Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Com'era il futuro
Com'era il futuro
Com'era il futuro
E-book392 pagine5 ore

Com'era il futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fantascienza - saggio (344 pagine) - Una storia della fantascienza nell'autobiografia di un protagonista assoluto del genere


Dagli Anni venti e le prime riviste di fantascienza create da Hugo Gernsback, dai primi gruppi di appassionati, dai primi scrittori che sopravvivevano scrivendo per uno o due centesimi a parola, fino al boom del genere negli anni sessanta e settanta. Passando per l'era di Campbell, la rivoluzione di Astounding, le convention e le worldcon. E passando per la Grande Depressione, l'attivismo comunista, la Seconda Guerra mondiale. La storia personale di un grande protagonista del genere lettarario più affascinante, che diventa la storia del genere stesso e della nazione in cui fiorisce, gli Stati Uniti. Una storia narrata con ironia, arguzia, curiosità, visione, prospettiva, come solo un grande scrittore come Frederik Pohl poteva raccontarla.

In questo libro scoprirete:

• com’era Isaac Asimov a 19 anni

• la verità sulla grande guerra della Worldcon di New York del 1939

• come una ragazzino imberbe scosse il mondo delle riviste pulp

• gli strani riti di accoppiamento delle comunità della fantascienza

• come diventare agente di tutti i migliori autori e andare lo stesso in bancarotta

"C'era una volta un mondo fatato di cui nessuno sapeva nulla, a parte noi. Frederik Pohl lo ha ricreato perché tutti lo possano conoscere" – Isaac Asimov

"Frederik Pohl si dimostra ancora una volta un grande narratore, con una superba autobiografia che diventa una bellissima storia da leggere" – Frank Herbert

"Chiunque si interessi di fantascienza troverà questo libro affascinante. È uno strano miscuglio di umiltà e orgoglio, con lampi di umorismo. Un appassionante ma sincera ode alla fantascienza scritta dall'uomo che ne è stato il cuore pulsante per tantissimi anni” – Clifford Simak

“Non riuscivo a interrompere la lettura! Fred Pohl ha trasformato la sua storia personale in un libro stupendo. Non solo una narrazione vivida e personale, ma un confortevole umorismo e talvolta una tagliente franchezza, che rivela anche un po' della nostra storia culturale” – Jack Williamson


Acclamato scrittore, pluripremiato curatore di riviste fin da ragazzo, fan, antologista, potentissimo agente letterario: Frederik Pohl (1919-2013) ha attraversato il mondo della fantascienza attraverso tutte le strade possibili, sempre da protagonista. Non sempre con successo economico, anzi, ma sempre apprezzato e ammirato, capace di dare una spinta propulsiva per decenni al genere di cui era appassionato. Autore di grandi romanzi come La porta dell'infinitoUomo piùJem, spesso in collaborazione con altri autori come Cyril M. Kornbluth (I mercanti dello spazio e Gladiatore in legge), Jack Williamson (Le scogliere dello spazio), Arthur C. Clarke (L’ultimo teorema), ha vinto sette premi Hugo (tre come curatore di If, tre per opere letterarie e uno nel 2010 per il suo blog), due Nebula, due John W. Campbell Memorial, un National Book Award; è stato incluso nella Hall of Fame della fantascienza e insignito del titolo di Grand Master nel 1993.

LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2021
ISBN9788825414196
Com'era il futuro
Autore

Frederik Pohl

Frederik Pohl (1919-2013) was one of science fiction's most important authors. Among his many novels are Gateway, which won the John W. Campbell Memorial Award, the Hugo Award, the Locus SF Award, and the Nebula Award, Beyond the Blue Event Horizon, which was a finalist for the Hugo and Nebula Awards, and Jem, which won the 1980 National Book Award in Science Fiction. He also collaborated on classic science fiction novels including The Space Merchants with Cyril M. Kornbluth. Pohl was an award-winning editor of Galaxy and If, a book editor at Bantam, and served as president of the Science Fiction Writers of America. He was named a Grand Master of Science Fiction by SFWA in 1993, and was inducted into the Science Fiction and Fantasy Hall of Fame.

