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Leonardo da Vinci. Il Rinascimento dei morti
Leonardo da Vinci. Il Rinascimento dei morti
Leonardo da Vinci. Il Rinascimento dei morti
E-book399 pagine5 ore

Leonardo da Vinci. Il Rinascimento dei morti

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Info su questo ebook

Solo il più grande genio di tutti i tempi può salvare il mondo

Una minaccia infernale su Firenze: i morti tornano in vita

Milano, settembre 1493. Leonardo da Vinci è chiamato a indagare su un cadavere sospetto. Durante l’autopsia, però, accade qualcosa di sconvolgente: la salma si rianima e assale lo studioso e gli assistenti. Scampato all’attacco, Leonardo viene convocato da Ludovico il Moro. Il potente signore di Milano lo mette a parte di notizie agghiaccianti: ciò a cui ha assistito non è che l’ultimo di una serie di casi che stanno terrorizzando l’Europa. Il duca gli affida allora una missione: andare a Roma per informare papa Borgia e coordinare le forze per contrastare ciò che sembra essere una feroce e letale pestilenza. Leonardo intraprende così un viaggio durante il quale dovrà fare i conti con una realtà deformata: i morti sono tornati sulla terra e hanno fame, fame di carne umana. A Firenze subirà gli assalti della follia di Savonarola e stringerà amicizia con Michelangelo, prima di ripartire per la Città Eterna, dove altre difficili prove lo attendono. Per risalire alla inconfessabile verità e porre rimedio all’inferno scatenato.

C’è un modo per salvare Firenze, la città eterna e i capolavori del rinascimento dall’insaziabile fame dei morti viventi?

Il genio di Leonardo è alle prese con una terribile minaccia sovrannaturale: i morti tornano in vita…
Giorgio Albertiniè nato a Milano nel 1968. Collabora con riviste come «National Geographic», «Focus Storia» e «Focus Storia-Wars», occupandosi soprattutto di architettura medievale e antica e storia militare. Con la Newton Compton ha pubblicato L’ultima battaglia dei Templari e I giorni che hanno cambiato la storia d'Italia.Giovanni Gualdoniè nato a Busto Arsizio nel 1974. Attualmente è redattore di Sergio Bonelli Editore, dove ha esordito come sceneggiatore di «Dylan Dog».Giuseppe Staffaè nato a Roma nel 1973. Già consulente storico e archeologico per la trasmissione televisiva di RAI 3 Cose dell’altro Geo, dal 2014 collabora con le riviste «Focus Storia-Wars». e «Focus Storia». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra l’altro, I grandi condottieri del Medioevo, I grandi imperatori, L’incredibile storia del Medioevo e I secoli bui del Medioevo.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2018
ISBN9788822728487
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    Anteprima del libro

    Leonardo da Vinci. Il Rinascimento dei morti - Giuseppe Staffa

    Avvertenza ai lettori

    Pur trovandovi di fronte a un’opera di ricostruzione narrativa, gli autori tengono a sottolineare come sia stata loro cura attenersi il più possibile a fatti realmente accaduti, analizzati e trascritti da fonti sia primarie sia secondarie, in parte anche riportate nel testo. I personaggi nella quasi totalità sono realmente esistiti e hanno partecipato a vario titolo agli eventi narrati. Ovviamente, per rendere completa e (speriamo) avvincente l’esposizione dei fatti, gli autori si sono presi alcune libertà narrative che per nulla però hanno alterato lo svolgersi storico della cosiddetta Grande Morte Grigia ¹. Alcuni fatti minori, collaterali alla Oribile guerra ai Lazzari sono di pura invenzione.

    1. O meglio definita dal Machiavelli come la Grande Ruina Cinérea.

    Prologo

    Nero come il mare di notte, come la fine di una grotta, come una tomba sigillata con il piombo colato. Nero come il fondo di un crogiolo d’alchimista dimenticato sul fuoco, come il cappuccio nuovo di un domenicano, come una gola divaricata nelle tenebre. Nero e denso come un liquido non dovrebbe essere: così era la sostanza che riempiva il bugliolo per tre quarti.

