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La contea dei ruotanti
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E-book133 pagine1 ora

La contea dei ruotanti

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Info su questo ebook

“Vi ricordate o no di come andavano le cose prima, fuori da queste mura?”.
In un’Italia prossima ventura, nel cuore della pianura padana, una cinta di antiche mura difende una singolare contea: la Contea dei Ruotanti. È stata fondata dopo la Grande Rivoluzione dei disabili. Tutti gli abitanti, infatti, vivono in carrozzina. Nessun “camminante” può accedervi. La vita di questa strana città, governata da regole ferree e avvolta in un clima irreale, viene messa in discussione da Francesca, incaricata di sorvegliareil prigioniero... La Contea dei Ruotanti è un romanzo che dà voce, in maniera sorprendente, al mondo dell’handicap.
Tra crude verità e un tocco di ironia, è destinato a scuotere la coscienza di questa nostra società in cui le barriere, fisiche e psicologiche, sono ancora troppe.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita11 feb 2015
ISBN9788863362756
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    Anteprima del libro

    La contea dei ruotanti - Franco Bomprezzi

    1. La prigione

    Dalla sua finestra si scorgeva sullo sfondo il viadotto della superstrada, con il suo fluire indistinto e metodico di macchine, pullman e tir. Un tiro di schioppo, si sarebbe detto nel buon tempo antico. E invece no, quel viadotto brulicante di vita normale era in un altro mondo, in un altro paese, in un’altra dimensione.

    Paolo spostò lo sguardo un po’ più indietro, come per scrollarsi di dosso quell’ansia di libertà che ogni volta lo attraversava e lo riempiva quando scrutava l’orizzonte più lontano. Era meglio tornare rapidamente alla realtà, per quanto dolorosa essa fosse. Un fossato, come nel medioevo, colmo d’acqua che scorreva pigramente creando qua e là piccoli gorghi. E, subito a ridosso, le alte, impervie mura della cittadella. Fino a qualche decennio prima, erano in stato di completo abbandono, quasi dei ruderi, che solo qualche associazione di temerari avrebbe voluto che fossero meglio tutelate. Adesso invece, dopo la rivoluzione, erano tornate a rifulgere, splendide, possenti, inquietanti.

    Paolo, dal suo piccolo osservatorio, ne vedeva un tratto abbastanza breve, non più di duecento metri.

    Era quello il confine, il limes, della Contea della Sacra Ruota. Una contea piccolissima, pochi ettari di territorio, ma inaccessibile e inattaccabile. Del resto, chi mai avrebbe voluto impelagarsi in un conflitto con questo insignificante staterello, uno dei cento sorti dopo la disintegrazione della Seconda Repubblica? Era poco più di un borgo murato, nel cuore della Bassa padana. Un’enclave, insomma, che non dava soverchio fastidio ai Signori di Milano, padroni incontrastati dalle Alpi fino al Po, eppure disposti a far sopravvivere queste piccole realtà indipendenti, proprio per dimostrare il loro federalismo autentico, nel solco della migliore tradizione degli antichi Comuni. E poi la verità era un’altra. La Contea della Sacra Ruota era preferibile, assai preferibile, che venisse lasciata a se stessa. Era un caso imbarazzante, strampalato, unico nel suo genere. Si sentivano strani racconti, al di fuori dei suoi confini, storie incredibili, di handicappati al potere, di carrozzine obbligatorie, di scale abolite ovunque. Era come un foruncolo, un bubbone pericoloso e inquietante. Meglio per tutti ignorarlo, cancellarlo dalle carte di regime, aggirarlo d’un balzo con le libere e veloci autostrade del Nord.

