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Le Orde dell'Oscurità: La Lama nera 2
Le Orde dell'Oscurità: La Lama nera 2
Le Orde dell'Oscurità: La Lama nera 2
E-book889 pagine13 ore

Le Orde dell'Oscurità: La Lama nera 2

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ROMANZO (730 pagine) - FANTASY - Ho visto l'Inferno, l'ho attraversato a piedi e sono sopravvissuto. Il destino mi ha messo tra le mani la lama che tolse la vita all'unica persona che abbia mai potuto veramente chiamare amico. Mi chiamo Garreth e ho una missione di vendetta.

L'invasione è iniziata, ormai. Le Orde del Signore Oscuro stanno dilagando nel Regno del Nord, portando ovunque morte e distruzione. Così, mentre Garreth si dirige verso la Penisola di Cora con il compito di uccidere lo stesso Signore delle Ombre, a Loth ci si prepara a sostenere l'assalto della prima ondata di demoni sulla capitale. Continua in crescendo la saga di Dubhlann, la Lama Nera, e dell'epica guerra degli Umani e degli Elfi contro le Orde dell'Oscurità; una guerra capace di trasformare uomini, donne e persino i bambini in tanti eroi, pronti a sacrificare le loro vite pur di impedire che il Caos si impossessi dei Quattro Regni. Un romanzo appassionante, dove niente è quello che sembra e dove ogni pedina, anche quella in apparenza più insignificante, può rivelarsi risolutiva per l'esito della storia. Copertina di Michela Cacciatore.

Nato a Brescia nel 1960, fisico e informatico, Dario de Judicibus ha scritto articoli per le riviste "MC Microcomputer", "Internet News", "e-Business News", "Internet.Pro" e vari articoli sia in italiano che in inglese su riviste e quotidiani, sia nazionali che internazionali. Ha fondato la rivista digitale "L'Indipendente" e partecipato alla produzione di tre musical dal vivo in Second Life. Ha fondato con altri due soci la Roma Film srl acquisendo le attività di una delle migliori scuole di cinema e televisione in Europa, la NUCT, che è diventata la Roma Film Academy. Attualmente è impegnato, in qualità di Presidente del Consiglio di Amministrazione di Roma Film, a far crescere la Scuola per portarla ai massimi livelli in ambito nazionale e internazionale. Ha pubblicato due romanzi, tre saggi, due manuali e cinque racconti in antologie varie con editori diversi. È l'unico autore italiano mai pubblicato dal Gruppo Editoriale Armenia. Nel 2014 ha iniziato la sua collaborazione con l'associazione culturale e casa editrice I Doni delle Muse, e nel 2016 quella con la Delos Digital che ha portato prima alla ripubblicazione di "La Lama Nera" e ora del suo seguito.
LinguaItaliano
Data di uscita21 giu 2016
ISBN9788865307465
Le Orde dell'Oscurità: La Lama nera 2

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    Anteprima del libro

    Le Orde dell'Oscurità - Dario De Judicibus

    9788865306987

    A Giuseppe Briotti, un buon amico

    Prefazione dell'autore

    A volte capita che un autore, di fronte al successo del suo primo romanzo, si senta quasi in obbligo di scriverne il seguito, pubblicando un secondo e spesso anche un terzo volume. Molte trilogie sono nate, in effetti, in questo modo. Non sempre, tuttavia, i romanzi successivi risultano essere all’altezza del primo, tradendo così di fatto le aspettative dei lettori. La verità è che avere successo non è facile e non sempre dipende dalla qualità di un romanzo, ma spesso da tanti imponderabili fattori dei quali la pura fortuna non è fra quelli meno rilevanti. Così, quando succede, quando uno scrittore pensa di aver trovato un buon filone letterario, cerca di sfruttarlo il più possibile. D’altra parte, se i lettori si sono innamorati di un personaggio, desiderano spesso ritrovarlo in un’altra avventura o, meglio ancora, nel seguito di un’avventura precedente. Uccidere un personaggio è difficile, un ciclo ancora di più. Ci vuole coraggio per farlo, sia da un punto di vista personale che commerciale. Un esempio lo abbiamo con la serie dedicata ad Harry Potter, nella quale la Rowling dimostra sicuramente un grande coraggio ad aver deciso di chiudere il ciclo con il settimo volume. È una decisione difficile, per uno scrittore.

    Qualcosa di simile avviene anche nelle serie televisive. Un classico è Star Trek, dove immancabilmente, quando a scendere su un certo pianeta è un gruppetto di quattro persone formato dal comandante, l’ufficiale scientifico, quello medico e un membro dell’equipaggio del quale nessuno aveva mai sentito parlare prima, si sa già fin dall’inizio chi sarà dei quattro a fare una brutta fine. A meno che, naturalmente, esigenze personali dell’attore o della produzione non comportino la scomparsa di un certo personaggio dalla serie perché ad andarsene è l’attore che lo impersona. Pensiamo ad esempio alla morte di Daniel Jackson nella quinta stagione della serie Stargate SG-1. Dopo una stagione nella quale il suo personaggio è stato sostituito da Jonas Quinn, la produzione ha dovuto in qualche modo resuscitarlo per reintegrarlo, a furor di popolo, nella settima stagione.

    Ci sono tuttavia serie e trilogie che hanno avuto molto successo e nelle quali gli episodi successivi si sono rivelati all’altezza di quelli iniziali, se non addirittura migliori. Il Signore degli Anelli ne è sicuramente un esempio, ma lo è anche la saga di Harry Potter, appunto, e molti altri cicli di fantasy e fantascienza, per adulti e per ragazzi, tutti caratterizzati da un aspetto fondamentale: l’autore li ha infatti pensati fin dall’inizio come una singola unità, come qualcosa che avesse un capo e una coda a sé stanti, indipendentemente dallo svilupparsi degli eventi negli episodi intermedi. Naturalmente non è sempre possibile avere ben chiara la trama di tutti gli episodi fin dall’inizio, anche perché molti nascono in modo imprevisto, da intuizioni contingenti, che neanche l’autore poteva prevedere. Tuttavia, costruire un’ambientazione coerente, ben definita fin da subito e avere già in mente come si svilupperà la storia nel suo complesso, è un elemento importante per dare continuità a un ciclo, non solo in termini di contenuto ma soprattutto di qualità.

    Questo è appunto quello che ho cercato di fare. Benché abbia già avuto un riscontro molto positivo alla pubblicazione del primo volume, non so se i miei romanzi avranno successo, e comunque non diventerò certo famoso scrivendo qualche romanzo di fantasy, genere apprezzato ancora solo da pochi nel nostro Paese e, per lo più, ignorato dai media, a meno che non ci rifacciamo alle grandi produzioni straniere. Tuttavia, il mio obiettivo resta quanto meno quello di evitare quella che ho chiamato la sindrome del sequel, ovvero di scrivere un secondo romanzo solo perché il primo è andato bene.

    Il Ciclo della Lama Nera è stato pensato fin dall’inizio come una singola storia, divisa in tre volumi, piuttosto che come una trilogia di tre romanzi distinti. Questo mi ha permesso di fare delle scelte che, seppure commercialmente non vantaggiose, sono a mio avviso importanti sul piano letterario. Un esempio è la morte di uno dei coprotagonisti nel primo volume della serie, ovvero Messala. Ho speso molto per costruire quel personaggio, con il suo carattere scontroso, il suo passato doloroso, la sua insospettata intelligenza e capacità di apprendimento, così come un’inattesa sensibilità che sembrava contrastare con una durezza e una crudezza molto evidenti. Messala è il classico esempio di come ogni essere umano non possa essere classificato in modo assoluto, ma presenti tante sfaccettature, nel bene e nel male, che volta per volta possono essere portate a brillare a seconda della luce che le illumina. Per alcuni lettori la morte di Messala è stata una brutta sorpresa, molto di più di quella dei tanti personaggi secondari che, come il quarto uomo di Star Trek, si dà un po’ per scontato che alla fin fine ci lascino le penne. Eppure era necessaria, perché è quello che succede nella vita reale. Finché a morire sono degli sconosciuti, persone che vivono in Paesi lontani, dei quali non sappiamo neppure pronunciare il nome, la morte ci appare un fatto inevitabile, persino accettabile, della vita; ma quando a morire è una persona che ci è cara, che ci è sempre stata vicina, allora la viviamo come un trauma, persino un’ingiustizia. La realtà è soggettiva, sempre e comunque, per noi come per i personaggi di un libro, e il fastidio, il dispiacere, la rabbia di alcuni lettori per il fatto che Messala sia morta alla fine del primo volume non sono altro che le stesse sensazione ed emozioni che ha provato Aggart alla morte di quella che, solo nel momento della sua scomparsa, ha realmente compreso essere un’amica. Spesso, infatti, ci rendiamo conto di quello che abbiamo perso, solo quando non lo abbiamo più.

