L'uomo artificiale: Odissea nel futuro 4
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Info su questo ebook
Phil Scarlatti è ormai arrivato ai confini più orientali dell'Europa: Kiev, una grande città che può offrirgli grandi opportunità, ma anche covare grandi pericoli. E proprio qui finalmente comincia a scoprire perché il mondo futuro in cui è stato scaraventato è quello che è, e a sospettare quali sono i segreti che nasconde.
Nato a Palermo ma residente a Milano, Piero Schiavo Campo, laureato in astrofisica, insegna teoria e tecnica dei nuovi media all'Università di Milano Bicocca. Nel 2013 è stato pubblicato su Urania il suo romanzo "L'uomo a un grado kelvin", vincitore del premio Urania. Collabora con Robot e ha un blog personale, "The Twittering Machine", dove pubblica racconti e brevi saggi scientifici.
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Anteprima del libro
L'uomo artificiale - Piero Schiavo Campo
9788865306574
1.
Man mano che mi avvicinavo a Kiev il paesaggio intorno a me cambiava. Le radure nella foresta si facevano più ampie, le piante assumevano un aspetto meno rigoglioso. La pianura, a tratti, era solcata dai resti di grandi strade: blocchi di pavimentazione accartocciati su se stessi, tra i cui anfratti si era formato un autentico ecosistema di arbusti e piccoli animali. Ogni tanto mi apparivano ampi spazi liberi dalla vegetazione, che spesso ospitavano grandiose rovine: edifici a forma di piramide, di prisma, archi spezzati dalle cui estremità fuoriuscivano i supporti di metallo dell’antico cemento.
La città mi apparve all’improvviso, sotto forma di grappoli di baracche di legno senza forma né progetto architettonico. Erano accatastate le une sulle altre, nere per il fumo che doveva uscire abbondante dai camini, nei giorni d’inverno. Le vie erano strette, sporche, lastricate di ciottoli. Al di sopra delle baracche, da lontano, vedevo ergersi la grande mole delle mura di pietra che separavano la città dei ricchi dalla sua periferia stracciona. Mentre mi muovevo lentamente attraverso il labirinto delle strade, la gente si voltava a guardare il mio cavallo tigrato: il solo possesso di quell’animale mi trasformava in un signore ai loro occhi.
I vicoli confluivano in una strada larga, che correva diritta verso la porta orientale della città. Il grande battente di metallo brunito era aperto, e accanto ad esso c’erano due uomini armati, in una divisa porpora e amaranto. La strada brulicava di gente. Indossavano abiti che ai miei tempi li avrebbero fatti assumere come comparse in un film ambientato in qualche regno fantastico, anche se per lo più erano sporchi e stracciati. La strada era percorsa da carri pieni di cianfrusaglie. A un certo punto vidi passare una carrozza dipinta in colori pastello, circondata da ologrammi che cambiavano continuamente. I vetri erano oscurati, e non riuscivo a vedere i passeggeri, ma al suo passaggio la gente si scostava.
Immaginavo che il confronto con le guardie non sarebbe stato facile, e prima di presentarmi alla porta preferivo trovare un posto dove rifocillarmi. Mi fermai accanto a quella che sembrava una locanda, a poche decine di metri dalle mura. C’era un’insegna di legno dipinto, con una scritta cirillica e un disegno che non riuscivo a decifrare. Accanto all’ingresso c’era un recinto con delle mangiatoie.
– Andrea, sei in grado di leggere l’insegna?
– Sembra che ci sia scritto Fagioli mantecati.
– Sei sicuro della traduzione?
– A dire il vero, no.
Non mi restava che provare. Parcheggiai il cavallo nel recinto, assicurandomi che fosse legato saldamente a un gancio di metallo che sporgeva dal muro, poi entrai. L’interno era misero e sporco. C’era un tavolo di legno, circondato da quattro trespoli dall’aspetto scomodo, e un mobile che sembrava antico, ma così mal messo che una delle ante pendeva da un cardine. Nella stanza aleggiava un pesante odore di cavoli. Quasi subito comparve un vecchio con la barba bianca e un occhio più grande dell’altro. Disse una frase che Andrea si affrettò a tradurre.
– Se cerchi il mercato, devi andare nella città interna. Spero per te che tu abbia i documenti di viaggio, altrimenti dovrai passare da una stazione di polizia, e non sarà piacevole.
Mentre Andrea traduceva, il vecchio fissò il mio polso, strizzò l’occhio aperto e corrugò le ciglia. Feci finta di niente.
– Puoi darmi qualcosa da mangiare, e un giaciglio dove riposare qualche ora?
– Certo – mi rispose. Continuava a tenere d’occhio Andrea con aria diffidente. – Purché tu sia in grado di pagare.
– Quanto?
– Cento rubli.
– Possiedo solo delle piastre turkmene.
Il vecchio assunse, se possibile, un’aria ancora più scorbutica.
– Ti ho chiesto delle piastre turkmene? Qui non valgono niente. Se hai dei rubli, ti posso dare un piatto di zuppa. Altrimenti puoi pagarmi in natura.
– E come?
– Puoi darmi la tua cavalcatura.
Strizzai a mia volta un occhio, per fargli capire che non valevo meno di lui.
– Un cavallo tigrato per un piatto di zuppa? Sei sempre stato così, oppure è l’età che ti fa sragionare?
– Come vuoi tu. Niente rubli, niente cavallo, niente zuppa. Per dirti la verità, turkmeno, vorrei non avere proprio a che fare con te. E neppure con il tuo orologio parlante.
Non valeva la pena di perdere tempo. Mi girai e uscii dalla locanda. Il cavallo, per fortuna, era ancora dove l’avevo lasciato. Sciolsi le briglie dal gancio e mi avviai verso la porta carraia, muovendomi a piedi. Anche se guardavo fisso davanti a me, mi accorsi che la gente mi osservava e si scostava al mio passaggio. Quando raggiunsi la porta, le due guardie si mossero svelte nella mia direzione, con i fucili spianati. Uno dei due disse qualcosa in tono secco.
– Ti ha chiesto di mostrargli i documenti. Parla ucraino. Dovresti essere contento: è una