Correlato a Com'era il futuro

Ebook correlati

Critica letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Com'era il futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Com'era il futuro - Frederik Pohl

    1993.

    Prefazione

    Silvio Sosio

    Non ho mai conosciuto Frederik Pohl di persona. Io, che ho partecipato a decine di convention e a quasi tutte quelle italiane, mi sono perso proprio l’unica alla quale aveva partecipato Pohl, quella del 1989 a San Marino. Tuttavia qualche anno più tardi entrai in corrispondenza con lui.

    Nel 2009 stavo facendo un’inchiesta per Robot sull’abusatissimo tema della morte della fantascienza, e gli chiesi via email un commento. Ecco cosa mi rispose: Penso che sia un concetto sbagliato. L’aspetto migliore della fantascienza è la sua capacità di darci degli scorci del futuro, possibili eventi o sviluppi futuri, e abbiamo assolutamente bisogno di pensare a queste cose.

    Leggevo il suo blog, intitolato quasi come questo libro (The Way the Future Blogs) e trovavo meraviglioso il modo in cui raccontava della sua storia nel mondo della fantascienza, e gli scrissi per chiedergli se avessi potuto pubblicarne qualche estratto sulla rivista Robot. Pohl ne fu entusiasta e apprezzò l’idea di potersi leggere in italiano, per fare un po’ di esercizio nella nostra lingua. Che conosceva piuttosto bene, avendo fatto la guerra in Italia; ogni tanto mi scriveva pezzi di email in italiano.¹

    Poi, nel 2013, Pohl morì, e la conversazione ebbe termine. Ma sono felice si averlo potuto conoscere almeno via lettera. Tra tutti i personaggi del mondo della fantascienza Frederik Pohl è in assoluto quello al quale mi sento più vicino, quello dal quale mi sono sempre sentito più ispirato.

    Come lui ho sempre vissuto il mondo della fantascienza come una parte importante, avvolgente della vita, come lui l’ho vissuto in tante forme, come scrittore (campo che ho abbandonato quasi subito, per fortuna), come fan, come giornalista, come curatore di rivista, come editore. L’unica differenza tra me e lui è che quello che ha fatto Pohl ha scritto la storia: è stato il fondatore di un club di fan ragazzini che annoverava alcuni dei futuri più grandi autori del genere, è stato tra gli ideatori della Worldcon, è stato uno degli scrittori più grandi e innovativi, è stato direttore di Galaxy, quando questa rivista era il fronte avanzato della fantascienza. Come agente è stato testimone e protagonista nel passaggio del genere dalle riviste all’editoria libraria. Togliete Frederik Pohl dall’equazione, e della storia della fantascienza non resterà molto.

    Questo libro racconta, dal vero e proprio cuore delle cose, la storia di mezzo secolo di fantascienza. Ma racconta anche tanto altro. Racconta gli Stati Uniti in una luce che forse molti non immaginano. Racconta di quando un ragazzino dodicenne poteva andarsene in giro per New York senza correre alcun pericolo, racconta di quando la Lega dei giovani comunisti – sì, comunisti, negli Stati Uniti – contava centinaia di migliaia di membri, racconta di quando artisti di ogni genere, magari poi diventati famosi, si riunivano nella casa-scantinato di Pohl a bere, suonare e chiacchierare. Racconta di un’epoca più dura per tanti versi ma anche più semplice; un’epoca raccontata anche da Jack Vance nell’altra biografia che abbiamo pubblicato, Ciao, sono Jack Vance!, che descrive più o meno gli stessi anni partendo dall’altra costa, quella californiana.

    La storia di un uomo, la storia di un genere letterario, la storia di un paese, tre trame intrecciate tenute insieme dal filo dell’ironia, dell’intelligenza, della curiosità, della voglia di rischiare sempre pur di fare qualcosa di nuovo e di bello.

    Non siamo sicuri che oggi sarebbe possibile avere altri personaggi come Frederik Pohl. Forse no, forse il mondo non è più abbastanza semplice e non è più possibile affrontarlo in modo così eclettico; occorre focalizzarsi, concentrare le energie su un obiettivo per riuscire a combinare qualcosa. Ma dell’ispirazione ci sarà sempre bisogno, e questo libro ne è una fonte inesauribile.