    È importante che un libro sappia generare delle emozioni, dei sentimenti, anche negativi. La morte dei genitori di Aggart, all’inizio del primo libro del ciclo, non poteva scatenare queste emozioni nel lettore perché, per chi leggeva, erano, in fondo, dei perfetti sconosciuti. Ma la morte di un personaggio che ci ha accompagnato per tutta una storia, è ben altra cosa. Chi ha letto La Lama Nera sa che si tratta di una storia cruda, che non lascia spazio ai tanti abbellimenti ai quali molti romanzi e serie televisive ci hanno abituati. La vita non è né ingiusta né giusta: semplicemente è. Non puoi mai sapere cosa accadrà perché, nel suo essere, non c’è logica o regola che tenga. E se questo è vero nel primo romanzo, lo è ancor più nel secondo.

    Per quanto i tre romanzi siano infatti solo tre parti di una stessa storia, ho cercato di dare a ognuno di essi una caratteristica ben precisa, un po’ come i diversi movimenti di una sinfonia. La Lama Nera ha una struttura fondamentalmente sequenziale, nella quale la linea temporale si sviluppa sostanzialmente in avanti, a parte sporadici flashback, comunque molto limitati. Essa è, inoltre, tutta focalizzata su Aggart e sulla sua storia, seppure occasionalmente i riflettori si spostino sui due coprotagonisti, Ona Ettài e Messala, lasciati tuttavia volutamente in secondo piano, quasi bidimensionali nella loro caratterizzazione, soprattutto il giovane mago, per un motivo che si comprenderà solo nel terzo volume. Il secondo volume è completamente diverso. Esso rappresenta un crescendo, nella sinfonia complessiva, un momento in cui i timpani e gli ottoni hanno la meglio sugli archi e sui legni. Le Orde dell’Oscurità sono in realtà due storie parallele che divergono da un punto comune, all’inizio del romanzo, per poi ricongiungersi verso la fine, con rarissimi momenti nei quali si incrociano, spesso in modo così sottile che il lettore se ne rende conto solo alla fine. Da una parte c’è Garreth, coinvolto in una missione così al di sopra delle sue possibilità da risultare del tutto assurda, improponibile. Dall’altra il resto del mondo che combatte la sua guerra disperata contro le Orde del Signore delle Ombre, un’epopea nella quale si intrecciano volutamente decine di fili e di personaggi, in un susseguirsi di scene e tragedie personali che sembrano, in apparenza, non aver alcun legame le une con le altre. Divergenti sono anche le due linee temporali, che si muovono a velocità diverse, tanto che dove una sola battaglia di poche ore può tenere impegnato il lettore per due capitoli, in meno di metà di un altro capitolo, per Garreth possono passare diversi giorni se non addirittura un mese. Ovviamente, alla fine, tutti i fili troveranno un loro capo. Come, non ve lo anticipo: starà a voi scoprirlo.

    Per quanto riguarda il lavoro di preparazione al romanzo, se il primo volume è stato caratterizzato da uno studio molto dettagliato per creare l’ambientazione nella quale far muovere i vari personaggi, in questo secondo volume molta enfasi è stata data alle battaglie campali e alla strategia complessiva utilizzata in guerra da ambo le parti. Per far questo ho studiato decine e decine di battaglie dell’antichità, soprattutto quelle dell’epoca romana e pre-romana, ma anche alcune battaglie e assedi avvenuti nel nostro medioevo. Mi sono anche avvalso dell’aiuto e della consulenza di vari esperti, che mi hanno aiutato a ricostruire tutta una serie di eventi bellici assolutamente verosimili, all’interno dell’ambientazione che avevo creato. Non mi bastava infatti ricostruire scontri realmente avvenuti; non volevo cioè dei semplici cloni della storia, ma episodi nuovi, che non erano mai stati realmente combattuti e del tutto originali, così che anche il lettore esperto di storia non potesse prevederne a priori l’evoluzione.

    In questo secondo volume, inoltre, la magia assume un ruolo più importante, pur mantenendo le sue limitazioni intrinseche, anche per personaggi molto potenti come lo stesso Dagg Elath. L’ultimo capitolo dà infine molte risposte alle domande che erano rimaste irrisolte nel primo volume, ponendo tuttavia le basi per tutta una serie di nuovi sviluppi e facendo intravedere come la storia di Aggart tragga le sue origini da una sequenza di eventi avvenuti molti anni prima della sua nascita e dei quali sono stati protagonisti, fra gli altri, i suoi genitori e lo zio, Rubeus, di cui ben poco si dice nel primo volume. Insomma, molte strade trovano la loro conclusione in questo romanzo, ma altre si aprono, in avanti e all’indietro, creando così i presupposti per lo svilupparsi di nuove avvincenti avventure.

    Post Scriptum: dietro richiesta di molti lettori, ho riportato nell’Appendice D una sinossi di quanto raccontato nel primo volume.

    I Territori Settentrionali

    Antefatto

    C’è chi afferma che il vero inferno sia sulla terra. E deve essere vero, perché io quell’inferno l’ho visto e l’ho attraversato tutto a piedi. Ancora oggi, pensando a quel lungo viaggio verso la Penisola di Cora, sento di nuovo il freddo attanagliarmi le ossa e congelarmi il respiro nella gola, mentre attorno a me il vento graffia la roccia e il ghiaccio, traendone tristi lamenti che si perdono in un cielo scolpito nel piombo.

    Sono passati molti anni, ormai, da quando i quattro Re mi diedero l’improbabile incarico di assassinare Dagg Elath, il Signore delle Ombre, un essere che di umano non aveva quasi più nulla, se mai lo era stato. Ona, tuttavia, ne era convinto, ed era proprio su quell’unica convinzione che si basava la mia missione.

    Ona… Così vicino eppure così irraggiungibile; sempre al mio fianco, ma per me, in effetti, perduto. Non avrei mai pensato che mi sarei realmente affezionato tanto a un’altra persona, certamente non dopo la morte dei miei e soprattutto dopo quella di Isella. E invece quella sera che incontrai Ona e Messala, la mia vita cambiò radicalmente, anche se allora non me ne resi subito conto.

    Ona Ettài era uno strano tipo di mago. Non era uno di quelli che si davano tante arie, che si vestivano in modo elaborato e parlavano sempre usando termini che non riuscivi mai a capire, ma che davano tanto l’idea di essere estremamente importanti. Lui era un tipo semplice, a volte persino ridicolo, o meglio, buffo, almeno finché non c’era da fare sul serio. Allora ti rendevi conto di quanto fosse determinato e soprattutto capace e intelligente. Non era solo uno dei maghi più potenti che avessi conosciuto, tanto più che di maghi non è che ne abbia conosciuti poi così tanti, anche se, forse, più di quanti avessi voluto. Lui era un tipo speciale: aveva una mente affilata come un rasoio e un cuore grande quanto una montagna. Eppure, in qualche modo, era quasi invisibile, quel tipo di persone che se non ci facevi caso neanche le notavi. In effetti, di lui, non sapevo quasi nulla. A volte sembrava un disegno appena abbozzato sul fondale della scena, una comparsa, senza sentimenti, opinioni, importanza alcuna. Ci vollero molti anni per capire che questo era esattamente quello che lui voleva, l’unica sua vera forma di difesa da un mondo che avrebbe fatto di tutto per cancellare una forza e una determinazione ben diverse da quelle che trasparivano dalla sua persona.

    Dopo la morte di Messala, mi dissi che non avrei più permesso a nessuno di portarmi via qualcuno che mi fosse caro, e invece… Quanto è stato beffardo il Fato ad aver messo proprio nelle mie mani la lama che tolse la vita al mio più caro amico, anzi, all’unica persona che abbia mai potuto veramente chiamare amico.