    Paolo, invece, ormai sapeva bene che cosa si celavadietro quelle mura impenetrabili. Emise un lungo sospiro. Osservò la ronda in sidecar elettrico che sfrecciava sul camminamento, apparendo e scomparendo fra le merlature, come in singoli fotogrammi di una sequenza a scatti ravvicinati. Nessuno poteva entrare a piedi, dentro quelle mura. E tantomeno uscirne. Paolo proseguì la sua passeggiata con gli occhi: sporgendosi un po’ dalla piccola finestra all’ottavo piano poteva scorgere le viuzze del centro di Sacra Ruota: ordinate e lisce, scorrevoli come biliardi, prive di marciapiedi, si congiungevano a raggiera nella piazza centrale, che da lì, però, si poteva solo intuire per simmetria. Ogni tanto una carrozzina elettrica rompeva il silenzio con il caratteristico ronzio. Qualche anziano, la povera gente, si muoveva invece a mano, spingendo, con ritmo dolente e cadenzato, le ruote di vecchi modelli di carrozzine riciclate della mutua, scolorite e rappezzate, ma ancora utilizzabili, in quei tempi di vacche magre.

    Paolo provò ad alzarsi dalla carrozzina sulla quale era costretto da qualche ora. Ma con il capo colpì subito il soffitto. Un rumore secco, immediato. Abituale. Ancora una volta se ne era dimenticato. Il soffitto era lì, a un metro e mezzo dal pavimento. Non c’era verso di alzarsi in piedi. Aveva provato in tutti i modi, naturalmente di nascosto, perché era severamente proibito camminare. Prima aveva cercato di muoversi carponi, con le ginocchia piegate, poggiando sui talloni, e raddrizzando almeno la schiena. Ma era una postura scomodissima, innaturale e terribilmente faticosa. Dopo pochi passi era costretto a rinunciare e a sedersi nuovamente in carrozzina. Poi aveva tentato di tenere le gambe diritte, o appena arcuate, e la schiena curva, piegata in avanti. Ma anche così l’incedere era goffo, impacciato, ai limiti del ridicolo. E poi la stanza era corta, oltre che bassa. Tanto valeva rassegnarsi, tornare in carrozzina, armeggiare con le pedane, sbloccare i freni, regolare l’altezza delle spondine e dei braccioli. Insomma: riabilitarsi.

    Paolo non era brutto, né deforme, almeno secondo i canoni di una volta. Anzi, alto un metro e novanta, biondo, con gli occhi azzurri, muscolatura guizzante ed elastica. A trent’anni poteva considerarsi un atleta nel pieno del vigore. Ma la sorte aveva voluto che cadesse in un’imboscata di Handicap Power, nel lungo inverno della rivolta dei Ruotanti. Lo catturarono con uno stratagemma astuto, attirandolo su una scala mobile ancora non smantellata dal Dipartimento Guerra alle Barriere Architettoniche. Paolo era una guardia di confine dei Signori di Milano. Ebbe la pessima idea di curiosare un po’ nella Contea della Sacra Ruota, infilandosi di nascosto in un pullman di non vedenti in visita ufficiale. Ma era stato scoperto subito. Si era tradito da sciocco: Attento al gradino, aveva gridato a un cieco allontanatosi dalla strada principale, e subito la Ronda carrozzata lo aveva circondato. Una breve fuga, e poi quel maledetto inganno, una scala mobile che sembrava l’unico posto inaccessibile ai carrozzati. Uno sporco trucco, ecco cos’era. Una volta messo piede sul primo gradino, quella scala, che pareva conducesse direttamente, attraverso un varco nelle mura, al fossato esterno, si trasformò per incanto in uno scivolo inclinato e viscido, un tapis roulant, che lo inghiottì, facendolo rotolare senza più appigli né ritegno, in fondo ad una botola, che si apriva su una specie di segreta, priva di porte e finestre.

    Così lo avevano gabbato. Quando si era ripreso dallo choc e dalla sorpresa, era ormai troppo tardi. La sua vita era cambiata. Era diventato il primo normodotato da riabilitare secondo le leggi magnifiche della Contea della Sacra Ruota. Era, insomma, un esperimento scientifico. D’importanza strategica per il regime.

    2. L’incontro

    Un ronzio. Un clic. La serratura elettronica si aprì. La porta scorrevole rientrò nella parete quel tanto da consentire a Francesca di entrare, azionando con la destra il joy-stick della carrozzina elettrica e impugnando nella sinistra l’addormentatore d’ordinanza, una specie di revolver caricato a siringhe di anestetico. Paolo assunse subito l’aria del martire, del prigioniero politico. Zigomi induriti, braccia conserte, finse di ignorare il suo arrivo, volgendo nuovamente il capo verso la finestra.

