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Il mondo non è nostro
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E-book232 pagine3 ore

Il mondo non è nostro

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Fantascienza - romanzo (166 pagine) - In un mondo devastato, senza futuro e senza speranza, l'ultima grande impresa è svelare il segreto della fortezza nascosta. Un capolavoro dimenticato di una grande scrittrice.


È passato un centinaio di anni da quando la “Tragedia” ha sconvolto la Terra. I segni di questo destino sono ancora ben visibili nelle città sconvolte, dove a fianco dei grattacieli di vetro convivono le povere case di mattoni tozze e giallastre e le tende dei tanti costretti al nomadismo. Poi c’è lei, la Fortezza: la grande tentazione, che racchiude il mistero, il pericolo, forse la fortuna e chissà che altro. Ed è lì che il Capitano e la sua banda di spostati vogliono andare. Per dare alla loro vita una svolta, o forse solo una degna conclusione.


Daniela Piegai, nata e cresciuta in Toscana, è una delle autrici italiane di fantascienza più rappresentative. Come giornalista ha lavorato per Paese Sera e per ANSA; negli ultimi anni si è dedicata all'attività di pittrice. Autrice di numerosissimi racconti, ha pubblicato sei romanzi e diversi romanzi brevi. Tra le opere più note Parola di alieno (Nord 1978), Ballata per Lima (Nord 1980), Nel segno della luna bianca (con Lino Aldani, Nord 1985). Gran parte della sua produzione è tuttora inedita.

LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2022
ISBN9788825421521
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    Anteprima del libro

    Il mondo non è nostro - Daniela Piegai

    Nel ventre del tempo

    Introduzione di Nicoletta Vallorani

    Sembra che anche le donne scrivano fantascienza.

    Per la verità, lo fanno praticamente dall’atto di nascita di questo discusso genere letterario. Però una consistente fetta di pubblico (e di editoria) se ne è resa conto solo in tempi recenti.

    Sembra che le donne che scrivono SF siano per lo più americane. O inglesi. Comunque di ceppo anglosassone.

    Sempre in tempi recenti, sembra che anche qualche italiana si sia cimentata nell’arduo compito di scrivere un romanzo fantascientifico.

    In questa festa delle apparenze, in realtà la situazione è più di rosea quanto possa sembrare a prima vista: il romanzo di Daniela Piegai non è affatto una cattedrale nel deserto. In Italia, tra mille difficoltà, le donne autrici di SF ci sono, anche se non sono moltissime e non sono conosciute quanto meriterebbero. L’editoria ufficiale le ha spesso eluse, trascurate, scippate di una considerazione che autori di minor talento, ma di sesso maschile, hanno ottenuto senza grandi difficoltà. E tuttavia, anche in questo contesto, si è sviluppata almeno una direzione, se non un vero e proprio filone narrativo. Accanto alla Piegai, scrittrici come Anna Rinonapoli, Miriam Poloniato, Grazia Lipos, Mariangela Cerrino hanno testimoniato quantomeno una medesima sensibilità narrativa, il desiderio di rinnovare le tematiche e le soluzioni stilistiche tradizionali e comunque la volontà di esprimersi con voce autonoma. E pare persino che questi non siano casi isolati. Anche autrici più giovani stanno cercando di conquistarsi uno spazio, e alcune di loro ce la faranno, perché hanno mestiere, idee, sensibilità e una discreta provvista di ostinazione.

    Alla Piegai, in particolare, l’ostinazione non è mai mancata. Pur essendo stata una delle prime italiane a decidere che di SF si poteva scrivere pur non avendo fatto il servizio militare, ha identificato senza grandi esitazioni la direzione da seguire. Ha centrato alcuni nuclei tematici che si sarebbero gradualmente ampliati e arricchiti con l’evolversi della sua produzione narrativa e ha individuato uno stile, fluido, poetico e allusivo, che il suo pubblico ha ormai imparato a riconoscere.

    E tuttavia, una scrittrice non nasce dal nulla. Specie in condizioni non favorevoli, è necessario e inevitabile che l’intuizione personale cerchi il supporto di una tradizione. E quando la tradizione non c’è, la si inventa. Così, le tematiche più care alla Piegai hanno imbarazzanti punti di contatto con questioni lungamente dibattute dalle donne in sedi differenti: concetti come alterità, alienazione, diversità, identità, identificazione animano un universo narrativo vario e articolato, nel quale non è difficile cogliere il segno del femminile. I percorsi tematici appaiono già tracciati nei primi due romanzi dell’autrice.