    Il vecchio secchio di legno, grigio e verde di salsedine, giaceva in un angolo della nave; non doveva essere svuotato, non doveva essere visto. Non che il suo utilizzo fosse dei più nobili: nella sua carriera aveva ospitato tutte le varietà di liquami che potevano essere secreti, o cavati, da un essere vivente. L’acqua di mare era la cosa più vicina all’ambrosia che gli era capitato di contenere. Quella almeno era fresca e spumeggiante. Se le quattordici doghe di leccio che componevano le pareti del secchio si fossero potute lamentare di certo l’avrebbero fatto. Un conto era essere scorrazzate a bordo di una nave malconcia per mari infiniti, un altro era accogliere quel fluido ostile.

    Nell’angolo opposto della buia cabina, l’ammiraglio si alzò pesantemente dalla sedia pieghevole, reggendosi alle travature del cassero, e si diresse verso il bugliolo. Tre passi appena, in un movimento unico tolse il coperchio dal secchio e con un rantolo vomitò l’oleoso fango nero.

    Tenendosi l’ampia fronte con una mano allontanò i capelli unti, aggrovigliati come vermi. Tossiva piano scosso dai tremori. Un pezzo di stoffa tamponava la bocca aperta, ansimante. Gli occhi gonfi fissavano il contenuto del bugliolo, esausti, senza mettere a fuoco. Guardavano la profondità di quel nero e si perdevano nei ricordi.

    L’ammiraglio Cristoforo Colombo (un modo assai magniloquente di autodefinirsi per il comandante di una misera flotta di soli tre navigli) si era sentito sopraffatto da troppe cose, frustrato soprattutto dal parziale insuccesso e dai calcoli che, fin dall’inizio di tutta la faccenda, non tornavano. Non era certo partito inconsapevole delle difficoltà, anzi sapeva che le possibilità di non fare ritorno erano altissime, però immaginava degli impedimenti diversi. I suoi studi, la sua preparazione, l’appoggiarsi ai testi di chi prima di lui aveva affrontato viaggi interminabili lo avevano preparato a ogni tipo di incontro ma non in effetti a quelli in cui era incappato. La potenza di Dio, che sovrastava e si esibiva soprattutto in mare, aveva avuto uno strano modo di punire la sete di oro, di potere e di gloria che aveva mosso l’ammiraglio nella sua impresa. L’alito divino lo aveva sospinto là dove forse non era concesso di arrivare, perché allora gli era stato permesso? Aveva forse confuso la voce del maligno con quella dell’Onnipotente? Colombo si era rimesso completamente nelle mani di Dio o almeno così aveva creduto. Se le isole e le terre dove era arrivato stavano a oriente di Cipangu, del Catai, a oriente delle Indie, questo non era riuscito a capirlo. Si mostrava certo dei suoi risultati soprattutto per non affossare il già bassissimo morale dei suoi equipaggi, ma dentro di sé era pieno di dubbi. Ovviamente il presupposto per cui molti si erano imbarcati era la millanteria di Colombo di poter giungere a nuove terre in pochi giorni.

    Pochi giorni.

    Con questo l’ammiraglio dimostrava tutta la sua inaffidabilità. Colombo era un bugiardo; era senza dubbio anche molto coraggioso, ma rimaneva un coraggioso bugiardo. Nonostante tutto aveva superato quel Mare Oceano impossibile e questo gli era sembrato un chiaro segno divino. Si sentiva come un novello Mosè, in grado di passare un interminabile Mar Rosso, scivolandoci sopra con i suoi legni anziché camminando sul fondo.