    Per questo riteniamo che sia un testo prezioso che era importante proporre, anche se a più di quarant’anni dalla sua uscita, anche al pubblico italiano. Speriamo lo apprezzerete come lo abbiamo apprezzato noi.


    ¹. Gli articoli usciti furono purtroppo solo tre: Io, Judith Merrill e i fantastici Anni cinquanta, Robot 67, inverno 2012; Cyril, Robot 68, primavera 2013; La mia migliore worldcon, Robot 69, estate 2013. Nel 2013 Pohl morì e avendo un contratto sulla parola non ritenni di andare avanti.

    Per Carol,

    che ne ha condiviso tanto,

    e lo ha reso tanto migliore.

    1.

    Com’era all’inizio

    La prima volta che incontrai la fantascienza, presidente degli Stati Uniti era Herbert Hoover, un uomo grassoccio e perplesso, che non capì mai del tutto cosa fosse andato storto. Io avevo dieci anni. Neanch’io sapevo cosa fosse andato storto.

    Un ragazzo di dieci anni non è privo di intelligenza. Secondo me, allora ero aperto all’istruzione e alla percezione come in tutta la mia vita. Quel che mi mancava era la conoscenza. Stava succedendo qualcosa di male nel mondo? Non avevo modo di saperlo. Era l’unico mondo in cui avessi mai vissuto. Sapevo che traslocavamo molto. Sospettavo fosse perché non riuscivamo a pagare l’affitto, ma non era una novità nella mia vita di decenne. Mio padre era sempre stato uno che correva rischi. C’erano volte in cui vivevamo in suite di alberghi di lusso, e altre in cui non vivevamo da nessuna parte, almeno non come famiglia. Mio padre era da una parte, mia madre da un’altra, e io con qualche parente finché non riuscivano a rimettersi insieme. Quell’anno il gioco si chiamava Grande Depressione, ma io non sapevo di essere un giocatore. E a un certo punto, in quel 1930, mi imbattei in una rivista chiamata Science Wonder Stories Quarterly, con l’immagine di un mostro verde e scaglioso sulla copertina. La aprii. L’incurabile virus mi entrò nelle vene.

    Certo, non è proprio vero che non esiste cura per l’assuefazione da fantascienza, perché ogni anno ci sono migliaia di remissioni spontanee. Di tanto in tanto mi chiedo come mai un certo numero di ragazzi scopre la fantascienza, alcuni la abbandonano dopo un anno, altri conservano per sempre un interesse occasionale, mentre pochi, come me, ne fanno un modo di vivere. Immagino siano necessari sia il seme che il terreno. Damon Knight dice che, da bambini, tutti noi scrittori di fantascienza eravamo rospi. Non andavamo d’accordo con i nostri coetanei. Non avevamo amici stretti, perciò eravamo lasciati alle nostre risorse interiori. Una spiegazione più caritatevole potrebbe essere che gran parte dei lettori di fantascienza erano ragazzi precoci che trovavano scarsa gratificazione dal chiacchiericcio dei preadolescenti compagni di scuola, e cercavano nella stampa una compagnia più stimolante. Comunque fosse, Damon era stato preso all’amo, e anch’io, e anche altre dieci o ventimila persone in tutto il mondo, che compongono la grande famiglia collettiva chiamata fantascienza.

    Però nego di essere stato un rospo.

    In effetti, ero un decenne-dodicenne di bell’aspetto. Ho le foto per dimostrarlo. I miei riflessi erano a posto, e negli sport me la sarei potuta cavare. A baseball non ero granché, ma dai dieci anni in poi nuotavo bene e avevo buona mira. Non passavo, questo è vero, molto tempo con i miei coetanei. Persi quattro anni all’inizio della carriera scolastica, in parte per i traslochi, in parte per ostinazione materna. Ogni volta che andavo a scuola, mi ammalavo. Non solo il naso che cola o la febbre del lunedì mattina, ma forme galoppanti di tutte le malattie infantili. La legge diceva che a una certa età dovevo andare a scuola e così, obbedienti, i miei genitori mi mandavano a scuola; mi veniva la tosse convulsa e passavo un mese a letto. Mi ci rispedivano, e mi riammalavo di un’altra cosa; mi facevano tornare, e rincasavo con la scarlattina. Negli anni Venti, non era cosa da niente. Significava un segnale di quarantena dell’Ufficio di Igiene sulla porta, e tutte le mie proprietà cotte al forno per due ore, e a me non restava altro, per settimane e settimane, di starmene a letto sperando di avere qualcosa da fare. Beh, qualcosa da fare l’avevo. Leggevo. Non ricordo un momento in cui non sapessi leggere, e i Bobbsey Twins e Peewee Harris mi davano soddisfazione quando non potevo uscire a pattinare.