    Tanto Parola di Alieno, 1978, quanto Ballata per Lima, 1980, sono apologhi saggi, astuti e riflessivi sulla scomodità della condizione di chi è emarginato: che si tratti di alieni, bambini, poveri o donne non fa grande differenza. Nel microcosmo dei racconti, il messaggio si affina e si definisce ulteriormente e la comprensione del femminile diventa più netta e consapevole: la donna è strega, bambina, stracciona, narratrice, vittima inconsapevole, eroina suo malgrado, clown e angelo povero di un circo che si ostina a ignorarne la saggezza.

    C’è di più. Al di là dei personaggi e della preferenza accordata ad alcune figure femminili, la caratteristica ricorrente della scrittura della Piegai è forse un’altra. È la struttura della possibilità. La storia non si costruisce come unica direzione, senso definito, accumulazione ordinata di eventi. Piuttosto le vicende che questa scrittrice riesce a raccontare meglio sono ottenute per accumulazioni successive, con un progressivo ampliamento di percezioni, un graduale evolversi delle azioni, che poi risultano nella crescente autonomia e umanità dei personaggi. È come se il filo del racconto venisse continuamente riavvolto per essere poi dipanato e avvolto di nuovo, cosicché le curve che il filo descrive non sono mai le stesse. E la storia si svolge in direzioni imprevedibili. È come prendere parte a un gioco del quale non si conoscono le regole.

    A livello narrativo, la ricetta funziona. Forse proprio perché non è una ricetta, cioè non è stata costruita a tavolino. Somiglia piuttosto a una necessità creativa: l’autrice non inventa la materia narrata, ma la ricostruisce e cerca di rispettarne la struttura naturale. Che ovviamente non è razionale, logica, numerabile e catalogabile. Perché non è matematica ma narrazione.

    È forse proprio per questo che l’autentico protagonista di Il mondo non è nostro è il tempo. Nella fortezza in cui persino la scansione cronologica lineare è andata smarrita, angeli straccioni si muovono alla ricerca della loro identità. E il tempo si nega, si istituisce come struttura non conoscibile, flusso continuamente interrotto, immagine riflessa in uno specchio che è andato in pezzi.

    Questa visione è qualcosa di più di un semplice dispositivo narrativo. E un mezzo di decodifica della vita, una visione del mondo che molto spesso tende a riprodurre una specificità femminile. È al femminile infatti che appartiene l’assenza di un senso unico, di una direzione definita tranquillizzante, di una precisa scansione cronologica che in molta narrativa maschile corrisponde alla rigidità creativa. Non è un caso che uno dei romanzi di SF più interessanti, eversivi e inquietanti degli anni Settanta, The Female Man, abbia a che fare con il viaggio nel tempo. E forse non è neanche un caso che l’abbia scritto una donna, Joanna Russ.

    La Piegai riprende la tematica e se ne appropria, filtrandola attraverso la sua personale percezione creativa. E, per delega, inaugura un viaggio nelle viscere stesse del tempo, tuffando i personaggi in un’ambientazione impossibile. La fortezza è infatti il luogo del non-tempo, la struttura fisica in cui l’invecchiamento come acquisizione di esperienza è un percorso impraticabile. Per questo lo spaesamento dei personaggi è totale, e la loro ricerca diventa via via più angosciosa e intensa, man mano che l’oggetto desiderato tende a coincidere con l’identità. Persino la voce narrante si smarrisce, tirandosi dietro un variopinto equipaggio di ingenui e scalmanati eroi. Alla fine, nessuno dei sopravvissuti sarà più lo stesso. E tra gli spettri confusi e irreali che si agitano nelle viscere della fortezza, ognuno incontrerà il suo incubo personale, la sua ombra, l’identità sempre negata eppure presente. E il Capitano, una specie di Marlowe chandleriano invecchiato e ammorbidito dagli anni, si perderà nella narrazione di questa vicenda impossibile. Forse lui solo arriverà ad accettare come inevitabile la perdita del senso della realtà, per poi ritrovarlo intatto negli occhi del tenente Ara, nella sua faccia scura da zingara, nelle cose disperate che dice e che non capisco fino in fondo.

    Quest’assenza di comprensione è la chiave del romanzo, e al tempo stesso l’elemento che restituisce alle figure descritte una caratteristica unica: l’umanità.

    Nicoletta Vallorani

    1

    La mia città è gelata e verticale, priva di un’identità precisa; è un’accozzaglia di abitazioni senza la minima coerenza stilistica, che si stende per chilometri dalla sommità brulla dell’altopiano fino quasi alle pendici.

    In estate la vicinanza del deserto vela tutto di polvere color ocra e oro, ma adesso l’aria è nitida e straordinariamente chiara.