    Così, mentre il mondo che conoscevo lottava disperatamente per non farsi trascinare in quell’inferno, lo spirito di Ona viaggiava al mio fianco, racchiuso nella lama che ne aveva ucciso il corpo per sua espressa volontà: una sorta di crisalide umana che mi avrebbe protetto in quel lungo interminabile cammino alla fine del quale era la Fucina, dove il Signore Oscuro forgiava i suoi eserciti. Ma la Lama non era solo una compagna, una fonte di energia e un talismano di guarigione: essa era anche l’unica arma che forse avrebbe potuto uccidere l’Arcano, quell’abominio in cui Dagg Elath si era mutato con la sua stessa magia. Colpendo l’evocatore, lo spirito di Ona avrebbe indebolito la sua parte demoniaca, permettendo a quel frammento di umanità, che forse ancora esisteva nella parte più profonda del suo essere, di riemergere e spezzare così per sempre il potere oscuro che lo aveva avvolto fino a quel momento. Questo almeno era il piano.

    Ma si sa, i piani non sempre vanno come uno vorrebbe…

    Capitolo I

    Erano passati otto giorni da quando Garreth aveva lasciato Loth. Dopo aver seguito la via Sinorea verso ovest per un paio di leghe,¹ aveva svoltato a nord attraverso le piane della Ressia in direzione di Scarath. Dubitava che la cittadina esistesse ancora, ma dato che Libeth era caduta, sospettava che proseguire direttamente verso nord sull’Eporea e attraversare il Passo del Cacciatore in direzione di Etzabel, non fosse un’idea particolarmente brillante. Le notizie portate dal Comandante della Guarnigione di Libeth, infatti, parlavano di un esercito a meno di quattro giorni di marcia dalla capitale. Ormai la battaglia doveva essere già iniziata, anzi, forse era già finita. Comunque fosse, non doveva pensare a questo, ora. Il viaggio verso nord sarebbe durato mesi. Doveva proseguire con la convinzione che coloro che erano rimasti a Loth avrebbero fatto il loro dovere, proprio come lui stava facendo il suo. Avrebbero resistito, anche se questo avesse voluto dire mandare contro l’esercito di demoni ogni uomo, donna e bambino in grado di tenere un’arma in mano. Non sarebbe bastata la prima ondata per sopraffare le legioni dei Quattro Regni, di questo era certo.

    Semmai il problema era un altro: non era chiaro da dove fosse sbucata l’Orda, anzi, le Orde, dato che l’unica cosa che si sapeva con certezza, infatti, era che ne esistessero almeno due di contingenti: uno diretto a sud, verso Loth, e uno in marcia verso la costa occidentale, in direzione di Esh. Se ce ne fosse poi anche un terzo diretto a est, verso Clo, nessuno lo sapeva con certezza. Le notizie che arrivavano erano frammentarie, a volte in contrasto l’una con l’altra. Re Kasimir riteneva che alcune voci fossero state messe in giro dagli stessi alleati umani del Signore delle Ombre per confondere le idee ai loro avversari. Probabilmente era vero. In quei giorni era difficile capire di chi ci si potesse fidare e, nonostante che a Loth quasi tutti i congiurati fossero stati identificati, non era necessariamente così nel resto del Paese e negli altri regni.

    Molto probabilmente l’esercito del Signore delle Ombre aveva attraversato i Denti del Lupo proprio al Passo del Cacciatore per poi spezzarsi in due o tre tronconi, anche se Gwydeon, Comandante in Capo delle truppe della Nuova Alleanza, non ne era tanto convinto. Perché attraversare con un esercito una catena montuosa fra le più elevate del continente quando era molto più semplice scendere lungo la costa occidentale? Certamente quel che rimaneva della via Eporea non avrebbe reso più agevole all’Orda attraversare le grandi pianure settentrionali. La strada era comunque stretta e quello non era certo un esercito disciplinato che potesse marciare in fila indiana a tappe forzate fino alla capitale del Regno del Nord. L’armata dei moloch era, almeno così raccontavano quei pochi che l’avevano vista ed erano stati così fortunati da sopravvivere, una specie di marea scura che dilagava sulla pianura, una macchia informe che avanzava su un ampio fronte senza alcun ordine né disciplina. Per un esercito del genere la presenza di una strada carrabile non rappresentava certo un vantaggio tattico significativo. Eppure Libeth era caduta senza che nessuno avesse fatto in tempo ad avvisare gli abitanti. Perché la guardia posta al passo non aveva mandato qualcuno a dare l’allarme? E come mai nessun Romài, i nomadi che abitano le pianure settentrionali vivendo di caccia e, qualcuno diceva, di ruberie, aveva avvistato alcun demone?

    Inutile pensarci. Non era più un suo problema. Lui aveva un incarico ben preciso e doveva concentrarsi solo su quello. In effetti, tutto quello che doveva fare, adesso, era di arrivare a Scarath incolume. Era fondamentalmente una questione di tempi. Nel giro di pochi giorni, quattro per l’esattezza, avrebbe incrociato la direzione presa dall’orda diretta verso Esh e, se aveva fatto bene i calcoli, sarebbe passato al massimo una giornata dopo la retroguardia dell’esercito nemico.

    Da Libeth alla Piana di Nebbiolo, dove era diretto, infatti, c’erano circa dieci leghe. La città era caduta sei giorni prima della sua partenza e quindi l’orda diretta a Esh doveva essere in marcia da almeno quattordici giorni, forse anche di più. Naturalmente questo nel caso i due contingenti si fossero separati prima dell’attacco alla cittadina. Assumendo a questo punto una velocità di marcia di una lega al giorno per l’esercito nemico, e che la colonna non si fosse troppo sgranata e quindi fosse in grado di attraversare la Piana in una giornata circa, gli ultimi demoni sarebbero presumibilmente transitati da lì al massimo fra tre giorni. Non che questo lo autorizzasse a muoversi senza un minimo di attenzione, però: in casi del genere la prudenza è sempre d’obbligo. E poi c’erano troppi se, troppe ipotesi basate su troppe poche informazioni… Questi erano i momenti nei quali avrebbe voluto avere Ona accanto a sé… In carne ed ossa, voleva dire… Si permise un sorriso sarcastico.

    Fino a quel momento Garreth aveva percorso quasi due leghe al giorno, ma ora aveva rallentato l’andatura, dato che si trovava di fatto in territorio nemico. Se avesse avuto la certezza di poter arrivare a Scarath senza incontrare alcun ostacolo avrebbe potuto fare tranquillamente due leghe al giorno e forse anche qualcosa di più fino al piccolo porto settentrionale. Le cavalle donategli da Re Sigismondo erano delle splendide bestie e, cambiando cavalcatura ogni giorno, avrebbe potuto arrivare sulla costa in meno di una dodecade. Il punto era che non sapeva come fosse realmente la situazione in quel vasto territorio al confine fra la Ressia e la Marca Assiana. Non poteva assolutamente farsi scoprire. Se lo avessero preso, la sua missione sarebbe fallita e non c’era nessun altro in grado di portarla a termine. Oh, non che il giovane si ritenesse insostituibile, anzi, era ancora stupito del fatto che i quattro Re riponessero tanta fiducia in lui quando c’erano sicuramente sicari più esperti in grado di portare a termine la presa.² D’altra parte era anche vero che in quel momento era lui a possedere l’unica arma forse in grado di distruggere il Signore delle Ombre e non poteva assolutamente permettere che cadesse nelle mani del nemico.

    Ad ogni modo era inutile preoccuparsi. Fino a quel momento non aveva incontrato neanche un demone e d’altra parte quel territorio era abitato solo da poche tribù nomadi. Non c’erano fattorie o villaggi. La zona abitata era più a sud, lungo la via Sinorea.

    Mentre cavalcava, Garreth sfiorò con la mano la sottile custodia che conteneva la Lama Nera e che aveva agganciato alla sella. Chissà se pensa, si domandò per l’ennesima volta da quando era partito. Eppure in qualche modo deve essere cosciente. Se solo potessi comunicare con lui, parlargli… Ho tante domande da fargli. Non so neppure esattamente dove sto andando. Gli unici indizi che ho sono la posizione dei due villaggi distrutti dall’Orda ancor prima che entrassi nella Mano… Un po’ poco. Avrei dovuto prender con me un Cercatore. Mi avrebbero sicuramente dato il migliore. Beh, è un po’ tardi per pensarci, ora. Quello che è successo a Loth mi ha sconvolto così tanto che sono partito in tutta fretta per non dover salutare nessuno. Che idiota sono stato! Bel sicario. Altro che Settimo fra i Sette. Neanche un apprendista avrebbe agito così: un sicario non può permettere che le proprie emozioni possano influire negativamente sulla missione.