    Dopo che mia madre giunse alla conclusione che il sistema della pubblica istruzione di New York City intendeva uccidere il suo unico figlio con le sue malattie, mi tenne del tutto lontano dalla scuola. Che traslocassimo così spesso era di aiuto. Anche così, di tanto in tanto un addetto alla dispersione scolastica veniva a lamentarsi. Lei lo informava di essere un’insegnante pienamente abilitata, laureata al Lehigh State Teachers College e perfettamente in grado di curare l’educazione del figlio a casa. Forse era vero. Non ricordo lezioni, solo libri in quantità infinite. Ma non è un cattivo modo di farsi un’istruzione.

    Quando fui intorno agli otto anni, finalmente il mondo si mise al nostro passo, e cominciai ad andare a scuola. Ci furono pochi problemi a trovarmi un posto. Come età, sarei dovuto essere una classe o due più indietro. In termini di apprendimento infantile, ero tutt’altro che a livello di scuola materna; quando il preside mi chiese di scrivere il mio nome, sorrisi dolcemente e dissi: Lo scrivo in stampatello (non ci sono lezioni di calligrafia in Huckleberry Finn). Ma nella lettura e nella conoscenza generale del mondo, ero all’altezza dei ragazzi grandi, e il compromesso fu la quarta.² Non era così male. Nella mia carriera alla scuola elementare l’unica obiezione è che non ricordo di avere imparato niente.

    Quanto a mio padre, era un uomo che viaggiava. Intorno ai ventidue anni, faceva il rappresentante di macchine industriali, e uno dei suoi clienti erano le acciaierie Flegenheimer, vicino Allentown, Pennsylvania. Lì lavorava come segretaria mia madre, una ragazza irlandese dai capelli rossi, un anno o due più grande di lui. Si sposarono nel 1917. L’anno seguente mio padre fu arruolato. Trascorse qualche settimana di addestramento di base, preparandosi ad andare in Francia per ammazzare il Kaiser e porre fine alla Prima Guerra Mondiale, ma l’Armistizio giunse prima che fosse il suo turno. Ne uscì senza essere mai andato oltremare. Io nacqui nel 1919, il 26 novembre. La settimana seguente mio padre partì per il Canale di Panama, dove c’era un lavoro in attesa. Io e mia madre lo seguimmo, e passai in mare il mio primo Natale.

    Mi dicono che la Zona del Canale non era un brutto posto – purché, naturalmente, si fosse americani, occupati e bianchi. Avevamo dei servitori, compresa un’enorme signora nera il cui unico compito era prendersi cura di me. Ma non ci fermammo. Mio padre passò la vita convinto che esisteva qualcosa di meglio di ciò che aveva, se solo l’avesse trovato. Nel successivo paio d’anni lo inseguimmo in posti come Texas, New Mexico e California. Quando ebbi l’età sufficiente a capire dove fossi, eravamo tornati a Brooklyn. E lì restammo, in un quartiere o l’altro, per tutta la mia infanzia.