    In basso, un grande spiazzo circolare interrompe l’agglomerato brillante di vetri dei grattacieli e la sequenza delle tozze case giallastre di mattoni crudi. Lo spiazzo è incolto e abbandonato come se da sempre gli abitanti della città avessero evitato di calpestarlo, per restituirlo all’immagine millenaria dell’Asia; sterpaglia arida, bruciata alternativamente dal gelo e dalla siccità, battuta da venti che prendono una lunga rincorsa.

    I crepacci che solcano lo spiazzo si ramificano come l’impronta di antiche vene disseccate, e la crosta è composta dalla stessa argilla screpolata che si narra abbia formato la dura carne cocciuta del primo uomo (sfidò un dio, pare per futili motivi, ne uscì con le ossa rotte, ma tuttora il suo esempio brilla, per noi dal cattivo carattere e dalle aspirazioni sbagliate. Noi che anche oggi corriamo dietro alle splendide cose che si dice siano state intuite nel recinto di un antico giardino, mentre la luce giocava tra le scaglie verdi-azzurre di un serpente).

    Verso nord, sul fianco dell’altipiano, sullo sfondo lontano di alte montagne innevate, una quantità di tende testimonia la persistenza di una vocazione nomade, e i lati delle tende, gonfiati dal vento, sbattono come stracci grigi e scoloriti, in sintonia col respiro dell’inverno.

    Rivoli d’acqua scendono dalle case poste più in alto, innocenti fogne a cielo aperto, proprio accanto ai lucidi cassoni di rame dove l’acqua si conserva fresca anche in estate per la sete dei viandanti.

    E le strade asfaltate, i sentieri da capre e da cammelli, i tracciati che uniscono case e quartieri, si interrompono tutti di fronte allo spiazzo; una sola pista vi conduce, costantemente presidiata dai soldati.

    Di fronte ai soldati, a rispettosa distanza, staziona, con qualsiasi tempo, e praticamente a qualsiasi ora, una folla eterogenea e colorata. Gli uomini e le donne che compongono la folla parlano, invocano i loro sogni, i loro incubi, i loro dei, svolgono i tappeti da preghiera, o stanno accoccolati sui talloni, ma anche mentre si muovono od oscillano in ossessive danze da dervisci, l’impressione globale è quella di una paziente, interminabile attesa.

    Infatti a volte, non molto spesso, qualcosa cambia nella qualità della luce che illumina lo spiazzo. L’aria comincia a tremare e pare che un altro sole, leggermente spostato rispetto al solito, proietti le ombre basse e sghembe degli sterpi in posizioni sbagliate.

    Una parte dei soldati è allora affaccendata a trattenere la folla, un’altra registra il fenomeno con vecchi macchinari arrugginiti e obsolete apparecchiature, e la gente si stringe verso lo spiazzo, irresistibilmente, con una terribile, concentrata avidità; e pare sempre che i soldati stiano per sparare, che la gente stia per travolgere i soldati.

    Ai margini, i tappeti da preghiera formano un frastagliato cerchio di speranza.

    Allora, quando all’interno del cerchio brullo le cose hanno due ombre, si precisa una specie di struttura arcaica, qualcosa che sembra una fortezza, grigia, cieca, immobile. E il mio cuore si ferma, allora, mentre dalla folla si leva un lungo, acuto lamento che mette i brividi addosso a chi lo ascolta.

    2

    Intorno a noi una ventina di disgraziati è intenta a bere un tè cinese, verde come la menta, caldo come il fuoco. Qualcuno dal palato ormai atrofizzato butta giù la tremenda mistura afgana che sa di trementina e di assenzio. Nessuno ascolta i discorsi del vicino; in questo posto ognuno si gratta le sue rogne private, e si può tranquillamente parlare anche di affari non propriamente legali.

    Per questo ci vengo così spesso.

    Adesso guardo i fondi scuri del mio tè, e ascolto Archimede, che è dritto come un palo e dignitoso e a disagio, qua dentro, nonostante non voglia ammetterlo.

    – Fai le cose semplici, tu, Capitano – dice Archimede, attento a non toccare la sua tazza più del necessario (sono sicuro che, una volta a casa, si disinfetterà le dita e berrà un qualche antidoto universale di sua invenzione) – disgraziatamente la tua logica è elementare, mentre la situazione attuale è complessa e piena di incognite. – E il suo tono è sofferente come chi è costretto a spiegare la teoria della relatività a un branco di scimmie urlatrici.

    – Può darsi che io non possieda la tua scienza, Archimede – gli rispondo conciliante – ma non capisco perché tu, invece, continui a complicare tutto: quella larva di governo che abbiamo, buona solo a farci pagare le tasse, ha sempre favorito le missioni all’interno della fortezza vecchia. In fondo è il grande mistero del secolo, e se qualcuno lo risolve, fa comodo a tutti.