    In effetti, i giorni che avevano preceduto la partenza di Garreth dalla capitale erano stati pieni di sorprese e colpi di scena, tanto che il giovane non era riuscito ancora a digerirli completamente. Prima l’arrivo di Viktor Issani Der Finenz, lo stesso che quando era bambino lo aveva accolto presso la Guarnigione di Libeth dopo la morte dei suoi genitori e il massacro di Oressa ad opera dell’Orda; poi la notizia della distruzione di Libeth e della minaccia incombente su Loth e Esh da parte dell’esercito del Signore delle Ombre; quindi l’incarico datogli dai quattro Re di uccidere nientedimeno che lo stesso Dagg Elath ac’Lesseni, l’Oscuro, e la notizia che era stato innalzato al titolo di Settimo fra i Sette della Loggia di Morgane; infine l’evento che lo aveva colpito più di tutti: l’incantesimo che aveva trasferito nella Lama Nera lo spirito di Ona Ettài. Ancora sentiva la fitta che gli aveva attanagliato lo stomaco mentre trafiggeva con la lama il suo amico. Voleva non averlo mai dovuto fare, ma Ona aveva ragione: lui era l’unico che poteva entrare nella lama e trasformarla così in un’arma micidiale per il Signore Oscuro, l’unico che potesse farlo senza perdere la ragione, almeno. Nonostante questo aveva agito in modo impulsivo, partendo troppo frettolosamente, senza aver fatto prima il punto della situazione.

    Certo, bisognava agire rapidamente per evitare di rimanere bloccati in una Loth assediata dalle Orde dell’Oscurità, ma qualche ora in più avrebbe anche potuto spenderla per preparare meglio la sua missione, tanto più che di indizi ne aveva veramente pochi. Tutto quello che sapeva, infatti, era che quindici anni prima un piccolo villaggio di pescatori chiamato Núktút, situato alcune leghe a sud della Lancia di Oki, era stato completamente raso al suolo poco dopo l’arrivo di un misterioso draken dall’Isola di Horsa. Cinque anni più tardi, un villaggio ai piedi dei Gemelli, Kulede, sempre nella Penisola di Cora, era stato anch’esso distrutto da un’Orda di demoni. Nel massacro era stato ucciso anche il padre di Ona, Aron Zabik ac'Stannair, uno dei più potenti Maghi della Guerra dell’epoca. A seguito di questi e altri simili eventi, re Arrius, sovrano del Regno dell’Est,³ aveva mandato delle spie nella penisola per cercare di capire cosa stesse succedendo ed era stato lì che uno dei maghi mandati ad investigare aveva visto la Fucina. Cosa fosse esattamente non era stato in grado di spiegarlo, né era riuscito a dire dove si trovasse con precisione. L’uomo era impazzito dal terrore e neanche i Guaritori del Regno dell’Est erano riusciti a cavargli qualcosa di più che qualche parola sconnessa. Una cosa comunque l’avevano capita: da qualche parte, nei territori più settentrionali della Penisola di Cora, si trovava la fortezza del Signore delle Ombre. Era lì che Dagg Elath creava i roghun , i mezzi demoni generati dall’incrocio di un moloch con un essere umano; lì era dove venivano forgiate le lame nere, le terribili spade che strappavano lo spirito dal corpo degli sventurati che ne venivano trafitti; e lì era anche dove si stava dirigendo Garreth, sempre che fosse riuscita a trovarla.

    In effetti il primo passo era arrivare a Scarath e quindi, dopo aver fatto riposare i cavalli e acquistato ciò che gli sarebbe potuto servire nelle lande gelate di Cora, proseguire fino a Noi Kulede, il villaggio ricostruito mezza lega a est da quello distrutto molti anni prima dai demoni. Se l’Orda era passata dai Denti del Lupo, forse entrambe le cittadine erano state risparmiate. In fondo gli attacchi compiuti in passato ai danni del suo paesello natale, Oressa, o dei piccoli villaggi di pescatori nel nord del paese, erano probabilmente solo degli esperimenti o forse una sorta di esercitazione. L’obiettivo del Signore delle Ombre, adesso, era quello di colpire soprattutto le grandi città del nord, per poi dilagare nei regni meridionale e occidentale.

    Da Noi Kulede in poi avrebbe dovuto improvvisare. Se fosse riuscito a sapere qualcosa di più su dove potesse trovarsi la fortezza di Dagg Elath, vi si sarebbe recato direttamente, senza ulteriori tappe, altrimenti avrebbe deviato a est, verso le Ali del Falco, il grande lago creato dal Pireno, e da lì avrebbe ripreso la via Eporea per arrivare a Etzabel.

    Quel nome gli fece tornare in mente come avesse lasciato un conto in sospeso con il Comandante dell’Occhio del Mare, il Vàkkar che aveva violentato Isella. Chissà dov’era adesso. Molti Vàkkar si erano alleati con il Signore delle Ombre. Erano loro che rifornivano la Fucina di tutto quello di cui aveva bisogno ed Etzabel era il maggior porto di scambio commerciale con quel feroce popolo di navigatori. Era quindi molto probabile che la città fosse stata risparmiata. Non che questo facesse alcuna differenza per i suoi abitanti, tuttavia, dato che nella migliore delle ipotesi l’abitato era stato probabilmente occupato dai Vàkkar e la cittadinanza schiavizzata se non addirittura massacrata. Ad ogni modo, se non avesse trovato lì le risposte alle sue domande, allora era davvero nei guai. La penisola di Cora era enorme e il Lungo Sonno era quasi alle porte. Non aveva alcuna speranza di trovare la Fucina all’interno di un’area così vasta senza ulteriori indizi. Comunque era inutile preoccuparsene ora; ci avrebbe pensato qualora si fosse presentato il problema.

    Mentre ragionava sui possibili sviluppi della sua missione, Garreth udì un grido provenire da un punto imprecisato, poco più avanti, sulla destra, seguito subito dopo dal tipico clangore dell’acciaio contro l’acciaio. Il territorio che stava attraversando era sostanzialmente pianeggiante, intervallato a tratti da alcune basse colline fra le quali erano adagiati boschetti di aceri e noccioli. Garreth si trovava proprio ai piedi di una collinetta posta ai bordi di una zona più accidentata, ampia circa un paio di stare, che si estendeva da sud-est a nord-ovest per un quarto di lega o poco più.

    Sul momento pensò di proseguire. Cosa stesse succedendo non era affar suo e non poteva certo permettersi il lusso di farsi coinvolgere in un combattimento. D’altra parte passare oltre senza neanche dare un’occhiata poteva voler dire lasciarsi alle spalle un potenziale pericolo. Era meglio non correre rischi, per cui decise di avvicinarsi con cautela e cercare di capire se fosse il caso di intervenire o, piuttosto, di passare oltre senza farsi vedere.