    Depressione o no, Brooklyn era un posto caldo e accogliente. C’era molto da fare, e poco da temere. Ricordo qualche momento duro – scazzottate a scuola, una o due volte un tentativo di avance di qualche gay dall’aria triste e predatoria, o un paio di casi di ragazzi più grandi con qualche scherzo che andava troppo in là. Ma niente che mi impaurisse. Quel che ricordo meglio sono piaceri. I dolcetti a peso e, il sabato, le matinées al cinema. La domenica, le gite in macchina da mia nonna a Broad Channel, una casupola pacchiana che il vecchio Ernst Pohl aveva costruito con le sue mani su terra bonificata, con pesciolini visibili dalle passeggiate di tavole che portavano alle case estive su palafitte. A quattro o cinque isolati da casa mia, paludi erbose dove ti ci potevi perdere. Il campo estivo a Fire Place Lodge, dove imparai ad andare a cavallo e in canoa, e a colpire quanto avevo nel mirino di una .22. Un paio di volte l’anno, prendevamo la Lehigh Railroad per far visita alla famiglia di mia madre ad Allentown. Ricordo soltanto le etichette dei personaggi: la zia dell’anno bisestile, che aveva meno compleanni di me perché era nata il 29 febbraio, lo zio che beveva (ricordo la mia minuscola madre togliere di mano una bottiglia dal fratello, alto quasi due metri, e svuotarla nel lavandino), il cugino che suonava il violino.

    Un ragazzo di dieci anni è una pellicola non sviluppata. Assorbivo tutti gli input che mi cadevano addosso senza condividerli. Piuttosto presto ebbi la percezione di essere un lettore, a differenza di gran parte della gente con cui ero in contatto. Era una barriera. Ciò di cui volevano parlare era quel che avevano mangiato, toccato o fatto. Ciò di cui volevo parlare io era quel che avevo letto.

    Quando, in modo crescente, prese forma che i miei pensieri e letture erano di fantascienza, la barriera crebbe. Non voglio dare l’impressione che leggessi soltanto fantascienza. Potendo, forse l’avrei fatto, ma non ce n’era abbastanza da soddisfare i miei bisogni. Con la fortuna di aver imparato a leggere molto prima di entrare in una scuola, e dunque senza associare lettura e noia, leggevo con agio e rapidità; e se non capivo tutte le parole, di solito capivo la direzione, fiducioso che presto o tardi le parole si sarebbero combinate in un contesto. Un motivo per questo gusto ecumenico era che avevo pochissimo controllo su cosa fosse disponibile. A dieci anni, non avevo raggiunto la sofisticazione di chi si compra da solo i libri, e non ero iscritto a una biblioteca; prendevo quel che capitava a casa o potevo prendere in prestito dagli amici. Quel primo numero di Science Wonder fu il paradiso, ma non mi rendevo conto che una rivista implicava che c’erano altri numeri da trovare. Quando mi imbattei in un’altra rivista di fantascienza, qualche mese dopo, fu come il Natale. Era una vecchia copia di Amazing Stories Annual, provenienza ignota. Dati due esempi, riuscii finalmente a dedurre la probabilità che ne esistessero altri, e il concetto generale di rivista di fantascienza divenne parte della mia vita.

    Quell’Amazing Stories Annual conteneva il testo completo di The Master Mind of Mars di Edgar Rice Burroughs, tutto principesse dalla pelle rossa, scienziati pazzi ed enormi scimmie parlanti bianche con quattro braccia. Ci sbavavo sopra. La copertina mi rese suo schiavo prima ancora di voltare la prima pagina: il disegno rosso fuoco di Ras Thavas, il vecchio folle trapiantatore di organi di Barsoom, chino sulla dolce forma morta di una bella fanciulla marziana nella quale si proponeva di trapiantare il cervello di qualche ricca vecchia megera. Non vedevo l’ora di leggerlo; dopo averlo letto, lo rilessi subito; avendolo quasi imparato a memoria, raggiunsi la saggezza di mettermi in cerca di altro. Lo trovai. Trovai negozi con arretrati di riviste dove potevo pescare numeri di Amazing del 1927 e di Astounding del 1930 per cinque o dieci centesimi l’uno, che persino il mio budget di decenne poteva permettersi. Trovai negozi di seconda mano, in gran quantità, e scoprii che avevano libri di fantascienza: tutto il resto dell’opera di Burroughs, originalmente pubblicati in edizioni Grosset & Dunlap a un dollaro e adesso disponibili, con danni minimi, anche a dieci centesimi. Fu quasi un colpo scoprire che Burroughs aveva scritto libri su cose diverse dal pianeta Barsoom. Come esperimento, provai Tarzan e non mi piacque molto – per me non c’era abbastanza meraviglia in grandi scimmie parlanti – ma c’era un’altra mezza dozzina di libri su Marte, più i libri su Venere, Pellucidar e la Luna. Tutti questi interessanti luoghi sembravano avere civiltà native, ragionevolmente organizzate, con belle principesse da conquistare e importanti gesta di valore da compiere; in più, avevano invenzioni utili ed eccitanti, come fucili al radio e aeronavi propulse dai segreti raggi del sole. Intorno a quel momento ottenni la mia prima tessera di una biblioteca pubblica. Per quanto ghettizzato senza appello nella sezione per bambini, scoprii tonnellate di Jules Verne e una spruzzata di H.G. Wells. Verne era pane e burro, sufficiente almeno per la sopravvivenza; Wells era puro piacere. E adesso che le mie antenne erano sensibili, scoprii libri per bambini che mostravano le stesse stigmate: Carl Cloudy, Roy Rockwood, perfino Tom Swift, per quanto miseramente annacquato e fuori moda.

