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Rifiuti categorici - Tommaso Le Pera
vita.»
Capitolo 1
«Acca-uno-enne-uno!» esclamò Borrelli sdegnato. «Ma si può battezzare un’epidemia con un nome così …anonimo? Sai cosa mi ricorda? Il simbolo chimico dell’ammoniaca, una chiamata a battaglia navale, la targa di un taxi di Tegucigalpa, nell’Honduras. Questi qui hanno messo la fantasia sottochiave, non hanno più un briciolo di immaginazione. E intanto, ogni giorno che passa il linguaggio si imbarbarisce!»
«Ma io non ho preso la Suina.» protestò debolmente Paola. «Ho una normale influenza di stagione, anche se un po’ in ritardo. Tu invece sei un bel tachiss¹»
La ragazza era distesa sul letto, rintanata fin sopra il naso sotto un plaid che lasciava scoperti soltanto gli occhi arrossati. La voce pareva provenire da un’altra stanza, appartenere a un esemplare di una razza non umana con il dono della vocalizzazione. Un pappagallo o un merlo indiano in fase di training, che mescola ancora gracchianti imitazioni delle parole ascoltate in giro con versi striduli che gli muoiono in gola prima ancora di nascere.
«Lo vedi che ho ragione!» proseguì Borrelli imperterrito. «Suina non sarà un termine spento come H1N1, ma in compenso è volgare. Una volta ci si metteva un pizzico di poesia nella scelta dei nomi. La Spagnola, la Cinese erano malattie che magari provocavano stermini planetari, ma almeno si portavano dietro una definizione aggraziata, pur se di sapore vagamente postribolare. Gli uragani, quelli sì, riescono ancora a difendersi con onore: chi s’inventa i loro nomi deve essere della vecchia guardia. ‘È transitata Daisy, o Maggie, nel Golfo del Messico: ventimila senzatetto e ottocentocinquanta vittime nei Caraibi.’ Una lirica!»
I due occhi affioranti assunsero un’espressione perplessa e il merlo indiano sillabò con fatica:
«Ti conosco, ingegner Borrelli. Sei una persona per bene e non porti sfiga. Però ci stai mettendo tutto l’impegno per riuscirci!»
Fece una breve pausa per riprendere fiato, deglutì e poi riprese:
«Piuttosto, se non vogliamo morire di fame, ammesso che riesca a scampare alla peste e agli uragani, sarà meglio che tu faccia un salto al supermercato. Ti ho lasciato una lista delle cose da comprare sul Luigi.»
Il Luigi era una credenza che Borrelli si era procurato quando ancora viveva da solo e di cui andava orgoglioso. Un bel mobile a tre ante, appunto in stile Luigi XV, che aveva piazzato nel soggiorno tre anni prima e gli aveva fatto compagnia discreta, tanto da meritarsi quel nomignolo confidenziale.
«Visto che ci sei,» concluse Paola, «incomincia a portare un po’ di roba invernale in lavanderia. Ormai siamo in primavera ed è ora di fare il cambio di stagione.»
Poi socchiuse gli occhi, quasi fosse sfiancata per lo sforzo di articolare quelle poche parole.
Borrelli si allontanò in punta di piedi per non svegliarla. Riempì un borsone da ginnastica, pigiandovi dentro quattro vestiti e due giacche a vento. Per precauzione, lasciò nell’armadio l’ultimo abito pesante e i cappotti; in fondo era soltanto marzo e il tempo poteva presentare ancora sbalzi d’umore inattesi. Andò a prendere la nota della spesa in soggiorno e le diede una rapida scorsa con diffidenza. Come temeva, era un elenco di roba ordinaria, senza acuti. Non aveva intenzione di seguire alla lettera le indicazioni stilate da Paola e non sarebbe entrato in un supermercato. Li detestava. Avrebbe fatto un salto nella gastronomia per buongustai di Via Lagrange, dove ogni settimana sfornavano una nuova ghiottoneria a sorpresa.
Uscì all’aperto, con l’ingombrante bagaglio a tracolla, e iniziò a camminare per le viuzze del centro. Da quando abitava a Torino, era solito andare in ufficio esclusivamente a piedi, nonostante la distanza non proprio trascurabile. Quel giorno, poi, la malattia di Paola gli aveva suggerito di raddoppiare la sua solita passeggiata per renderle visita durante l’intervallo. Stabilì che avrebbe fatto la spesa nel tardo pomeriggio, al ritorno, mentre per quanto riguardava gli abiti ci sarebbe andato subito, con una piccola deviazione dal suo percorso abituale.