    Dando di sprone alla cavalla baia che stava montando in quel momento, si chiamava Cloe ed era la preferita di re Sigismondo, si diresse verso una macchia di noccioli. Qui legò l’altra cavalla, una grigia di nome Cenere, a un ramo non troppo robusto. Non c’era tempo per metterle le pastoie mentre così, se gli fosse successo qualcosa, la cavalla non avrebbe avuto alcun problema a liberarsi. Quindi risalì l’erta dirigendosi verso il rumore che sembrava provenire da dietro un gruppo di aceri distante circa una mezza stara.⁴ Arrivato ai limiti della macchia smontò da cavallo e si avvicinò tenendosi sempre al riparo degli alberi. Più avanti c’era una radura al centro della quale un guerriero stava fronteggiando tre moloch armati di spade e di asce. Altri due erano riversi a terra mentre un terzo era appoggiato a un tronco, poco più in là, e si stringeva uno straccio attorno al moncone della gamba destra. Il giovane si muoveva con grazia e abilità, roteando due asce da combattimento lunghe un paio di braccia.⁵ Queste avevano in testa, da un lato, una scure affilata e traforata, dall’altro una penna appuntita in grado di penetrare anche l’armatura più robusta. I manici erano in legno ricoperto di strisce di cuoio e terminavano con un robusto laccio che passava intorno al polso, tanto che ogni tanto il giovane lasciava la presa e faceva scorrere l’arma tenendola solo con il laccio, colpendo l’avversario col puntale. I movimenti erano micidiali e non lasciavano mai scoperta la guardia. Mentre un’ascia colpiva l’altra parava un colpo avversario e viceversa. Inoltre il giovane ruotava in continuazione, alzandosi e abbassandosi, mirando ora alla testa ora alle gambe dei suoi avversari, decisamente più grossi e robusti di lui. Nonostante questo, era evidente come i demoni fossero intimoriti dall’abilità del loro avversario e come stessero più che altro tergiversando, contando sul fatto che prima o poi si sarebbe stancato e avrebbe dato loro modo di sopraffarlo. In effetti, nonostante l’abilità del guerriero, che indossava solo un corpetto di cuoio e portava in testa una celata priva di camaglio, l’esito del combattimento era purtroppo scontato: il giovane non avrebbe potuto tenere ancora a lungo quel ritmo forsennato.

    Garreth si chiese chi fosse quel guerriero e soprattutto perché un gruppo così numeroso di demoni si fosse staccato dal contingente principale per attaccarlo. I demoni avevano bisogno di alimentare le spade di energia vitale per poter sopravvivere su quel piano, il che voleva dire torturare e massacrare diverse vittime ogni giorno, vittime facili, non certo come quella. I moloch non erano demoni particolarmente coraggiosi. Il loro coraggio era piuttosto un misto di fame e stupidità, quel tanto che bastava ai roghun che li comandavano per usarli come carne da macello. Tuttavia non erano neanche così stupidi da non capire come quel gioco non valesse la candela: due demoni morti, uno ferito gravemente, il che praticamente equivaleva a una condanna a morte in quell’esercito, e tutto questo per cosa? Per uccidere un singolo individuo? Per un moloch l’energia vitale di un guerriero non valeva molto di più di quella di un contadino robusto, con la differenza che quest’ultimo lo si poteva ammazzare più facilmente. Perché allora correre tanti rischi per uccidere quel giovane?

    Troppe domande in sospeso. Se voleva delle risposte non aveva che da fare una cosa: intervenire e salvare il ragazzo. Se avesse scoperto qualcosa di importante, bene, altrimenti ognuno per la sua strada. Quantomeno si sarebbe liberato di quattro demoni che era meglio non lasciarsi alle spalle.

    Così tornò dove aveva lasciato la cavalla e prese l’arco che portava alla sella. Prese anche alcune frecce da cinghiale, di quelle con la punta rinforzata a quattro lame. Quindi tornò verso la radura e si portò in un punto dal quale potesse tirare con calma da breve distanza senza essere visto. Dato che i tre demoni sopravvissuti, il quarto non rappresentava certo un problema, si davano il cambio nell’attaccare il guerriero, ce n’era sempre uno un po’ in disparte che aspettava il suo turno. Garreth prese di mira, con calma, proprio quest’ultimo. La freccia partì e si conficcò nell’orecchio sinistro del demone, attraversandogli la testa e uscendo dall’altra parte. Il mostro fece un paio di passi stupito, voltò la testa a sinistra, come per vedere chi lo avesse colpito e quindi cadde all’indietro con un tonfo. I suoi compagni non si erano accorti di niente, incluso quello ferito che ora sembrava essere svenuto, probabilmente per la perdita di sangue.

    A questo punto Garreth incoccò una seconda freccia, attese che un secondo demone indietreggiasse per farsi dare il cambio dal compagno, tese l’arco e colpì il mostro alla gola. Questi evidentemente emise un gorgoglio rauco perché il terzo compagno si girò verso di lui, cosa che gli fu fatale. Il guerriero, infatti, approfittò del momento di distrazione dell’avversario per tirargli un fendente al collo. Il colpo prese in pieno il demone, che per l’urto roteò verso destra per poi cadere in ginocchio con le spalle all’avversario. Un secondo fendente gli spaccò il cranio. Quindi il giovane, dando appena un’occhiata nella direzione dalla quale era arrivata la freccia, si diresse rapidamente verso il mostro che aveva ferito in precedenza e senza tanti complimenti gli ficcò il puntale di una delle asce in un occhio, uccidendolo. Quindi si girò e si diresse verso il punto dove si trovava Garreth. Questi uscì dal suo nascondiglio, dopo aver incoccato una terza freccia nell’arco. In fondo non sapeva nulla di quel guerriero, e il fatto che avesse combattuto contro i demoni del Signore Oscuro non voleva dire necessariamente che fosse un amico.

    Il giovane arrivò a una decina di braccia da Garreth. Il volto era sporco di terra e di sangue e aveva un brutto taglio sulla spalla sinistra e un grosso livido sull’avambraccio destro. Per il resto sembrava non avesse altre ferite. Gli occhi erano di un verde intenso mentre i capelli erano neri, legati in una lunga treccia che gli ricadeva sulla spalla destra. La pelle era bianca, quasi candida, sebbene piuttosto sporca, così come gli abiti, segno che era in viaggio da parecchi giorni. Era più piccolo di Garreth e più magro, forse un po’ troppo per essere un guerriero… Sicuramente era molto giovane.

    – Suppongo debba ringraziarvi. – disse lo sconosciuto, mentre esaminava Garreth con la stessa cura con la quale il sicario osservava il guerriero. La voce non era molto profonda, decisamente giovanile, e aveva un tono insolito, in un certo senso spesso, ricco di sfumature.

    – Fate come meglio credete. – rispose Garreth, che continuava a non capire cosa ci fosse di strano in quel giovane.

    – Allora grazie. – replicò lo sconosciuto e si girò per andarsene.

    – Aspettate!

    Il guerriero si fermò senza voltarsi.

    – Non so neanche il vostro nome.

    – Allora siamo pari, dato che io non conosco il vostro.

    – Gail Brodie, per servirvi. – rispose pronto Garreth.

    – Brodie… Conoscevo un Brodie, un duca, per la precisione. Viveva in un castello della Rethia Inferiore. Forse un parente? – chiese il giovane tornando a voltarsi verso Garreth.

    – Purtroppo no. La mia non è una famiglia nobile, sebbene non sia neanche di basso lignaggio. Mio padre era un mastro ferraio e viveva in un villaggio vicino a Tamal, sul Golfo di Herbane.

    – Siete molto lontano da casa, Gail Brodie. Dal vostro accento non si direbbe siate un Mœriano.

    – In effetti sono cresciuto in Affernia, presso uno zio, dopo che i miei furono uccisi da una banda di briganti.

    – Mi spiace. Beh, adesso devo andare. Il cammino da qui a Scarath è ancora lungo ed io ho perso il mio cavallo.

    – Forse potrei essere d’aiuto. Mi sto recando anch’io in quella direzione, messer…?

    – Bran.

    – E…?

    – Solo Bran, nient’altro. – rispose il guerriero.

    – Bene, Bran. Data la situazione direi che in due avremmo più probabilità di arrivare sani e salvi sulla costa.

    – Uhm… Forse. Dove uno passa inosservato, due possono essere individuati. D’altra parte, se voi aveste un secondo cavallo…

    – In effetti un cavallo lo avrei, ma prima vorrei sapere qualcosa di più di voi. Se dobbiamo fare il viaggio assieme è bene che ci si conosca meglio, non credete?

    – Capisco. Tuttavia non sarebbe meglio rimandare le presentazioni a un momento migliore? Vorrei andarmene da qui. E magari anche medicarmi questa spalla. A una lega da qui c’è una foresta. La chiamano il Bosco delle Fate perché una volta si riteneva fosse abitato da quegli strani esseri. Potremmo fermarci lì per la notte. Se saremo fortunati potremmo anche trovare qualche lepre o un fagiano.

    – Non credo sia una buona idea accendere un fuoco da queste parti.

    – In effetti non lo è, ma conosco un trucchetto che potrebbe tornarci utile. Se voi e il vostro arco vi occuperete della selvaggina, io mi occuperò di cucinarla senza correre rischi. Ci state?

