo era ancora di più dimenticare quello che era successo. Ad un certo punto, però, prese consapevolezza di una presenza dietro di lei, senza tuttavia riuscire a voltarsi per scoprirne l’identità. Non se ne preoccupò, non ne era spaventata. Sperò che la figura nascosta al suo sguardo fosse buona, e la sua speranza ben risposta. Mani maschili, fredde, si posarono con delicatezza sulle sue spalle, stringendo lievemente la presa. Lei riuscì a scorgerle: erano pallide, sotto i raggi del sole morente, con lunghe dita da pianista, come a lei piacevano. Le mani la allontanarono dal bordo della rupe, facendola posare contro qualcosa, la cui durezza marmorea era attenuata dalla morbidezza dei vestiti. Sentì un suono lontano, acuto. Peccato che si faceva sempre più vicino e insistente. Proprio come la sveglia del suo cellulare. La sveglia?

    I. L’inizio

    Povero cellulare, chissà quante volte aveva suonato nel vano tentativo di svegliarla. Quando aprì gli occhi, le palpebre pesavano tonnellate; si ritrovò ad osservare il musetto scuro della propria gatta che cercava disperatamente di farle spegnere quel bip spacca timpani, leccandola dalla guancia alla punta del naso.

    Strano che non si fosse svegliata. La stanza splendeva per i raggi del sole che penetravano dalla finestra, senza tende, di fronte al letto.

    Accidenti! Come mai tutta quella luce, alle sei del mattino?

    Un nodo, rapido, andò a stringerle la gola mentre pian pianino connetteva la spina d’alimentazione del cervello. La gatta volò giù dal letto con un biglietto di prima classe, quando Eleanor si alzò di colpo, mettendosi seduta e rischiando di cadere pur di afferrare il cellulare. Si salvò grazie al comodino lì affianco, a cui si aggrappò. Fu così che afferrò il cellulare, spense la sveglia e il suo presentimento venne confermato.

    «Le otto e mezza?», santo cielo, mezz’ora dopo avrebbe dovuto essere al lavoro alla libreria del centro! Si liberò delle coperte avviluppate alle sue gambe come i tentacoli di un polpo. Quando riuscì a riacquistare la libertà, finì con un mezzo ruzzolo fino all’armadio, sotto gli occhi scandalizzati della gatta finita sotto il letto dopo il viaggio aereo fino a terra. Eleanor prese un paio di jeans, una maglia nera e i calzini, per poi alzarsi e uscire dalla stanza strillando «Daniel, Daniel, Daniel, Daniel, Daniel!».

    Una porta del breve corridoio si aprì.

    «Che hai da strillare a quest’ora?».

    Be’, suo fratello poteva di gran lunga risparmiarsi di uscire in mutande dalla camera, questo era certo, e fu solo grazie al loro legame e all’ospitalità offertale, che non gli tirò il paio di calzini contro. Era un uomo di ventisette anni, uno di quei tipi abituati a frequentare tre volte a settimana la palestra. Che adorava ricordare i tempi del college, quando metà delle ragazze dell’istituto lo seguivano come lumache lasciando la scia lungo il loro passaggio. In fondo, non avevano tutti i torti. Alto, zazzera di capelli color del grano maturo, sempre disordinata, o resa appuntita come il dorso di un istrice da qualche goccia di gel extra-forte. La guardava con i suoi occhi verdi, piantati in un viso dai lineamenti decisi e sicuri, attualmente contratti in una smorfia scocciata e irritata.

    «Sono in ritardo, devo andare a lavoro, ricordi?», esclamò lei mentre, saltellando, tentava di infilarsi i calzini. «E sono in ritardissimo!», smise di saltellare una volta terminata l’operazione, osservandolo supplice. «Mi serve un passaggio, ti prego!».

    «Ah-ah», lui incrociò le braccia al petto inarcando il biondo sopracciglio sinistro, e squadrandola da capo a piedi. «E cosa mi dai in cambio, dato che io sacrifico i miei preziosi momenti di riposo per una che va a letto tardi, pur sapendo di avere il sonno pesante?», finse uno sbadiglio e, falsamente noncurante, si grattò la nuca.

    «Io…», mormorò lei non sapendo che rispondergli.

    Lui sospirò profondamente nel vedere l’espressione della sorella e, dopo qualche secondo di sofferta riflessione, le fece cenno con il capo di infilarsi in bagno.