Erano le tredici e trenta e la Tinto-Lavasecco Privitera era ufficialmente chiusa fino alle quindici, ma Borrelli sapeva che Mariano Privitera, il proprietario, dopo aver abbassato le saracinesche si rintanava all’interno del negozio. Mangiava un panino mentre scorreva le notizie del giornale e poi si stendeva sul bancone, riuscendo a sonnecchiare per un’ora alla faccia della posizione precaria e scomoda. Altre volte lo raggiungeva Pinìn, il barbiere della vetrina accanto, e in silenzio si affrontavano in interminabili partite a scacchi.
La lavanderia era situata in Via Bertola, al vertice opposto del Quadrilatero Romano, il nucleo originale della città dove Borrelli aveva deciso di andare a vivere dopo essersi innamorato delle sue atmosfere bohemienne. Immaginando appunto che il Quadrilatero sia una grande scacchiera, Via Bertola e Piazza della Consolata, l’angolo incantevole di Torino su cui affacciava il suo appartamento, sono agli estremi della diagonale: la mossa azzeccata per un alfiere.
Peccato che nel capoluogo piemontese il concetto di diagonale sia del tutto privo di senso. Gli angoli delle strade sono immancabilmente retti, al pari della condotta di vita dei suoi morigerati cittadini. La topografia di Torino è disegnata deliberatamente per altri pezzi degli scacchi: la torre, o tutt’al più il cavallo. Borrelli scelse la seconda soluzione, dando vita ad una lunga serie di scarti al termine di ogni isolato. Sapeva bene che utilizzando quel tipo di tragitto non avrebbe accorciato la lunghezza del percorso: zigzagare per le stradine del quartiere o muoversi lungo i lati perimetrali comporta identica distanza e stesso tempo di attraversamento. Ne era conscio, in fondo era un ingegnere, ma la sua decisione non aveva carattere utilitaristico, quanto estetico.
Gli piaceva la scoperta degli opulenti palazzi barocchi, in armonioso conflitto con la rigorosa geometria urbana, le facciate rivestite di mattoni faccia a vista, le viuzze lastricate di sampietrini. Ma innanzi tutto subiva il fascino rappresentato dai nomi delle strade che percorreva. Via delle Orfane, Via degli Stampatori, Via della Misericordia avevano un sapore d'altri tempi, un gusto che non ti aspetti nel cuore di una moderna città post-industriale.
Quel giorno, tanto per cambiare, sfidò se stesso a percorrere esclusivamente strade con la caratteristica peculiare di essere intitolate a santi e beati. La spuntò facilmente, inanellando una mistica sequenza che abbracciava nell’ordine Chiara, Agostino, Domenico e Francesco d’Assisi.
«Scacco!» esclamò tra sé e sé quando infine raggiunse la sua meta senza mai aver posato il piede in suolo sconsacrato.
La saracinesca della lavanderia era abbassata e per un attimo ebbe il timore di aver fatto un giro a vuoto ma, come previsto, qualcuno la sollevò a metà non appena lui ebbe bussato con delicatezza sulla lamiera.
«L’ingegner Borrelli!» proruppe con slancio Mariano. «Era un bel po’ di tempo che non faceva un salto da queste parti.»
«Nonostante l’assenza non l’ho tradita, Mariano. Sono sempre un cliente fedele. Diciamo che nel corso dell’ultimo periodo mi sono fatto rappresentare.»
«Molto degnamente, devo dire, ma mi fa piacere che ogni tanto si faccia vivo di persona,» puntualizzò l’altro con un sorriso, mentre gli afferrava la borsa dalle mani e gli faceva cenno di seguirlo verso l’interno del locale.
A Borrelli non sfuggì il velato complimento alle grazie di Paola e l’implicita consapevolezza di un legame tra loro due. Si chiese se ciò dipendesse dal fatto che la ragazza fosse solita lasciare il suo nome, quando portava gli abiti a lavare, o se invece Mariano avesse col tempo maturato un occhio clinico in grado di risalire alle generalità dei proprietari dei capi che gli passavano per le mani.