    – D’accordo. – rispose Garreth. – Fosse solo perché sono curioso di vedere cosa vi inventerete, Ser Bran.

    – Andiamo, allora. Ci siamo trattenuti anche troppo a lungo in questo posto. Quella feccia comincia a puzzare.

    – Davvero? – replicò Garreth con un mezzo sorriso – Io pensavo fosse il loro odore naturale…

    Il giovane non replicò, si girò e senza aggiunger altro si diresse verso il lato opposto della radura. Qui raccolse una sacca da viaggio e una bisaccia, probabilmente gettate lì quando era stato attaccato dai demoni. Garreth lo seguì con lo sguardo.

    – Purtroppo il resto è rimasto sul cavallo. Quella stupida bestia si è spaventata ed è scappata.

    – In genere non vanno molto lontano. – commentò Garreth. – Forse la troveremo più avanti, lungo il cammino.

    – Non credo. È più probabile che sia tornata da dove siamo partiti.

    – In tal caso dubito che la rivedrete più. A quest’ora starà rosolando sullo spiedo di qualche banda di demoni. – rispose Garreth.

    – Uhmf… – replicò Bran, senza aggiungere altro.

    Garreth recuperò Cloe e quindi, senza guardare se Bran e nient’altro lo stesse seguendo o meno, iniziò a risalire la collinetta dietro alla quale aveva lasciato Cenere. La cavalla grigia stava brucando tranquilla le foglie più tenere del nocciolo. Il giovane sicario ridistribuì il carico sulle due cavalle per far posto al nuovo arrivato e quindi, dopo aver controllato le cinghie di entrambe le selle e riagganciato l’arco alla sua, rimontò su Cloe e si girò verso Bran, che a sua volta stava agganciando la sacca dietro alla sella di Cenere. Voltandogli le spalle, l’uomo si infilò la bisaccia a tracolla e montò a sua volta, le asce allacciate a croce sulla schiena con due robuste cinghie di cuoio.

    I due partirono, fianco a fianco e in silenzio. Avrebbero avuto tempo per parlare, quella sera, una volta fatto il campo. In quel momento era più opportuno tenere gli occhi e le orecchie ben aperte in modo da cogliere qualunque segnale preannunciasse la presenza di eventuali nemici.

    Era ormai quasi il tocco⁶ quando arrivarono ai margini della selva indicata da Bran. Sebbene avesse il nome di Bosco delle Fate, era una vera e propria foresta, piuttosto fitta, ricca di cerri, roveri e carpini neri. Il sottobosco era formato prevalentemente da felci blu, aconiti e rovi. Vasti ciuffi di ortica, angelica e caglio si alternavano a tratti erbosi coperti da pezzi di corteccia e foglie in gran parte decomposte.

    I due si fermarono in una radura non distante dai margini del bosco. Penetrare nel folto della foresta, infatti, sarebbe stato alquanto complicato, specialmente con i cavalli, dato che il sottobosco era piuttosto fitto. Certo, nascondersi nella foresta avrebbero reso piuttosto difficile a un possibile aggressore individuarli dall’esterno ma, se lo avessero fatto, anche loro avrebbero rischiato di non accorgersi subito dell’arrivo di eventuali intrusi. Così decisero di comune accordo che era più sicuro fare il campo in un posto dal quale potessero vedere la pianura al di là degli alberi.

    Garreth smontò, tolse il carico ai due cavalli, ma lasciò la sella, anche se allentò leggermente le cinghie. Lì vicino si sentiva il rumore di un ruscello. Dopo aver controllato che fosse agevole raggiungerlo, portò i cavalli ad abbeverarsi, uno alla volta. Era solo un rigagnolo, ma l’acqua era fresca. Ne approfittò anche per riempire entrambi gli otri che aveva portato con sé. Una volta impastoiate le due cavalle, il giovane prese arco e frecce e si diresse a nord in cerca di selvaggina, mentre Bran si recava al ruscello per lavarsi e ripulire le ferite. Garreth si era offerto di aiutarlo ma il guerriero aveva cortesemente rifiutato, evidentemente non fidandosi del giovane assassino più di quanto Garreth si fidasse di lui.

    Così, mentre lo sconosciuto restava al campo, Garreth si inoltrò nella foresta. Sicuramente lungo il ruscello avrebbe trovato le orme di qualche animale venuto lì ad abbeverarsi; doveva solo allontanarsi un po’ dal campo. Nel frattempo Bran preparò un paio di giacigli sotto una copertura di rami e frasche, nel caso fosse piovuto. Il cielo si era scurito negli ultimi due giorni e già nell’aria si sentiva odore di pioggia. Da quelle parti le precipitazioni non erano molto frequenti, specialmente in quel periodo dell’anno, ma quando avvenivano erano caratterizzate da scrosci piuttosto violenti, anche se di breve durata.

    Quando Garreth tornò al campo con un paio di silvilaghi, una specie di coniglio selvatico ma con orecchie e coda più corte, zampe anteriori più sottili e posteriori più lunghe, si trovò di fronte a uno spettacolo inconsueto. Bran aveva scavato una buca nel terreno che aveva poi ricoperto con una grossa pietra dai cui bordi filtrava una strana luce azzurra. Tutt’intorno aveva posto altri sassi, come si fa per un fuoco da campo, probabilmente per evitare che qualcuno da lontano potesse vedere il chiarore.

    – Che diavolo stai facendo?

    – Sto preparando il forno per la cena. Vedo che hai avuto fortuna. Forza, vieni avanti. Non restare lì a bocca aperta!

    L’assassino si avvicinò con fare guardingo. In realtà non era tanto quello strano sistema di cottura che lo preoccupava; aveva visto ben altro in passato. Il punto era che non si era aspettato che un guerriero usasse la magia, perché di magia si trattava: su quello non c’era alcun dubbio.

    – Forza, porta qui quelle lepri che le puliamo e le mettiamo a cuocere. – disse Bran con un sorriso divertito, evidentemente interpretando come timore nei confronti dell’incantesimo la riottosità del giovane ad avvicinarsi.

    – Non mi avevi detto che te la cavi bene anche con la magia. – disse il sicario sottovoce, guardando di sott’occhi il guerriero, mentre si accovacciava davanti alla pietra.

    – Che gli dèi me ne scampino! Questo è solo un piccolo dono di uno stregone in cambio di un lavoretto che ho fatto qualche mese fa. È una strana pietra di colore blu scuro con dei buffi segni sopra. Basta strofinarla per una dozzina di secondi e dopo un paio di minuti è abbastanza calda per cuocere un maialino o riscaldare le ossa gelate dal freddo notturno. L’unico difetto è che dura un paio d’ore, dopodiché bisogna strofinarla di nuovo. La prima volta che l’ho scoperto ho mandato tante di quelle maledizioni a quel tipo, che gli devono essere venuti i funghi ai cosiddetti! Sai, non è che svegliarsi la notte ogni due ore intirizziti dal freddo per riaccendere quella cosa sia poi il massimo. In compenso non si perde tempo a cercar legna e soprattutto, grazie a questo trucchetto che ho inventato, si può avere un pasto caldo anche quando non è opportuno dare troppo nell’occhio.

    – Uhm… In effetti sembra un oggettino decisamente utile. – replicò Garreth, poco convinto. Quell’uomo era una continua sorpresa e al giovane sicario le sorprese non piacevano proprio per niente.

    – Lo puoi dire…

    – Cosa c’è? – Bran si era fermato nel mezzo della frase e aveva sollevato la testa girandola leggermente verso il bordo della foresta. Quindi si portò le dita sulla bocca, ad indicare di fare silenzio e, rimanendo sempre basso, si avvicinò all’albero ai piedi del quale aveva lasciato la sacca e le armi. Garreth, nel frattempo, si era spostato rapidamente dall’altro lato della radura, verso l’interno, e aveva sguainato la spada.