    Alla fine di oro non ne aveva trovato granché, né ricche stoffe, né preziose droghe. Non aveva trovato ombra dello splendore decantato da Marco Polo, niente dignitari, niente cavalieri, nessuna corte imperiale, nessun imperatore. Niente di niente. Solo piccole isole pianeggianti, ricche di vegetazione e povere di ogni altro bene. Aveva trovato degli indigeni, ma erano messi così male da vivere in completa nudità, come adepti di una setta adamitica, senza vergogna, mostrando i loro genitali in tutta libertà. Erano però ben fatti, per nulla mostruosi come ci si poteva aspettare da abitanti degli antipodi ed erano quindi da considerarsi in tutto e per tutto umani, adatti per la conversione al vero Dio, pronti a ricevere una vera dottrina e una vera civiltà. Colombo aveva intravisto una speranza anche se non era durata a lungo. Dal 12 ottobre dell’anno precedente aveva gironzolato tra quelle isole selvagge senza concludere nulla. Aveva veleggiato per cinque settimane lungo coste spoglie dalle sabbie finissime e bianche, dal clima straordinariamente mite, dalle acque chiarissime che permettevano di vedere i fondali fino a molti metri sotto la superficie, solcati dai raggi del sole a creare iridescenze spettacolari. La natura, se ne era accorto, era senza dubbio benigna in quei luoghi: le acque dolci, invitanti, si potevano bere senza pericolo alcuno e così facevano i suoi uomini, pascendosi di quella salubrità opposta alla limacciosità putrescente di quelle africane. Tutto però sembrava cristallizzato in un’inquietante serenità, senza squilibri, senza eccentricità, senza le meraviglie dell’Asia o dell’Africa. A parte qualche uccello dal piumaggio sorprendente, Colombo non aveva trovato neanche animali misteriosi o grandiosi; niente colli lunghi, niente zanne potenti, niente corazze impenetrabili, soprattutto niente mostri. Cosa avrebbe potuto raccontare ai suoi finanziatori, ai suoi sovrani? Che magra figura rispetto al Polo o al signor di Mandeville che avevano saputo trovare ciò che ogni viaggiatore cerca. In queste isole indiane non c’erano chimere dal triplice corpo, né ippocentauri dalla testa irsuta d’uomo incapaci di organizzar parole, né ciclopi alti più degli alberi e con un solo occhio, né odiosi pigmei guerreggianti con le gru, né Scilla dal capo e dal petto di vergine ma dall’utero di lupa e dalla coda di delfino, né epifugi senza testa e con gli occhi sugli omeri, né licantropi… o forse no. Ecco, l’unica cosa che aveva trovato erano forse dei licantropi, o qualcosa del genere. Qualcosa che qualche sapiente dottore di Salamanca avrebbe definito «de his qui manducant homines», di quelli che divorano gli uomini.

    A tutto questo pensava Cristoforo Colombo, scosso da quella febbre sconosciuta che gli riempiva la gola di vomito nero, mentre ciò che rimaneva della sua flotta stava per toccare di nuovo le coste europee.

    Fuori intanto la pioggia aveva ripreso a battere fissa. La pesante cortina di tela cerata che chiudeva parzialmente l’alloggio dell’ammiraglio era continuamente scossa, lasciando passare le correnti atlantiche cariche di acqua. Colombo, malato, addossato con il gomito alla murata, nell’angolo del famoso bugliolo, poteva vedere a sprazzi i suoi marinai ammucchiati nella prima parte del cassero. Cercavano riparo. L’incubo di quel viaggio sembrava non avere mai fine.

    Durante la traversata di ritorno, le furie dei venti si erano scatenate più volte. Questa era solo l’ultima di una lunga serie di uragani che avevano allontanato la Pinta ancora una volta dal loro cammino e spinto la Niña fuori rotta, di fronte alla foce del Tago, proprio in faccia a Lisbona. Correnti gelate da nord-est si erano scontrate con l’aria calda che veniva da sud-ovest. Le tempeste avevano investito le due caravelle, ricordando a tutti come potevano essere gli inverni in Europa. «L’oceano che si era sollevato in modo tremendo, senza che si potesse andare avanti né uscire di mezzo alle onde che tormentavano le caravelle e si rompevano su di esse» ¹ induceva tutto l’equipaggio a «molta pena e pericolo» ². Le velature erano ridotte al minimo. La nave assecondava per quanto poteva il mare e, per quanto terribile, questo era il male minore che li affliggeva.

    Un’onda, più violenta delle altre, sbatté sulla fiancata della nave. L’ammiraglio piroettò alcuni istanti prima di riacquistare l’equilibrio.

    Zoppicando a fatica si erse sul cassero. La Niña si trovava ancora nel cuore della tempesta. L’acqua cadeva a torrenti e le folgori guizzavano da ogni lato.

    Al fianco dei pochi ancora in salute, l’ammiraglio guardò la sponda nord del Tago dove i pescatori di Cascais stavano increduli a rimirare la caravella che stava scampando a una così terribile tormenta.

    I portoghesi pregavano per la salvezza di quella piccola nave, inconsapevoli di ciò che stava giungendo in Europa. Come ignari profeti erano mossi da un pio sentimento di implorazione. Non lo sapevano ma stavano pregando per loro stessi; avanguardia di milioni di voci che li avrebbero seguiti da lì a poco.

