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Mondi Immondi
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E-book154 pagine2 ore

Mondi Immondi

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Info su questo ebook

In questo romanzo Andros mette in piedi una storia distopica, nella quale un protagonista significativamente senza nome si muove come un burattino, che passo dopo passo prende coscienza dei propri fili e di chi li tira.

Mondi sporchi quelli descritti nel libro, sporchi come le vite di alcuni dei personaggi, come le attività segrete che determinano quelle vite.

La parola "mondi" però può anche essere intesa come "puliti", per cui il titolo ha anche il senso di "puliti e sporchi." Chi sono però i puliti, e chi gli sporchi? Non è poi così facile capirlo, e per lo spazio-tempo non fa poi tutta questa differenza chi sia il buono e chi il cattivo, ed è proprio lo spazio-tempo la chiave del romanzo.

Lo spazio dei mondi e il tempo che dà loro una cadenza sono la struttura portante del libro, che si apre e si chiude proprio con dei riferimenti al tempo, nel quale tutto avviene e tutto viene dimenticato.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2018
ISBN9788827837641
Mondi Immondi

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    Anteprima del libro

    Mondi Immondi - Andros

    posto.

    Prefazione

    Romanzo dalla struttura atipica, e dal sapore orwelliano, che viene completato in pochi mesi, nel 1998. Si dipana in tre fasi: la prima descrive il mondo del protagonista, la seconda lo stravolgimento cui va incontro e la terza la fine del mondo, del suo mondo.

    In principio Andros lo intitola Altrimondi, come il nome dell'organizzazione citata nel libro, cui sembra nulla sfugga, e il romanzo manterrà questo titolo per vari anni.

    In queste pagine scritte e riscritte senza tregua, con un furore passionale, e in un tempo relativamente breve, l'autore mette in piedi una storia distopica, nella quale un protagonista significativamente senza nome si muove come un burattino, che passo dopo passo prende coscienza dei propri fili e di chi li tira.

    Questo è il primo romanzo di Andros, il primo libro da lui portato a termine, e ne approfitta per riversare sui personaggi dubbi e convinzioni, misti a frammenti di vita, ricordi, sogni e considerazioni che gli appartengono. È la prima è l'ultima volta che inserisce elementi smaccatamente autobiografici in un suo libro, seppure alterati e impastati nella finzione.

    Sue sono le vene dei polsi che il protagonista taglia nelle prime pagine del libro, suoi sono alcuni dei dolori descritti, sue sono le angosce esistenziali che punteggiano l'intera storia.

    Completato in un'estate come tante, calda e senza vacanze, Andros lo nasconde in un hard disk e non ne parla ad alcuno: scriverlo non è stato piacevole, e non riesce più a leggerlo per anni e anni. Ancora oggi, la lettura di alcuni passaggi lo mette a disagio e gli risveglia dolori sopiti. Quel romanzo, scritto a 32 anni, per lui rappresenta la fine di un'era, scrivendolo ne ha sancito la chiusura: da quel momento tutto cambia nella sua vita, e va incontro a una dozzina di anni di continui stravolgimenti.

    Il tempo passa, e tramite un giornalista rimasto affascinato da una sua mostra - Andros è anche e soprattutto scultore e pittore -, fa la conoscenza di un piccolo editore, un poeta albanese che vive a Milano da tanti anni e che ha deciso di intraprendere l'avventura dell'editoria tenendosi fuori dalle logiche mercenarie degli editori a pagamento.

    La casa editrice si chiama Albalibri, e l'editore, dopo aver letto alcuni suoi racconti, decide di pubblicarli: nel 2005 vede la luce la raccolta di racconti Sabba di paralleli, il primo degli otto libri pubblicati da Andros con vari editori.

    Al momento della firma del contratto, l'editore chiese ad Andros se avesse altri scritti, e lui, con una certa titubanza, ammise di aver scritto anche un romanzo. Dopo averlo letto, l'editore decise di pubblicare anche quello, ma Andros in principio non era convinto, non aveva intenzione di darlo alle stampe, soprattutto non voleva riaverlo davanti agli occhi, essere costretto a rileggerlo. Dopo vari ripensamenti, Andros infine si lasciò convincere, riprese il manoscritto, cui diede un'ulteriore limata, e l'anno successivo, il 2006, il romanzo fu stampato, con il titolo definitivo Mondi Immondi.

    Andros si rese conto che Altrimondi fosse un titolo ormai inflazionato, usato più volte per libri e fumetti, e pensò che Mondi Immondi fosse più adeguato. Mondi sporchi, certo, come quelli descritti nel libro, sporchi come le vite di alcuni dei personaggi, come le attività segrete che determinano quelle vite.