Con un pizzico di sorpresa, si rese conto che Mariano non era solo, nella piccola stanza in penombra. Un gruppetto di persone si accalcava alle spalle di un individuo attempato e di una ragazza che avevano preso posizione ai lati opposti del bancone, impegnati in una partita a scacchi. I due giocatori se ne stavano immobili, con le braccia conserte appoggiate sulle superficie del tavolo e gli altri li osservavano muti, con gli occhi fissi. L’unica lampada accesa, appesa al soffitto, creava un cono di luce quasi tangibile nel buio circostante e infondeva alla scena un’atmosfera di forte tensione pittorica.
«La tua lavanderia è diventata un circolo ricreativo, in questi mesi!» sfuggì a Borrelli.
Nessuno si mosse, a parte un signore anziano dalla lunga chioma candida, che si voltò per lanciargli un severo sguardo di rimprovero. Era Pinìn, il barbiere, che impiegò qualche istante a riconoscere il molesto disturbatore. Quando riuscì a identificare Borrelli, l’atteggiamento rigido si sciolse in un’espressione più amichevole e gli si fece incontro prendendolo sottobraccio.
«Rosalba sta per tendere una trappola ad Edoardo,» gli sussurrò all’orecchio. «Un sacrificio di regina e subito a seguire un matto con l’alfiere. È una strategia raffinata, un vero caso di scuola. Se lui non ha ben presente la partita immortale giocata da Anderssen nel 1851, durante l’Esposizione Internazionale di Londra, non ci mette niente a cascare nel tranello come un pollo ed è bello fritto.»
Evidentemente Edoardo era l’uomo tarchiato e dall’aria arcigna che fronteggiava la ragazzina minuta dall’altra parte della scacchiera. La prossima mossa toccava a lui, perché se ne stava impalato con la mano destra sollevata e l’indice teso, come un maestro d’orchestra colto da improvvisa paralisi nell’atto di dare il via ai suoi musicisti. Rimase in quella posa per un lasso di tempo interminabile, poi afferrò delicatamente la regina nera, che aveva lanciato in una scorreria nel campo avversario apparentemente indifeso, e la fece prudentemente ripiegare all’interno delle proprie linee.
«Se n’è accorto in tempo!» sogghignò Pinìn, sempre a bassa voce.
Questa volta il fascio di luce sembrò concentrarsi sulla sola Rosalba, rischiarandone il volto fanciullesco che teneva stretto tra le mani, appoggiandosi sui gomiti. Anche lei rimase paralizzata in un prolungato fotogramma, che alla fine si risolse ad infrangere con un semplice sollevare dello sguardo in direzione di Edoardo.
«Patta!» sentenziò quest’ultimo, con tono di evidente sollievo.
Il suono della parola sembrò scuotere il capannello di spettatori dalla loro statuaria immobilità. All’unisono, tutti si strinsero ancor di più intorno ai due giocatori, dilungandosi in complimenti e valutazioni sulle mosse più intriganti della partita appena conclusa.
«Come se la passa, Borrelli?» chiese a questo punto Pinìn. «E’ un piacere rivederla. E per rispondere alla sua domanda, questo locale non si è trasformato in un circolo, ma in una discarica abusiva.»
Borrelli sorrise, consapevole che l’uscita sdegnosa di Pinìn non sottintendeva alcun apprezzamento ingiurioso nei confronti della lavanderia e dei suoi frequentatori.
«Cosa intende dire?»
«Voglio dire che il capitalismo approfitta dei momenti di pausa nell’esercizio delle sue funzioni per fare le pulizie di casa. In questa lunga crisi, poi, la spazzatura da buttare nei cassonetti è una montagna. Rifiuti solidi urbani di ogni tipo e misura: una bella raccolta differenziata.»
Pinìn era ancora uno dei pochi conoscenti di Borrelli che non provasse pudore a definirsi comunista. Quando la situazione gli consentiva di dare il via all’esposizione della sua visione del mondo, gli occhi gli brillavano e il tono della voce si abbassava di un’ottava, assumendo cadenze gravi e quasi roche.
«Ancora non capisco,» ribatté Borrelli.
Più che spinto dalla curiosità, il suo rilancio era teso ad alimentare il desiderio del vecchio nel concludere la perorazione appena iniziata.
«Prenda Edoardo, per fare un caso,» proseguì infatti Pinìn. «La sua famiglia ha posseduto una merceria a cinquanta metri da qui