    Mio zio Bill Mason si dimostrò un Re Mida. Era lo zio con la ferita di guerra, colpito dal gas in Argonne nella Prima Guerra Mondiale, che si sbatteva per guadagnarsi da vivere con la pensione di invalidità, con qualche lavoro occasionale come riparatore di orologi e ciò che riusciva a coltivare in un acro di terreno come fittavolo a Harlem, Pennsylvania. Qualche volta, d’estate, mi prendeva dalle mani dei miei genitori, non tanto per offrirmi una vacanza quanto per allontanarmi dalla paura della polio che movimentava gran parte delle estati in città nell’era pre-Salk. A me piaceva andare alla sua fattoria. Potevamo nuotare dietro la diga in un piccolo torrente, cercare il ginseng nel bosco, organizzare gare di testate con i vitellini del vicino. Qualche volta mi era persino concesso di sparare con il fucile di famiglia.

    Non ero di grande utilità nei campi, ma non lo erano neanche i miei due cugini. Tutti e tre mettevamo molto più sforzo nel tentativo di evitare, piuttosto che compiere, il lavoro. Se messi in trappola, potevamo dar da mangiare alle galline e raccogliere le uova. Potevamo potare un piccolo cespuglio e scrollare i grilli dai rampicanti. Il più possibile, quel che facevamo era nasconderci.

    Dopo un po’ di ricerca, trovai il nascondiglio perfetto nella soffitta della casa. Mio nonno viveva nella stessa proprietà, e si coltivava il tabacco. La soffitta era dove lo essiccava, e c’era l’odore del tabacco che maturava, e un calore dall’aroma acido-salato. Ma non era quella la cosa meravigliosa. La cosa davvero meravigliosa era che in un angolo della soffitta c’era un tesoro di vecchie riviste pulp, a centinaia.

    Solo alcune erano riviste di fantascienza. Un bel po’ erano western, o cose strane come storie di sottomarini e riviste sportive, ma molte erano oro. Qualcuno era stato un grande fan della vecchia Argosy di Frank Munsey, allora un pulp settimanale al prezzo di dieci centesimi, ciascun numero pieno di mezza dozzina di racconti e puntate di quattro serial diversi. E che serial! Romanzi di Borden Chase sugli scavatori dello Holland Tunnel. Avventure in otto puntate nella Grecia o nella Roma antica. Non sapevo niente di storia, ma riconoscevo una buona storia quando la leggevo, e quei racconti risvegliarono il mio interesse per le epoche classiche come niente aveva fatto a scuola (non ho dubbi di dovere a quel vecchi romanzi pulp il fatto di essere la fonte dell’Encyclopedia Britannica sull’imperatore romano Tiberio). Gesta temerarie in fattorie collettive sovietiche e acciaierie americane. Avventure mediche con il Dr. Kildare. Esplorazioni di ogni angolo della Terra. Lo stile letterario era perentorio, e a ogni pagina qualcuno riceveva un colpo in testa, ma erano grandiosi. E fra di loro, saltuariamente, c’era una pura vena di fantascienza. In quella soffitta, sotto la grondaia, a quaranta gradi di temperatura, lessi The Moon Pool di A. Merritt, e Ray Cummings e Olaf Stapledon, e mi fermavo solo quando qualcuno mi trascinava via. O quando calava il sole. La casa non aveva elettricità né acqua corrente, e dopo il buio le opzioni erano limitate. Potevi star seduto in cucina, con la lampada a kerosene, e ascoltare Whisperin’ Jack Smith dalla radio a batterie. O potevi andare a letto.