    La parola mondi però può anche essere intesa come puliti, per cui il titolo ha anche il senso di puliti e sporchi. Chi sono però i puliti, e chi gli sporchi? Non è poi così facile capirlo, i concetti sembrano quasi intercambiabili, come evidenziato anche dalla grafica della copertina, dove mondi è scritto in bianco su fondo nero, mentre immondi è scritto in nero su fondo bianco: a cosa dobbiamo dare maggior peso, al colore della scritta o a quello dello sfondo?

    Il protagonista sembra una figura positiva, forse l'unica, ma è proprio così? È quindi lui quello mondo, quello pulito? Come sempre, ogni lettore può stilare il proprio elenco di buoni e cattivi. Negli intenti dell'autore in realtà questo non è poi così importante, e nessuno dei personaggi è pensato per dare scampo, anche se alcuni di loro sono più vittime che carnefici. Per lo spazio-tempo non fa poi tutta questa differenza chi sia il buono e chi il cattivo, ed è proprio lo spazio-tempo la chiave del romanzo.

    Lo spazio dei mondi e il tempo che dà loro una cadenza sono la struttura portante del libro, che si apre e si chiude proprio con dei riferimenti al tempo, nel quale tutto avviene e tutto viene dimenticato.

    Vi lascio quindi alle pagine di questo romanzo, non facile e non confortante, privo di quella giugulare ironica che di solito fa da tappeto agli scritti di Andros, ma intenso e sincero, un'esplosione di riflessioni, le cui schegge vi rimarranno dentro a lungo.

    Leonardo Spalla

    Mondi Immondi

    di Andros

    PRIMA

    Un mondo

    Dal mondo dei pensieri…

    Il tempo è lì; è sempre lì.

    Attende.

    Aspetta il momento per dirti che sei finito, che non ti resta più aria da respirare, luce da vedere, suono da sentire.

    Tu sai che la briciola di tempo che ti è stata data per sfamarti finirà, lo sai ancor prima di saperlo, ma nessuno, in questo mondo o negli altri, potrà mai dirti quanto piccola è la tua briciola.

    Non ti resta che aspettare, anche tu come il tempo; attendere la tua personale fine del mondo, il tuo privato giorno del giudizio. Attimo dopo attimo, ora dopo ora, anno dopo anno.

    È questa la vita?

    Tutti così indaffarati, intenti a cercare di piacere agli altri, di essere normali; intenti a esercitare il proprio diritto di sentirsi parte dell’ingranaggio.

    Tutti alla ricerca del proprio posto, qualunque esso sia; tutti a inseguire una felicità stupida quanto irraggiungibile. Mai un dubbio, mai una domanda, mai una pausa, mai un pensiero fuori posto, mai un respiro profondo, mai una parola senza secondi fini, mai una decisione, mai una rinuncia, mai un occhio alle nuvole.

    Tutti sempre così maledettamente pieni di vita.

    Ne sono tanto pieni da non lasciarne per nessuno; si sono imbottiti, farciti di vita, anche di quella delle persone che stanno loro intorno, succhiandola come vampiri.

    Avidi di vita, tentano di comprimerla nel tempo per farcene entrare di più; ogni giorno dell’anno deve essere speciale, ogni ora del giorno memorabile, ogni minuto di un’ora pieno di cose da fare.

    Vite che si giocano nei secondi.

    In soli dieci anni vivono più esperienze di quante io ne possa attraversare in tutta una vita, ma riescono a ricordarne almeno una?

    La vita è come sabbia nelle mani: più stringi le dita più ti sfugge la vita.

    Dal mondo dei ricordi…

    Erano anni che ci pensavo. L’avevo già capito senza rendermene conto.

    Ricordo come li vedevo dall’alto del cornicione. Si agitavano e correvano come formiche impazzite; mi sembrava quasi di sentire le loro parole, i loro discorsi dall'apparenza così logica, così ragionevoli da risultare inutili.

    … questa città è diventata invivibile, e nessuno fa niente, nessuno si ribella! Ah, ma io alle prossime elezioni a votare non ci vado, non sono mica…

    … scemo! Non hai visto la freccia? Chi ti ha dato la patente? Ti dovrebbero rompere…

    … la testa! Un dolore fortissimo che parte da qui e mi prende tutta questa zona, da cosa può dipendere? Non sarà mica grave? Questo dolore ha proprio deciso di non…

    … mollarmi? No, non ci credo, non mi puoi lasciare! Se te ne va,i giuro che mi ammazzo, mi ammazzo! Non mi credi? Se mi lasci mi…

    … sparo una bella pera e chi se ne fotte! Tanto il mondo va avanti anche senza di me, non è vero?