    1. Cristoforo Colombo, Diario del primo viaggio, in Gli scritti, a cura di C. Varela e P. Collo, Einaudi, Torino 1992.

    2. Ibid.

    Capitolo 1

    Milano, 17 settembre 1493

    Guardando a sinistra il ragazzo fu sopraffatto dalla mole del Duomo. La forza di quella costruzione rossa di mattoni e bianca di marmo lo costrinse a segnarsi velocemente. Poi, ripensandoci, lo fece una seconda volta più lentamente, mimando un inchino.

    Non gli capitava spesso di dover venire verso la cattedrale. Conosceva la zona come conosceva tutta la città, ma di solito gli affari lo tenevano legato alle strade del suo borgo.

    Proseguendo, affrettò il passo tra i carri fermi per la notte, attento a non lordarsi troppo tra l’abbondante sterco di cavallo.

    Superata la piccola piazza si trovò di fronte alla Corte Vecchia e guardando i fuochi dei carrettieri sputò a terra per allontanare un po’ il disagio. Un uomo anziano, un servo probabilmente, stava sonnecchiando appoggiato al portone chiuso del palazzo. Si copriva con un mantello logoro, anche se quella serata di settembre ricordava ancora i tepori dell’estate.

    «Gò da parlare con il maestro», disse il ragazzo a mezza voce.

    Il portiere non si mosse.

    «Uhei di casa! Gò da parlare con il maestro», proruppe allora alzando la voce.

    Una sberla a mano larga tra orecchio e collo fu la risposta che ottenne e lo fece retrocedere di due passi.

    «Ti vieni da parte di chi? È notte, chi ti vuoi? Le porte sono chiuse, torna domani». Il portiere fece per allungare un altro ceffone, ma il ragazzo questa volta saltò all’indietro sulla ghiaia prima di essere raggiunto dalla mano del vecchio.

    Il ragazzo capì e cambiò tono.

    «Lo so, la mi scusi, ho l’urgenza di parlare con sua eccellenza il maestro ingegnere. Vengo da parte di ser Pietro Grippa, dell’ospedale di Santa Maria della Presentazione».

    Il vecchio guardò verso il Duomo e, spingendo con la schiena una gattaia, fece cenno al ragazzo di entrare nel cortile.

    «Bussa alla cocchiera a sinistra».

    Il cortile del vecchio palazzo dei signori di Milano non era più la reggia che era stata un paio di generazioni prima, sotto i Visconti, ma conservava ancora l’aspetto di una corte. Il ragazzo, intimidito nonostante la sua esibita spavalderia, si avvicinò ingobbito alla grande porta cocchiera sfiorando appena il selciato. Bussò piano, poi forte, con i movimenti impacciati di chi è fuori posto. Un giovane basso dall’aria allegra gli aprì, chiese cosa volesse e facendolo entrare gli disse di aspettare.

    Il grande atrio era buio. Solo dalle arcate sul fondo giungeva la luce gialla delle candele. Tra il colonnato si intravedevano gli strumenti della bottega: grandi cavalletti accatastati; tavolacci di tutte le misure, da piccole assicelle a pannelli così grandi da apparire pareti; casse e cassoni di legno così lisci in superficie da sembrare tavoli da lavoro; e poi scale a pioli, legna, fascine, drappi di stoffa, barili, cordami e pulegge. Un odore di olio e calce riempiva le narici, mischiato all’aroma di terra smossa come se si fosse in una cava. Con gli occhi sgranati, il ragazzo guardò verso la luce e sentì le corde dei liuti che vibravano ritmicamente tanto da perforare l’oscurità e rendere cristallina quell’aria che in un primo momento gli era sembrata rafferma. Ad accompagnare la musica un coro di voci virili che il ragazzo giudicò belle.

    In quelle stanze illuminate non dovevano essere in pochi, pensò ancora, con una punta di invidia.

    La baldoria andò avanti per un po’, prima che qualcuno giungesse a domandare al ragazzo chi stesse cercando.

    Uscendo dal vecchio palazzo si sentivano attutiti i rumori di un’osteria poco lontana. La notte scintillava alta mentre i fuochi dei carrettieri si erano abbassati un poco. Nell’oscurità sciropposa, la piccola compagnia si avviò sulla sinistra verso la contrada dei Berretai.