    Era la prima volta in assoluto che impugnava la Lama Nera da quando l’aveva infilata nel fodero fatto fabbricare da Ona. Si aspettava di sentire il freddo invadergli il braccio, come già era successo quando da bambino aveva trafitto uno dei demoni che aveva attaccato la sua famiglia. Allora il piccolo Agi aveva agito d’istinto per salvare la propria vita e quella di Tessa. La lama era penetrata in profondità nel demone, passandolo da parte a parte, come fosse stato di burro. A quell’epoca Aggart, come si chiamava Garreth prima di entrare a far parte della Mano, la Gilda degli Assassini, non sapeva che la lama in realtà fosse il ricettacolo di un particolare tipo di demone chiamato Crisalide. Era grazie alle Crisalidi che i mostruosi moloch potevano restare nella dimensione umana tanto a lungo, senza un evocatore che li sostenesse con la magia e la propria energia vitale.

    In pratica ogni lama era una sorta di collegamento con il piano infernale da cui quegli esseri erano venuti, un legame che permetteva loro di ricevere l’energia demoniaca di cui avevano bisogno. In cambio la Crisalide doveva essere alimentata con l’energia vitale di altri esseri umani: più la morte era lenta, maggiore era l’energia che la lama succhiava. Era per questo che i moloch torturavano orribilmente le proprie vittime. Nessun umano poteva impugnare a lungo una di quelle lame: non solo l’energia demoniaca raggelava il fisico e lo spirito di chi avesse avuto l’ardire di impugnare una Lama Nera, ma quel tipo di arma aveva una propria vita, per cui, quando era affamata, cercava di colpire qualsiasi essere umano le capitasse a tiro, amico o nemico che fosse.

    La lama che Garreth aveva in mano in quel momento, tuttavia, era stata svuotata della Crisalide. Ora racchiudeva lo spirito di Ona Ettài e quindi non solo poteva essere impugnata dal giovane, ma gli forniva in continuazione energia vitale proprio come le Crisalidi fornivano ai demoni quella demoniaca. E infatti la sensazione che provò Garreth quando impugnò la spada non fu di gelo ma di calore, un gradevole tepore che dal polso iniziò a risalire lungo la spalla e da lì in tutto il resto del corpo. Il giovane si sentì immediatamente più forte, riposato, tranquillo, come se la lunga cavalcata degli ultimi giorni non fosse mai avvenuta.

    Era così perso in quella piacevole sensazione che non si accorse che Bran era rientrato di corsa nella radura. Dietro a lui tre moloch sbucarono all’improvviso fra gli alberi.

    – Porca… – Garreth attese che il guerriero gli passasse davanti e quindi colpì allo stomaco, di taglio, uno degli inseguitori, facendo scorrere la lama per liberarla subito per l’avversario successivo. Un urlo terribile squarciò l’aria. Il mostro cadde in avanti gridando di dolore. Gli altri due si fermarono ma vennero subito raggiunti da un quarto demone e da un essere un po’ più piccolo, comunque almeno mezzo braccio più alto di Garreth. Nel frattempo Bran si era girato e si era messo a fianco del compagno, sulla sinistra. Il demone più piccolo gridò un ordine in una strana lingua rauca e i tre moloch si gettarono sui due umani. Bran usava l’ascia destra per difendere la sinistra di Garreth, mentre con l’altra teneva a distanza uno dei demoni, armato di una grossa ascia nera bipenne. Il sicario, invece, iniziò a tirare di scherma con gli altri due attaccanti che, per la verità, erano dei pessimi spadaccini. Anche le loro lame erano nere, ovviamente, ma di un braccio più lunghe di quella di Garreth e almeno il doppio più larghe. Il roghun, perché di un mezzo-demone si trattava, in effetti, era rimasto in disparte. In mano impugnava una lama più corta e sottile, molto simile a quella del sicario.

    A un certo punto il demone alla destra di Garreth tentò un affondo. Il giovane schivò la lama e ruotando il polso la fece andare a sbattere contro quella del demone che aveva di fronte. Quindi si abbassò, raddrizzò di colpo la spada e trapassò quest’ultimo poco sotto lo sterno. Il demone allargò di colpo le braccia, lasciò cadere l’arma e sollevò di scatto la testa all’indietro. La scena sembrò congelarsi in un unico lunghissimo istante. I due demoni rimasti fecero un passo indietro, sorpresi, mentre la lama sembrava splendere di una cupa luce bluastra nel petto del mostro. Anche Bran si era bloccato, raggelato dalla scena.

    Quindi il giovane ritirò la mano mentre il demone crollava all’indietro come un tronco marcio e la scena tornò a prender vita: il demone alla sinistra di Bran fu il primo a tornare all’attacco mentre il secondo arretrava portandosi a pochi passi dal suo comandante. A quel punto, dato che le forze si erano equilibrate, Garreth ruppe la formazione avanzando verso il mostro e incalzandolo con la spada. In pochi secondi riuscì a superare l’inesperta guardia dell’avversario e a trafiggerlo alla gola. Di nuovo la lama brillò, ma questa volta Garreth non si lasciò sorprendere e, prima ancora che il demone toccasse terra, si era già lanciato sul roghun che stava arretrando con l’evidente intenzione di darsela a gambe. Con abilità il giovane lo guidò in modo che finisse con le spalle contro il tronco di un grosso albero. Vista la ritirata preclusa, il mezzo-demone si lanciò in avanti in un ultimo disperato affondo, ma Garreth non aspettava che questo. Si spostò di lato quel tanto che gli permise di evitare la lama avversaria, controllandola con la sua, quindi, ruotando sul piede sinistro, infilzò dall’alto il nemico da dietro, poco sotto la nuca. Questa volta, tuttavia, la lama brillò di meno e mentre l’essere crollava in avanti, il corpo iniziò a fremere per poi bloccarsi in un ultimo spasmo, il volto rivolto da un lato. Proprio in quel momento un raggio di luce lunare si fece largo fra le nuvole e le fronde degli alberi, e illuminò il volto del cadavere. Con sorpresa Garreth vide che era cambiato, era cioè diventato più umano, come se la lama avesse risucchiato tutto ciò che di demoniaco dimorava in quell’essere per lasciarne sul terreno molle solo la parte umana.

    Si girò verso Bran che nel frattempo aveva avuto ragione del suo avversario. Il guerriero lo fissava con uno sguardo strano, la fronte aggrottata, le mani che stringevano i manici delle asce così stretti che le nocche erano diventate bianche.

    – Chi diavolo sei tu?

    – Cosa?

    – Chi sei? – ora la voce di Bran si era fatta più acuta, quasi in falsetto.

    Garreth fece un passo verso il compagno, ma quello si spostò di lato, sollevando leggermente le asce.

    – La tua lama… Tu hai una lama come quella dei demoni. Chi sei? Tu non sei umano…

    – No, aspetta. – ribatté Garreth – Posso spiegare.

    – Sarà meglio. – ora del giovane il tono si era fatto più basso. – E sarà meglio che la tua spiegazione sia molto convincente.

    – Il mio vero nome è Garreth e sono in missione per conto dei quattro Re.

    – In missione? I quattro re? Che diavolo stai dicendo? Ti ha dato di volta il cervello?

    – No, ascolta. Questa non è una lama demoniaca. O meglio, lo era. Poi un mio amico, un mago di nome Ona Ettài, ha fatto un incantesimo che l’ha cambiata. Ora è in grado di uccidere i demoni esattamente come le lame nere uccidono gli umani.

    – Stai dicendo che non è più pericolosa?

    – Per noi? Non più di una normale spada, forse anche meno. Ma per i demoni, come hai visto, è mortale.

    – Perché dovrei crederti?

    – Ripensa a quello che hai visto. Pensa a quello che è successo quando ho colpito i moloch. E il roghun, guarda il roghun. Questa lama distrugge tutto quello che di demoniaco c’è in un essere. Conosci le lame nere? Hai mai provato a impugnarne una?

    – Nessun essere umano può farlo, non a lungo almeno. La lama ti gela l’anima, ti avvelena corpo e spirito.

    – Esatto. Vieni, guarda… – disse Garreth infilando la spada di punta nel terreno e indietreggiando di un paio di passi. Era rischioso, in fondo non sapeva nulla di quell’uomo, ma in quel momento era più importante guadagnarsi un alleato che ritrovarsi a fronteggiare un avversario indubbiamente abile e pericoloso. – Afferrala. Forza.

    Bran, tuttavia, non sembrava convinto, tanto che si guardò bene dall’avvicinarsi alla lama. Un pensiero passò rapido nella mente di Garreth… Aspetta! Cosa ha detto? Conosce le lame nere? Ma come…?