    «Che cazzo fai sul cornicione?» strepitò mio fratello. «Ma ti sei proprio rincoglionito! Vieni qui, che siamo all’ottavo; hai deciso di morire?» In quel momento mi sembrò una domanda meritevole di risposta, ma non seppi cosa dire.

    «Sei pazzo! Non c’è altra spiegazione» continuò senza attendere la mia risposta. «Ma ti sembra possibile che debba sempre venirti a cercare sui tetti dei palazzi?»

    Così, mi fece scendere dal piedistallo e rientrare in quell’umanità così strana, eppure inquadrata, della quale speravo tanto di non far parte.

    Ero di nuovo tra loro; forse avrei cominciato a parlare come loro, ad agire come loro.

    Sarebbe stato insopportabile.

    Forse sarei riuscito a conservare la mia personalità, le mie idee, se solo fossi riuscito a mantenere le distanze, a non farmi coinvolgere. Era l’unica maniera.

    Avevo solo tredici anni, eppure già sentivo il peso dell’umanità; il peso di pochi miliardi di persone viventi, il peso degli incalcolabili miliardi di persone morte dal primo Sapiens Sapiens all’ultimo contemporaneo, il peso di dover far parte, mio malgrado, di quei pochi miliardi oggi, e di quegli incalcolabili miliardi domani, senza alcuna possibilità di sfuggire a questo destino.

    Destinato a eterna umanità!

    Dieci anni dopo sono al funerale di mio fratello. Overdose.

    È incredibile che proprio lui mi abbia chiesto: «Hai deciso di morire?»

    Lui lo ha fatto; e io, riuscirò ad amarmi a tal punto?

    Ciò che mi rende più triste è che, quel giorno, mentre osservo in silenzio murare il suo loculo, l’unica cosa che riesco a ricordare di lui è proprio quella volta in cui mi tirò giù da quel palazzo. Per me la sua vita, piena di cose che non saprò mai, si riduce a un episodio di mezz’ora.

    Eppure, se penso a chi muore solo e dimenticato, non lasciando altro che un nome e un cognome scritti su una carta d’identità consunta e corredata da una foto che non rende giustizia, capisco che trenta minuti non sono poi da buttar via.

    Di recente i lavori stavano arrivando con una frequenza che faceva intravedere una possibilità di sopravvivenza; un murale in quel negozio, un trompe-l’oeil in quella casa, un vetro dipinto in quella birreria, una decorazione su quell’auto, un ritratto di fidanzatini e altre briciole…

    Ricordo ancora i primi lavori, le prime fregature, il laboratorio aperto con pochi mezzi, l’avidità degli intermediari, l’incompetenza degli architetti, i clienti che non pagavano: mai!

    Quanto colore hanno visto i miei occhi, quante forme hanno dato le mie mani, quante esalazioni hanno inalato le mie narici, quanto inutile è stata la mia vita.

    Nel silenzio della mia solitudine continuavo a credere nell’arte, e a realizzare opere che forse nessuno avrebbe mai visto, sperando che un giorno il mondo si sarebbe accorto di me; ma il mondo lo facciamo noi, e quello che noi non accettiamo, il mondo lo ignora.

    Intanto, continuavo a prostituire le mie capacità al dubbio gusto di committenti occasionali.

    Non uno dei lavori da me realizzati mi soddisfa, non uno di quei lavori mi ha dato sensazioni diverse dalla noia e dalla nausea.

    Lavori fatti correndo, al massimo in una settimana, e della durata massima di un anno, perché tutto deve andare a tavoletta; tutto va digerito subito, assimilato male ed espulso, tutto va cambiato, rinnovato, al ritmo delle stagioni e delle mode, in un’atmosfera di bulimica insoddisfazione.

    Michelangelo impiegò quattro anni per realizzare gli affreschi della Cappella Sistina; oggi gli avrebbero concesso al massimo quattro giorni e al quarto anno già non ne sarebbe rimasta alcuna traccia: rimpiazzati da una astuzia concettuale, magari da un erigendo centro commerciale.

    Senza contare il tempo che gli avrebbe rapinato la burocrazia; per aprire una bottega, per le licenze, per la contabilità… file, attese, disagi e spese inenarrabili.

    Oggi per un genio sarebbe dura: forse per questo non ne nascono più?

    Dal mondo

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