    Un sorriso gentile disse: «Avanti staffiere, racconta a ser Donnino che avevi da riportare con tanta fretta».

    Il ragazzo, meravigliato e edificato dal titolo altisonante attribuitogli, si tolse il cappello stopposo e disse rivolto agli uomini che stava accompagnando: «Il ser Pietro mi ha detto di riferire alla vostra eccellenza messer ingegnere di correre subito voi da lui che deve da mostrarvi un affare d’interesse… così ha detto, un affare di grande interesse… ha anche aggiunto che lo accompagnassi io a voi da lui».

    «Hai inteso? Un affare di grande interesse… non male per finire la serata».

    «Certo che sì, davvero splendido! Passiamo da aver riempito piacevolmente ventre e animo di cose deliziose a estrarre putridume da viscere e cranio di qualche disgraziato», rispose Donato Bramante con un sorriso malizioso, «mi spiegherai cortesemente ancora una volta come fai ad armeggiare con tutta pace tra le carni morte dei nostri simili e poi privarti nella vita del piacere di un buon arrosto».

    Leonardo da Vinci, precedendo il collega, gli si rivolse arcuando terribilmente le sopracciglia guardandolo da sopra la spalla: «Ma l’una cosa serve a sollazzare la ventraia a scapito della sofferenza di un essere vivente, mentre l’altra è necessaria per scrutare i principî della natura». Il tono era quello esagerato di un dottorone bolognese. Scoppiò a ridere.

    «Ciò che m’inquieta veramente», ribatté Bramante, «è vederti scrutare con tanta attenzione i dettagli del corpo umano, soprattutto di certi suoi impianti idraulici».

    Risero tutti. Solo il ragazzo, ancora con il berretto in mano, non capì di cosa stessero discutendo quei signori, ma poco importava. Si unì anche lui alle risa, forse un poco in ritardo ma felice dell’allegria di quella passeggiata notturna.

    L’esigua brigata che camminava di buon passo lungo le facciate ordinate di rosati mattoni cotti era composta da cinque persone. Il ragazzo latore del messaggio avrebbe dovuto fare strada ma stentava a stare al passo di chi precedeva il gruppo. Leonardo di ser Piero da Vinci, musico, pittore, ingegnere, filosofo, architetto, scienziato e molto altro cavalcava le strade di Milano come se ci fosse nato e indicava la via agli uomini che lo seguivano. Con lui si accompagnavano in quella sera di settembre del 1493 il già citato Maestro Donnino di Angelo di Pascuccio detto il Bramante, architetto e pittore urbinate al soldo anch’esso del duca di Milano e due allievi della bottega del maestro fiorentino: il giovane Galeazzo, al quale era stata affidata una bella lucerna di fabbricazione tedesca, e mastro Tommaso Masini, meglio noto come Zoroastro da Peretola, che non mancava mai di presenziare queste occasioni. Zoroastro portava con sé una bisaccia in pelle rigida, che appariva voluminosa e pesante a uno sguardo attento.

    Poco dopo San Giovanni in Conca passarono il ponte sul Nirone, sbreccato e verde di muschio, e proseguirono lungo corso San Celso. Non avevano incontrato quasi nessuno lungo la strada. La notte era alta e la città dormiva.

    Non tutte le strade erano altrettanto tranquille, ma una serata così limpida non invitava certo i malviventi a organizzare imboscate ai crocicchi.

    La lanterna illuminava dondolando il corso di terra battuta e la casacca color panna di Leonardo risplendeva quasi fosse d’argento. Qualche falò illuminava i cortili che si affacciavano sulla strada e le voci sommesse della compagnia si perdevano nel tamburellare dei passi.

    L’osteria dei Tre Mori era quasi addossata alla posterula di Sant’Eufemia, poco dopo l’Ospedale di Santa Maria della Presentazione. Due grandi gelsi incorniciavano l’entrata. Forse una volta ce n’era stato un terzo, quello che dava il nome al locale, ma ora non se ne vedeva traccia.

    Il ragazzo si affrettò ad anticipare Leonardo e, sempre con il berretto in mano, fece cenno di seguirlo sul retro. Entrarono in un cortile dove, tra barili fradici e cataste di canestri intrecciati, videro la sagoma di un uomo.