    – D’accordo. – disse il guerriero. – Voglio fidarmi. Ma quella cosa lì io non la tocco, se non ti dispiace. Anzi, vedi di farmi il piacere di tenerla il più lontano possibile da me. Voglio credere alla tua storia, per quanto sia assurda, ma adesso ti prego di rimettere la lama nel fodero.

    – Va bene, come vuoi, ma se tu la impugnassi avresti la prova che dico la verità.

    – Se è solo per questo, ti assicuro che ti credo, anzi, per dimostrartelo anch’io ho qualcosa da dirti.

    – Che cosa? – ora fu Garreth ad aggrottare la fronte.

    Ecco che ci risiamo, pensò. Quale sarà questa volta la sorpresa?

    – Neanche io sono chi affermavo di essere. – disse il guerriero avvicinandosi a Garreth, ora che aveva ripreso la spada e l’aveva rinfoderata. – Il mio nome, in realtà, è Lehanna. Lehanna dei Fois di Seaxa, figlia del Principe Aligi il Sincero, fratello di Sua Saggezza Arrius, sovrano del Regno dell'Est e Patriarca del Supremo Magistero dell’Ordine del Melograno.


    ¹. La lega è un’unità di lunghezza pari a 25,92 chilometri (vedi l’Appendice C di questo volume). (N.d.A.)

    ². Per presa si intende un contratto per l'assassinio di una persona. (N.d.A.)

    ³. Il Regno dell’Est è l’unico dei Quattro Regni governato da una dinastia di maghi. (N.d.A.)

    ⁴. La stara è un’unità di lunghezza pari a 720 metri (vedi l’Appendice B di questo volume). 36 stare fanno una lega . (N.d.A.)

    ⁵. Il braccio è un’unità di lunghezza pari a 41,7 centimetri (vedi l’Appendice B di questo volume). 12 braccia fanno una catena . (N.d.A.)

    ⁶. L’ora di cena, in genere intorno alle 18 (vedi l’Appendice C del volume La Lama Nera ). (N.d.A.)

    Capitolo II

    A Beatrice era sempre piaciuto cavalcare, tirare con l’arco e soprattutto di scherma, ma la sua arma preferita rimaneva il bastone, anche perché poteva usarla per impartire una bella lezione ai ragazzi che ogni tanto la prendevano in giro, senza correre il rischio di far loro davvero del male. Da piccola, più di una volta aveva sfidato ragazzini più grandi di lei e li aveva battuti sonoramente, tanto che si era valsa il nomignolo di Battidita, in quanto la sua tecnica preferita consisteva nel colpire l’avversario sulle dita di una mano, in modo che lasciasse il bastone, e di sfruttare l’apertura nella guardia per attaccarlo poi allo stomaco. Insomma, Beatrice era un vero maschiaccio, come diceva sua nonna, con un misto di disapprovazione e orgoglio. Ormai tutti i ragazzi della capitale si guardavano bene dal darle fastidio, soprattutto un certo Kir, un bulletto con più muscoli che cervello, ma Loth era una città grande e c’erano sempre nuovi arrivi con i quali divertirsi.

    La ragazza aveva due amiche, così diverse da lei quanto lo è il sole dalle due lune.⁷ La prima, Isabella, era una ragazza timida e molto riservata. Parlava poco e, quelle rare volte che succedeva, lo faceva con un filo di voce. Era la classica brava ragazza, sempre attenta a non fare mai nulla di sbagliato, sempre vestita bene, seppure con semplicità, sempre disponibile ad aiutare la madre nelle faccende domestiche. In effetti l’unica trasgressione che si permetteva era proprio l’amicizia con Beatrice, anche perché i suoi genitori, così come d’altra parte buona metà degli abitanti del rione del Pozzo, pensavano che quella ragazza fosse decisamente un po’ fuori dalle righe. A Isabella comunque non importava, anche perché provava per Beatrice una vera e propria adorazione, e in fondo, visto che quell’amicizia sembrava non averla minimamente cambiata, la madre e il padre avevano finito per tollerare la situazione. In quanto a Beatrice, aveva assunto una sorta di atteggiamento protettivo nei confronti dell’amica. In realtà, per quanto potesse sembrare strano, erano più le volte che Isabella aveva tratto di impaccio Beatrice che viceversa. Bambolina , come veniva chiamata a causa dei vestitini ricamati che Isabella sembrava prediligere, era una ragazza molto riflessiva e soprattutto aveva una mente sveglia e pronta, anche se a causa della sua timidezza passava spesso inosservata. Così, più di una volta, quando le sue due amiche si ficcavano in qualche guaio, era quasi sempre stata lei che aveva dovuto ingegnarsi per cavarle d’impaccio.

    La seconda amica era Eliane. A differenza di Beatrice non era particolarmente brava con le attività fisiche, sebbene fosse abbastanza robusta, né aveva l’intelligenza di Isabella. Le amiche la chiamavano Schiacciasassi, perché aveva la brutta abitudine di affrontare qualsiasi ostacolo a testa bassa. In genere, quello che succedeva, era che Beatrice si faceva venire in mente qualche idea balzana, spesso e volentieri rischiosa, nella quale trascinava le due amiche, Eliane riusciva a trasformarla in un disastro e Isabella trovava il modo per uscirne tutte e tre alla bell’e meglio, talvolta proprio per il rotto della cuffia. Eliane era la più grossa, tanto che a sedici anni sembrava averne almeno un paio di più. Viceversa Isabella, che pure aveva la stessa età delle altre due, dimostrava un paio d’anni di meno, il che a volte le creava qualche problema.

    Le tre, comunque, erano amiche del cuore fin dalla culla, si può dire, anche perché i loro genitori erano tutti quanti membri della Gilda degli Armaioli. I padri di Beatrice e di Isabella erano infatti entrambi spadai, come venivano chiamati gli armaioli specializzati nella fabbricazione di spade e coltelli; quello di Eliane, invece, era un fabbricante d’asce, sia da combattimento che per uso civile. La maggior parte dei Mastri d’Ascia di Clo e di Esh si recava volentieri fino a Loth pur di avere un’ascia di Mastro Felice. La madre di Isabella, invece, lavorava in casa. Era molto brava a ricamare e cucire, tanto che buona parte degli ornamenti dei foderi e dei corpetti da parata usati dalle Guardie Reali era stata confezionata da lei. Per quanto riguardava la madre di Beatrice, invece, era morta di parto alcuni anni prima. Purtroppo era morto anche quello che avrebbe dovuto diventare il fratellino della ragazza e il dolore, per il padre, era stato così profondo, che aveva finito per buttarsi nel lavoro lasciando di fatto Beatrice a cavarsela da sola. Non che le facesse mancare niente, ma non era quasi mai a casa, passando a bottega la maggior parte del giorno e, a volte, anche della notte. Donna Gabriella invece, era un donnone grande e grosso, il che dava un’idea di quello in cui si sarebbe trasformata Eliane da grande, e altrettanto impulsiva e irruente. Era una delle poche donne a lavorare come fabbro nella Gilda ed era bravissima a costruire cotte di maglia. Era incredibile come quelle dita grandi come salsicciotti potessero infilare uno dopo l’altro gli anelli con velocità e precisione impressionanti. Le cotte a due strati di Donna Gabriella erano famose in tutto il Regno del Nord, anche perché era l’unica che riuscisse ad agganciare direttamente gli anelli a formare gli strati mentre realizzava la maglia: gli altri fabbri si limitavano infatti a sovrapporli per poi agganciarli successivamente solo in alcuni punti.

    Quando Re Sigismondo accettò di costituire un’unità di sole donne e la Contessa di Fossa fece emettere il bando per il reclutamento della Terza Legione, Beatrice non ci pensò un solo momento e, prima ancora che gli araldi avessero finito di leggere l’annuncio, era già in fila di fronte alla caserma dove si raccoglievano le domande di arruolamento. Inutile dire che la ragazza, al momento di dare il proprio nome, ebbe la bella pensata di presentare domanda anche per Isabella ed Eliane, ovviamente senza neanche pensare a informare prima le amiche. La situazione era molto critica e, dato che le tre ragazze avevano l’età minima per essere reclutate, l’ufficiale all’arruolamento accettò le tre domande senza fare troppe storie, anche se a presentarle

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