    - Come va questa mattina, abbiamo fatto la ginnastica respiratoria? - chiese Francesca fermandosi in mezzo alla stanza e azionando, con il telecomando incastonato sul bracciolo, il dispositivo di chiusura della porta.

    Paolo si voltò con studiata lentezza, facendo attenzione a non tradire alcuna vibrazione. Eppure la ragazza lo aveva turbato fin dal primo incontro. Bionda, esile, ma slanciata, sedeva in carrozzina come un’indossatrice. Con naturalezza accavallava le splendide gambe affusolate, come se da un momento all’altro avesse potutosciogliersi da quella posizione che faceva intravedere due cosce perfettamente tornite, e appena coperte da una gonna incredibilmente corta, per avviare un movimento capace di portarla, in un istante, a balzare in piedi. E invece Francesca non fingeva. Per accavallare le gambe doveva aiutarsi ogni volta con le braccia, infilando la mano sinistra con svelta noncuranza nell’incavo del ginocchio destro. Un gesto automatico, femminile, studiato e ripetuto all’infinito, ma pur sempre un gesto artefatto, costruito nel cervello per dare una parvenza di vita e di movimento a due gambe che non rispondevano più ai comandi neurologici da quando un incidente, sulla Libera Autostrada del Lombardo-Veneto, le aveva spezzato la spina dorsale, dieci anni prima.

    Paraplegica, era stata la sentenza, l’etichetta dei medici. No, sirena per sempre, aveva deciso lei, ancora adolescente, aggrappata alla vita con la forza dei suoi tredici anni che nessun trauma avrebbe potuto recidere. E adesso era lì, guardiana scelta della Contea, a controllare la riabilitazione di Paolo, il ragazzo dagli occhi azzurri e dal sorriso di ghiaccio, che non voleva saperne di non camminare più. Era già un mese che lei, ogni mattina, entrava nella stanza cercando di mantenere un’aria professionale e severa. Quella insomma che si addice a un carceriere, sia pure in un carcere modello.

    - Allora. Ti ho fatto una domanda - ripeté Francesca.

    - Ginnastica respiratoria? Ma è ridicolo. Non sono mica malato - sussurrò Paolo.

    - Ti sbagli, non hai capito. Certo che non sei malato. Sei semplicemente seduto tutto il giorno in carrozzina. E allora ti devi abituare. Devi comprendere che dieci minuti di respirazione al mattino sono indispensabili per assicurare al tuo organismo la giusta irrorazione e per mantenere una adeguata ventilazione dei polmoni e delle vie aeree - ripeté meccanicamente Francesca, consapevole dell’assurdità di una lezioncina mandata a memoria, surreale e ridicola in un caso come questo.

    - Ma insomma, basterebbe che voi mi lasciaste uscire di qui con le mie gambe. Non ne posso più. Che cosa vi ho fatto? Che cosa vuoi da me? Perché non mi lasci in pace? -. Paolo era teso, pallido. Non voleva ferire Francesca. Capiva che lei stava solo compiendo il suo dovere. L’avevano istruita a puntino. Anche se lui non riusciva ancora a capire il senso di un’insistenza così maniacale e assurda. Congiunse le mani e intrecciò le dita. Poi guardò Francesca, cercando di assumere un’espressione amichevole.

    - Insomma! Si può sapere perché fate tutto questo? - sospirò.

    Francesca tacque. Non resse lo sguardo. Cercò dentro di sé l’energia per rispondere in modo appropriato. Anche se avrebbe voluto confessare che non approvava del tutto questa barbarie. Poi inspirò profondamente, si ravviò i capelli che le erano scivolati sulla fronte, piegò leggermente il capo.

    - Paolo, sai benissimo perché sei qui. Noi siamo convinti che l’unico modo per evitare che in futuro si ripetano discriminazioni fra sani e handicappati

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