    Si trattava di un individuo basso e tarchiato, con la pelle color cuoio, vestito di una cappa rossa che lo identificava immediatamente come medico ma che certo non lo aggraziava nelle forme.

    Una voce tenorile disse indispettita: «È morto… siete arrivato tardi, ser Leonardo, è morto. Non è sicuramente colpa vostra, ma ero stato chiaro che la missiva doveva arrivarvi il prima possibile. Era un’occasione da non perdere, un’occasione rara, vi sarebbe certo interessato. Un povero disgraziato con una terribile ferita da morso. Da noi è raro, dannazione!», e rivolto al ragazzo, scuotendo un ricco bastone da passeggio nell’aria, esclamò: «Accidenti a te! Ti sarai fermato per la strada a perdere tempo. Cretino! Con te facciamo i conti dopo».

    Il ragazzo fece per aprire bocca quando Leonardo intervenne.

    «Lasciatelo, ser Pietro! Il giovane ha fatto il suo dovere. È colpa mia se mai… Ero in compagnia di amici e si festeggiava un evento. Ho impiegato più del dovuto per mettermi in marcia. Vi chiedo perdono… dovevo affrettarmi!».

    «Non vi scusate. È che era un’occasione… ora ci rimane solo la notomia. Era interessante, un caso unico. Mai visto un trapasso tale. È stato un peccato perderlo, un peccato davvero».

    Leonardo lo prese sotto braccio e disse: «Raccontate dunque, vi ascolto».

    Ser Donnino seguiva esterrefatto quel passaggio di battute. I due gentiluomini si crucciavano non per lo sfortunato defunto ma per l’impossibilità di non aver assistito al momento della morte. Era stupefatto e un po’ infastidito: non era quello il modo di accostarsi a quei misteri.

    Come se Leonardo avesse letto nei suoi pensieri, si girò verso Bramante e con il palmo della mano gli fece un gesto ampio, come a dire: Così deve essere.

    «Chi non conosce la morte non stima la vita e chi non stima la vita non la merita».

    Scesero nella cantina facendo attenzione a dove mettessero i piedi. Damigiane, vasi di terracotta, assi di legno ingombravano le pareti senza un ordine preciso. Un odore di fresco e di funghi dopo un acquazzone regnava in quella foresta di cose. Ai piedi dell’affollata scalinata, uno stretto corridoio a volta permetteva l’accesso a diverse stanze. Pietro Grippa faceva strada tenendosi il mantello arrotolato sul braccio destro. Gettando l’occhio nelle cavità delle altre stanze non si vedeva nulla se non un buio impenetrabile rivestito da un paio di gradi in meno e dall’impressione che l’aria fosse tutt’uno col silenzio di quelle gole nere. Il legno stagionato e il dolce dei vini arrivavano alle narici qualche secondo dopo per abitarle in modo più stabile rispetto alla prima impressione olfattiva. Era il Bramante ad accorgersi di tutto questo; gli altri sembravano correre risoluti verso l’unica fonte d’illuminazione che proveniva dalla terza porta a sinistra.

    Giunti sulla soglia si fermarono e si levarono i cappelli. L’atmosfera serena di poco prima aveva lasciato il posto a una leggera tensione ed eccitazione.

    Scesero ancora due gradini finché una grande sala, sempre voltata a botte, li accolse con una buona illuminazione che scaldava le pareti di mattoni velate da una patina di muffa. Tra quattro colonne di pietra grigia, un tavolaccio aspettava con il suo ospite disteso inerte. Discosti dal centro di quella scena, come due guardie d’onore stavano due uomini severi che tutti riconobbero come i fratelli Carvico, titolari dell’osteria.

    Leonardo salutò mentre si avvicinava al cadavere: «In fede mia, signori, che Dio per sempre vi protegga quanti voi siete e tanto piacere vi venga come voi desiderate». I padroni di casa ricambiarono, imbarazzati dall’attenzione che conferiva loro un uomo di tale rango, famoso ingegnere, organizzatore di feste per il duca e musico ancor più ammirevole.

    L’uomo morto aspettava invece silenzioso, intatto nel suo aspetto e sereno; almeno fino a quando lo sguardo non giungeva all’altezza del collo che dal lato destro era nero e tumefatto, lacerato nella carne fino a mostrarne i tessuti muscolari ulcerati e lividi, come una bistecca di manzo laccata di smalto.