    Così in due anni, dai dieci ai dodici, riuscii a leggere ogni brandello di fantascienza di cui sapevo l’esistenza: ogni arretrato di Amazing, Wonder e Astounding, quasi tutta Weird Tales, tutti i libri che riuscivo a trovare nei negozi di seconda mano, in casa di amici e nella sezione per bambini della biblioteca; tutto. Avevo la testa scoppiettante di astronavi, ragazze alate e mantelli dell’invisibilità, e non avevo nessuno con cui condividerli.

    Quando avevo dieci anni, la casa in cui vivevo era al 2758 26° Strada Est, a Brooklyn.

    Qualche mese fa ho fatto una cosa nostalgica. Andavo in macchina all’Aeroporto Kennedy con un’auto a noleggio della Avis, per prendere un aereo, e avevo, sbalorditivamente, un’ora o due libere. Su un impulso, uscii dalla Belt Parkway a Sheepshead Bay, mi guardai intorno, e trovai proprio quella casa, vedendola per la prima volta dopo averla lasciata quarantacinque anni prima.

    Quando ci abitavamo, la casa era nello stile chiamato semidistaccato, ovvero condivideva da un lato un muro portante con la casa accanto. Non era più semidistaccata. La casa accanto era stata amputata, sacrificata per la costruzione della Belt, ma il 2758 c’era ancora, adesso una casa d’angolo, e dall’aspetto non molto vecchio.

    L’intero quartiere era molto cambiato. Quando i newyorkesi dicono così, significa generalmente che sono arrivati neri e ispanici. Non è così, ma adesso è tutto edificato. Nel 1930 no. Quasi tutto un lato del grande isolato era una vera e propria fattoria, dedita alla coltivazione di pomodori italiani. Una delle cose migliori da fare in una tarda sera d’estate era rubarli e mangiarli a manciate, freschi dalla pianta, caldi, impolverati con qualche residuo chimico indubbiamente nocivo sulla buccia, ma deliziosi come nessun altro pomodoro abbia mai assaporato.

    Pensai se bussare a quella porta e chiedere di dare un’occhiata. Ma non ho alcun ricordo di come fosse la casa all’interno. So quale stanza doveva essere la mia – sul retro, al secondo piano – perché ricordo che dalla finestra scrutavo la camera da letto della casa al di là del vialetto. Ma non so com’era la stanza.

    Oltre la casa scorgevo uno spazio vuoto dove una volta avevamo scoperto un bar clandestino. Al di là c’era un’altra casa semidistaccata abitata da una famiglia chiamata Abbot. Erano amici di famiglia da anni, prima che andassimo a vivere in quell’isolato, e restammo amici malgrado innumerevoli traslochi di entrambe le famiglie, finché non perdemmo i contatti durante la Seconda Guerra Mondiale. Griffith e Daisy Abbot erano di nascita britannica, e mantenevano legami con la madrepatria. Ogni settimana o due ricevevano nella posta pacchetti con Giornali da Casa, per lo più settimanali per bambini come Puck, primitivi fumetti a colori su Robin Hood e qualcuno chiamato Val e le sue avventure in giro per la campagna inglese in una carovana. Quando i cinque bambini Abbot se ne stancarono, li ereditai io e, nella mia maniera da decenne, ero confuso da quella strana lingua che sembrava inglese ma qualche volta no. In strada, giocavamo a Semaforo Verde e Re della Collina. Facevamo anche altri giochi. In uno di quei giochi decidemmo di impiccare qualcuno – presumo che il gioco fosse Guardie e Ladro di Cavalli, portato fino alla sua logica da matinee del sabato – e io ebbi il ruolo di protagonista. Mia madre scorse quanto stava succedendo dalla finestra della cucina, e venne di gran corsa proprio mentre il cappio si stringeva sul mio collo. Sull’altro lato di Sheepshead Bay, raggiungibile con un ponte pedonale in legno, c’era Oriental Point e una primitiva spiaggetta per bagnanti, probabilmente inquinata. Era una passeggiata di una mezz’oretta, e ci andavamo sempre ogni estate. Lì per la prima volta vidi un morto. Era un bel po’ maturo, annegato da due settimane e trascinato sulla spiaggia in attesa che qualcuno venisse a portarlo via; con la testa fra le nuvole, quasi gli inciampai sul petto. Puzzava. Sul nostro lato della baia, nella direzione di Queens e Long Island, non c’era molto fra casa nostra e il nuovo Floyd Bennett Field, tranne terreni bonificati e canneti. Era una meraviglia inoltrarsi lì in mezzo. Ti ci potevi perdere in un attimo, senza vedere niente di umano per un’ora. Ora sono tutti palazzoni di appartamenti, costruiti su Dio solo sa quali fondamenta.