    Con un sorriso raggiante, Eleanor si catapultò nel bagno per lavarsi viso, denti e il resto, maledicendo la propria pigrizia e il proprio sonno pesante, e benedicendo di avere un fratello che, nonostante tutto, non l’aveva ancora presa a testate.

    I capelli mossi, fulvi, intrattabili, non si pettinavano. La pelle troppo chiara non ne voleva sapere di abbandonare il trucco che s’era dimenticata di togliere la sera prima, e gli occhi scuri non ne volevano sapere di stare aperti. A causa della tensione del primo giorno di lavoro, aveva perso nelle ultime settimane ben due chili. Le serviva una cintura. Non sapeva se mettersi i tacchi o meno, per via del suo perenne complesso di altezza/bassezza che la affliggeva fin dall’ultima volta che si era misurata, e aveva scoperto di essere alta un metro e settanta. Decise di non mettere i tacchi, così non avrebbe dovuto sopportare il mal di piedi a fine giornata.

    Galway è una cittadina della provincia del Connacht, nella Repubblica d’Irlanda, situata sulla costa occidentale. Una cittadina in continua crescita per la sua economia solida: le industrie manifatturiere, il turismo, l’educazione e i servizi. Basso tasso di criminalità, bei posti dove trascorrere le ore serali e il tempo libero, gente, bene o male, a modo. Quale luogo migliore per starsene tranquilli, e vivere una vita come tutte le altre? Certo, faceva sempre un po’ freddino, ma chi era nato in quelle terre non poteva non considerarla una magnifica patria. Le temperature si sopportavano, e l’umidità sapeva ben compensare, portando a volte temporali quando il vento secco dell’est, originario del continente europeo, raggiungeva il Connacht.

    C’erano due cose, in particolare, affascinavano Eleonor di quella città, la terza più grande d’Irlanda dopo Dublino e Cork. La prima era la vista del mare nel quale, ad ogni tramonto, il sole si tuffava, facendo risplendere le creste delle onde, e rendendo l’acqua color blu scuro una distesa di diamanti e perle. I ricordi d’infanzia, quando la nonna portava lei e suo fratello a fare lunghe passeggiate sulla spiaggia, alla ricerca di oggetti trasportati dalla Corrente del Golfo, erano ancora presenti nella mente e nel cuore; ancora più intensi da quando, qualche anno prima, la nonna aveva lasciato il mondo, senza soffrire, nel sonno. La seconda, era la cattedrale dedicata a Maria e San Nicola, patrono dei marinai, con la sua cupola verde giada, rivestita di rame ormai ossidatosi, con le due torrette campanarie e il variopinto rosone, tinto dei colori dell’arcobaleno, che svettavano verso il cielo azzurro e le nuvole. C’era stata spesso in passato, e ci andava ancora per accendere una candela il giorno del compleanno della nonnina. Sperava, forse un po’ ingenuamente, di rivedere la simpatica vecchietta dai capelli grigi e dagli occhi buoni sbucare da dietro una colonna della navata principale, per sorriderle come faceva sempre.

    «Ricordati che mi devi un favore».

    La voce del fratello la scosse dai ricordi che avevano rapito la sua mente. «Lo so, lo so. Ormai è il centesimo… non è che potresti farmi uno sconto fedeltà?», si avvicinò un po’ a lui, sporgendosi dal sedile del passeggero. «Sono sempre la tua dolce sorellina, no?».

    Daniel guardò verso l’alto, e si lasciò andare in una risatina.

    «Magari in un’altra vita, Nelly», rispose, il tono docile e tranquillo, osservando la strada davanti a sé, mentre la ragazza reagiva con una linguaccia, che lui non vide, oppure finse di non vedere.

    La macchina si muoveva fra le vie della città, e le persone affollavano i marciapiedi, dirigendosi chissà dove, come tante formichine laboriose. Passarono davanti al pub dell’amico di Daniel. Si chiamava Mark, e aveva anche lui una sorella minore, Amy. Conosciutesi piccolissime, le due avevano cercato in tutti i modi di restare sempre nella stessa classe, e fortunatamente c’erano riuscite, fino a quando Nelly non fu costretta a lasciare la scuola privata per colpa dei gravi problemi finanziari dei genitori.

    E Amy trovò di meglio da fare.