    Leonardo rimase deluso. Si era aspettato qualcosa di più eclatante quando Grippa gli aveva detto di un’eccezionale ferita. In questa non vedeva nulla di straordinario. Anzi, la lacerazione era piuttosto piccola, circoscritta. Profonda, evidentemente letale (se poi la ragione della morte fosse stata quella era ancora tutto da vedere), ma niente di stupefacente. Così a prima vista sembrava provocata più da un cane che da un lupo. Forse una volpe.

    L’artista fiorentino appoggiò tre dita sulla ferita così da allargarne i margini. Il morso non era recentissimo, i tessuti erano legati e rigidi. Si girò verso il medico milanese e corrugò l’ampia fronte.

    «Lasciate che vi spieghi. Vista così può sembrare cosa da poco, ma sta proprio qui il suo interesse a mio avviso». Il medico si fece più vicino al cadavere al quale forzò una rotazione della testa per meglio mostrare la ferita. «Vedete com’è piccola? Una cosa da nulla. Eppure vi assicuro che lo stato di quest’uomo era penosissimo. Prima del decesso si contorceva, sbavava come fosse rabbioso e soprattutto pativa. Pativa come se gli inferi gli si stessero aprendo sotto i piedi».

    Leonardo guardava e non parlava.

    «Se volete cominciamo la notomia», disse il medico.

    Zoroastro appoggiò la borsa ai piedi del cadavere e ne estrasse un coltello sottilissimo dalla lama leggermente ricurva e allungata. Guardò il suo maestro e il medico aspettando un gesto. Ser Pietro indicò Leonardo inchinando leggermente il capo. Il Bramante trattenne a fatica una risata.

    La mano sinistra di Leonardo impugnò il bistorio e praticò una grande incisione semicircolare sul torace, partendo dalle clavicole e finendo sotto lo sterno.

    Pietro Grippa guardò i fratelli Carvico e il garzone: «È il momento di uscire… le quaestiones medicae non sono cose per voi». Ci fu un attimo di esitazione sciolta da un cenno di Leonardo a mastro Zoroastro che dalla borsa tirò fuori un portamonete che depose gentilmente nella mano callosa di uno degli osti. Questi, inchinandosi leggermente, raggiunse la porta bofonchiando un grazie pieno di S imitato dal fratello.

    Il ragazzo, gonfio di aspettative per quella missione notturna, rimase deluso di non poter assistere alle arti misteriose che si stavano per verificare. Allontanato a gomitate dai Carvico si piazzò all’inizio delle scale, seduto tra le damigiane con l’orecchio teso al vuoto come vuote erano le grosse bottiglie.

    Nella sala Leonardo aveva allungato la sua incisione con un taglio dritto dallo sterno all’inguine. Ser Pietro e Zoroastro allargarono i lembi della carne lacerata mettendo in mostra le anatomie e gli organi. Galeazzo si era avvicinato al tavolo e teneva la lanterna bene sopra al cadavere; anche Bramante ora si era accostato.

    «Alterum naturae captus», disse il medico sfoggiando quel po’ di latino che sapeva.

    Leonardo affondò le mani negli intestini e ne valutò l’aspetto. Erano stranamente grigi e rigidi; opachi e non luccicanti come anguille, come gli era capitato di vedere più volte. Emanavano anche un odore dolciastro, lontano dal miasma fecale che si aspettava. Con l’aiuto di Zoroastro li srotolò per tutta la loro lunghezza e li depose in un catino ai piedi del tavolo.

    Bramante aveva cominciato a disegnare quello che vedeva: gli intestini, la vescica, gli organi genitali. Leonardo buttava un occhio a quegli appunti ma rimaneva silenzioso.

    Fu ser Pietro a rompere la quiete: «Non è normale, gli apparecchi sono come calcificati».

    «Come bloccati, quasi cinti dal gelo», disse Leonardo, «come fosse morto da ore. Se non fossi sicuro di voi direi che mi avete venduto un cadavere vecchio».

    «Vi assicuro che respirava fino a mezz’ora fa, parola mia. Ve l’ho detto che aveva qualcosa di speciale».

    Guardandosi in faccia, il fiorentino e il medico milanese cominciarono a lavorare sulla cassa toracica. La segarono a fatica sulle costole, producendo bagliori ramati a ogni colpo di muscolo.