    – Può darsi che fino a qualche anno fa la posizione del governo fosse improntata a un certo lassismo, Capitano, ma adesso tutto è cambiato: a parte le controversie interne con il partito del Grande Mullah, il fatto che non sia mai tornato indietro nessuno, ha inciso parecchio sulle attuali idee del governo a proposito delle missioni nella fortezza vecchia. Adesso si preoccupano soprattutto di tenere la faccenda più segreta possibile; la vecchia storia del cane che guarda l’aglio: non riescono a chiarire il perché delle apparizioni, ma non vogliono che ne venga a capo qualcun altro. Quello che può trovarsi dentro la fortezza vecchia fa gola a parecchia gente, lo sai bene. – Archimede appare saggio e meditabondo, e continua a tenersi rigido sulla sedia, lontano il più possibile dai bordi unti e nerastri del tavolino. Quanto alla sua tazza, ne beve il contenuto a fior di labbra, forse nel tentativo di sbarrare l’ingresso ai microbi.

    – Ma fammi il piacere! – dico cercando di scuoterlo (e poi il suo atteggiamento, alla lunga, rompe le scatole perfino a un uomo paziente come me). – Come vuoi che pretendano di mantenere segreta una storia che da cento anni è sulla bocca di tutti! E oltre tutto non so nemmeno cosa possa esserci di vero sulla leggenda dei segreti tecnologici nascosti nella fortezza vecchia. E se penetriamo all’interno, maledizione, è la nostra pelle che rischiamo, no?

    – Va bene, va bene, questo è vero, ma il partito del Grande Mullah sostiene che la fortezza vecchia è un monito di Allah grande, misericordioso e compassionevole. Un monito agli infedeli. E come tale deve essere considerato sacro quasi quanto la Pietra Nera. E sai che in questo momento il governo deve tener conto anche dell’opinione dei preti. Mentre mi sembra che tu, certo influenzato dalle tue opinioni blasfeme, non ne tenga conto abbastanza.

    – Senti un poco, scienziato, Archimede da strapazzo, delle mie opinioni rendo conto solo a me stesso, e se la faccenda non ti va, lo puoi anche dire chiaramente: mi cercherò un altro compagno. Non è difficile trovare qualcuno che abbia le tue caratteristiche. Gli scienziati si sprecano, oggi!

    E la mia tirata ha effetto, perché lui fa rapidamente marcia indietro: – Capitano non ti arrabbiare, scherzavo; vorrei solo essere sicuro che non sto gettando via il mio tempo per niente. Se passiamo due o tre mesi a organizzare tutto, tra l’altro con notevole dispendio finanziario, e poi ci proibiscono di tentare, è peggio, non credi?

    Al diavolo il suo finto e imbecille senso dell’umorismo (se poi ha scherzato davvero), le sue preoccupazioni fuori luogo e il suo desiderio di garanzie. Nessuno gli ha mai detto che la vita è una scommessa? Lui ignora che io, su questo progetto, ci ho impiegato molto di più di due o tre mesi. Ignora o finge di ignorare che ci incontriamo in questo cesso di locale perché il nostro affare non è poi così limpido come sembra credere lui. Ignora infine che per me la fortezza vecchia è il Sogno, l’Ossessione, o quell’accidente che è, proprio come per i dervisci e i disperati che stanno accampati lì davanti; cinque anni nel deserto, per riuscire a mettere da parte i soldi necessari.

    Cinque anni passati a calpestare sterco di cammello e sabbia bollente, e cercare di imbrogliare i mercanti di tappeti dell’interno, e di sfuggire ai predoni e alla polizia, e sotto ogni pietra piatti scorpioni immobili, gonfi di veleno.

    Io che ho bevuto latte acido di cammelle e mangiato pane e sabbia solo nella labile speranza di raggiungere la fortezza vecchia, sono il meno indicato a offrirgli certezze; ma se per impegnarsi ha bisogno di questo, bene: cercherò di convincerlo, dovessi mentirgli fino a domani. Anche se è da uno psichiatra che lo manderei.

    – No, Archimede – gli rispondo dunque con aria ragionevole – non credo che perderemo il nostro tempo, perché, male che vada, ce la filiamo all’interno della fortezza vecchia anche senza il permesso dei maledetti burocrati. Voglio proprio vedere se qualcuno viene a farci il processo là dentro! Per non dire che, quando poi ne usciremo, saremo considerati più sacri del profeta. Nella Sura centoquindici, detta del Maltese, nel settimo versetto sta scritto: Domanda e ti sarà risposto. E il nono versetto della Sura centosedici, detta del Capitano, dice anche: il vincitore ha sempre ragione.

    – Mmh… forse non hai tutti i torti… Ehi, non esistono le Sure di cui parli: i capitoli del Corano sono solo centoquattordici!

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