    I genitori di Daniel e Eleanor erano originari di Dublino. Giunti a Galway durante la luna di miele, innamoratisi del posto e della gente che ci viveva, non avevano più fatto ritorno nella città natale. Jack, il padre, era il proprietario di una catena di immobili con locali dati in affitto (con un guadagno non indifferente). La madre Marybell, veterinaria, lavorava nella sua piccola clinica fuori città. Purtroppo, non sempre le cose sono destinate ad andare per il verso giusto, e così fu per il padre, che aveva investito la maggior parte del patrimonio familiare in azioni che sembravano andare a gonfie vele. Alcune ebbero un calo graduale per colpa della crisi economica, altre aziende, invece, dichiararono fallimento, portando a fondo con loro tutte le persone che vi avevano investito. Non è difficile immaginare cosa successe dopo. La vita diventò difficile, la retta per la scuola privata era diventata insostenibile. Eleanor fu quindi costretta a smettere di studiare, e cercarsi un lavoro.

    In principio, mentre i suoi genitori cercavano di mettere insieme i pezzi di quello che era loro rimasto, lei s’era limitata a mettere in ordine la casa, che sembrava il campo di battaglia di Waterloo, lasciando che dentro il cuore crescesse quella rabbia sproporzionata per le ambizioni di risparmio intelligente del padre. Poi si fece una ragione anche di quello, e una delle prime cose che capì fu che non poteva rimanere in quella casa. Si sentiva un peso, un’altra bocca da sfamare mentre la banca assillava di continuo i suoi genitori per pagamenti, tasse, buste verdi e convocazioni in tribunale. Era stato in quel momento che le era tornato in mente Daniel, il fratello maggiore: nato nel Galles, i suoi genitori erano morti quando lui aveva due anni, ed era stato adottato dalla famiglia di Eleanor. Daniel, che era un medico, lavorava allo sportello di assistenza e informazione presso l’ospedale di Galway. Eleanor ci mise poco a contattarlo, e altrettanto poco a raggiungerlo. Portò con sé poche cose, dato che quelle non essenziali le aveva già vedute su e-Bay per racimolare qualche soldo da spartire fra lei e la madre. Gli addii non furono di certo tragici, data la poca distanza fra l’appartamento del fratello con quello dei suoi. Lasciò alla madre la metà del gruzzoletto che aveva racimolato vendendo tutti i gioielli che aveva ricevuto in regalo per anni. Scomparvero i giocattoli, i peluche, ma ciò che andò via con più facilità fu la raccolta di fumetti, comprati e custoditi con dedizione quasi maniacale dal primo giorno in cui aveva imparato a leggere. Infine, una volta stabilitasi definitivamente da suo fratello cercò un lavoro ricorrendo alle conoscenze del padre, trovando un posto nella nuova libreria in centro. Il proprietario era un amico di famiglia da molti anni.

    Qualche mese più tardi, i genitori erano tornati a Dublino, vendendo il costoso appartamento di Galway, per comperarne uno più economico ed essenziale nella capitale, dove speravano di poter ricominciare tutto da capo.

    Svoltato l’angolo, occupato dal pub, l’insegna in Old English Text della Peterson Book and History, chiamata BH da quasi tutta Galway, comparve sopra le porte scorrevoli in vetro antiproiettile.

    La libreria si trovava al pian terreno di un vecchio edificio che era stato, un tempo, completamente residenziale. Lo stravagante e originale proprietario aveva dipinto le mura esterne di rosso scuro, e gli stipiti di porte e finestre di una tonalità più chiara e brillante dello stesso colore. Toglievano un po’ di monotonia al complesso che, altrimenti, sarebbe passato inosservato ai passanti. L’impero di librerie del signor Peterson era innovativo: nei suoi locali era possibile sia consultare o leggere i libri muniti di foderina trasparente, che ordinarne o acquistarne di nuovi.

    Ogni Peterson Book and History aveva la zona relax e quella informatica dove, tramite pagamento orario, era possibile utilizzare internet, alternando studio, lavoro e tempo libero con le bevande acquistabili dalle macchinette.

    Non appena Daniel si accostò al marciapiede, senza parcheggiare, lei aprì subito la portiera e uscì.

    «Grazie del passaggio! Ci si vede sta sera».

    «Ovvio, ma sappi che cucini tu, credo che arriverò in ritardo. Ho dei documenti da riordinare, altrimenti il capo reparto come minimo mi manda all’obitorio ad assistere alle autopsie».

    Un leggero brivido la percorse, nell’immaginarsi Daniel davanti al tavolo d’acciaio.

    «Vai ora, sei due minuti in ritardo», disse lui, picchiettando con l’indice sull’orologio digitale vicino al contachilometri. Poi girò

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