    Leonardo divaricò la scatola ossea con tenacia, come se dovesse liberare un animale intrappolato in una gabbia. Recisero i polmoni, neri, ancora carichi di sangue che cominciava a coagularsi. Presero il cuore, ancora più nero, e ne tagliarono le arterie. Sollevandolo lo posero sotto la luce.

    Bramante disegnava, Leonardo manipolava, Zoroastro riordinava, Pietro osservava e Galeazzo illuminava. Come in un tableau vivant la luce calda della lanterna arrossava i volti e inspessiva le ombre e per chissà quale magia sembrava che le candele alle pareti perdessero di vigore a favore del lume centrale. Tutta la forza si concentrava al centro della stanza. Tutto era rosso come doveva essere stato il cuore del cadavere quando ancora pulsava regolare.

    Dalla gola del morto arrivò un rantolo.

    Non usciva verso l’alto, com’era naturale quando un uomo (vivo) parlava, ma sfiatava dalle fibre appena lacerate della trachea quasi come un basso strumento musicale.

    I gesti dei presenti si cristallizzarono.

    Il rantolo si intensificò.

    Uno scatto fece sobbalzare le spalle del morto. Una scossa contrasse le gambe. Gli occhi si spalancarono vuoti e la bocca si aprì come quella di un naufrago che torna in superficie dopo una lunga apnea.

    Il rantolo si trasformò in ringhio che sgorgava da una canna d’organo a doppia uscita.

    I cinque presenti si allontanarono dal tavolo, gli occhi sgranati, la bocca altrettanto aperta.

    Il cadavere si stava alzando, scomposto e smembrato, allargando le braccia come a voler afferrare, come a voler riprendersi quel cuore che gli era stato strappato e che ancora stava nelle mani di Leonardo da Vinci.

    Buttandosi giù dal tavolo il morto incespicò negli otto metri delle sue budella e franò sui propri polmoni esplodendo in litri di sangue. La borsa degli strumenti cadde e Galeazzo perse, o meglio si lasciò scappare, la lampada.

    Leonardo strinse il miocardio reciso che pulsò sangue gelatinoso prima di scivolare sul pavimento.

    Il rumore richiamò l’attenzione del ragazzo che aspettava sulle scale. Si precipitò nella sala.

    Tutti erano schiacciati contro i muri mentre con rabbia il cadavere tentava di alzarsi pattinando sulle parti di se stesso che gli erano state asportate.

    Quando il ragazzo si affacciò nella stanza, il tremore delle candele alle pareti creava uno strano effetto da fenachistoscopio. La luce sembrava intermittente e ingannando l’occhio dava l’impressione che tutto si muovesse al rallentatore.

    Il corpo nudo al centro della scena si divincolava tra le spire del serpente grigiastro che usciva dal suo ventre. Era rallentato, ma questo non gli impedì di afferrare in uno scomposto balzo il braccio destro del garzone e di affondare le fauci contratte nei tessuti del suo collo strappandogli di netto, con un unico colpo di mandibola, il fascio bipennato dello sternocleidomastoideo.

    Annichiliti da quella danza macabra, gli uomini presenti nella stanza erano incapaci di muoversi.

    Il morto, tenendo inchiodato il povero ragazzo, già pregustava di aprirsi la strada verso gli anelli cartilaginei della trachea con un secondo boccone, come se cercasse di respirare un po’ di quella vita che stava levando. Un banchetto che sarebbe potuto durare all’infinito se non fossero giunti i due padroni dell’osteria a scongelare il ributtante spettacolo di quel ballo di sangue.

    Le mani di Leonardo accompagnarono (la forza non gli mancava) un grosso martello di legno, di quelli usati dai bottai, che fracassò il cranio del morto vivente lasciando cadere, ora sì, la vera immobilità sulla cantina dell’osteria dei Tre Mori, vicino alla posterula di Sant’Eufemia, poco dopo l’Ospedale di Santa Maria della Presentazione, a Milano.

    Capitolo 2

    Copia dell’ordinanza di S. Ecc. il magistrato di Sanità dott. Sebastião de Cerveira redatta ed esposta in Lisbona il 7 aprile 1493.

    Avendo molte volte l’esperienza dimostrato che le contagioni e i mali sono per lo più stati cagionati perché gli uomini nelle case loro o nelle città, nelle terre e castelli nei quali abitano sono sporchi e con quantità tali d’immondizie

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