    Era un bel posto. Ma i soldi finirono, e non potemmo più pagare l’affitto della casa. Nell’inverno del 1931 traslocammo in un minuscolo appartamento a Downtown Brooklyn.

    Le parole i soldi finirono, sullo sfondo del 1931, non si possono capire nel contesto degli anni Settanta.

    Quasi mezzo secolo dopo, i soldi non finiscono mai del tutto. Non intendo dire che non esistono più i poveri. Certo che esistono, e c’è abbastanza squallore e miseria da tenere rifornito un pianeta. Ma quando arrivano i guai, negli anni Settanta c’è un’opzione in più. Ti puoi arrendere. Prendi il sussidio di disoccupazione, o l’assistenza del welfare; se sei sfrattato, c’è qualche ufficio che ti trova un posto per vivere; se ti ammali, ci sono enti che ti pagano i conti medici. Nel 1931 non ti potevi arrendere, perché non c’era nessuno a cui consegnarti. Potevi trovare una mensa dei poveri per avere qualcosa da mangiare. Ma nessuno avrebbe tenuto insieme la famiglia, e nessuno ti avrebbe pagato l’affitto.

    Nella Grande Depressione, l’altra faccia della medaglia era che i padroni di casa si trovavano negli stessi guai. C’erano tanti appartamenti da affittare, ed era un mercato ideale per i compratori. Per convincerti a prendere il suo appartamento, il padrone di casa ti avrebbe dato i primi due mesi gratis; pagavi il terzo, e dopo il quarto traslocavi.

    O almeno così sembrò fare la mia famiglia, un anno in cui abitammo in quattro appartamenti diversi. Dopo la 26° Strada, il primo fu in un palazzone vicinissimo alla Grand Army Plaza, con stalle e appartamenti di lusso. Proseguimmo lungo Flatbush Avenue, qualche isolato alla volta, finendo in un appartamento ad acqua fredda³ a Dean Street, in fondo a Park Slope. Poi le cose cominciarono a migliorare, e in un anno circa eravamo tornati su, di nuovo in cima allo Slope.

    Perfino in quegli anni, al punto più basso della Grande Depressione, quella parte di Flatbush Avenue era una strada vivace e brulicante, segnata dai binari del tram e fiancheggiata da negozi di ogni tipo. I commercianti potevano aver problemi a pagare l’affitto, ma cercavano di apparire indaffarati. C’erano tre cinema in quel tratto di otto isolati, e raccontavano la storia della Depressione più chiaramente dei negozi. In cima alla collina, il Bunny Theater era aperto, ma non come cinema; era stato trasformato in un campo da minigolf al coperto. Ai piedi della collina, l’Atlantic aveva gli ingressi sprangati, in attesa di tempi migliori. L’unico funzionante era il Carlton, a metà strada, e non era granché prospero. Il martedì ti facevano entrare gratis se lasciavi una lattina di cibo in un bidone per dar da mangiare ai poveri del quartiere.

    Nessuno tra la gente che conoscevo di persona aveva niente a che fare con le file per il pane o i cestini per i poveri. Non erano poveri. Non si consideravano poveri, solo al verde. Nella guerra per sopravvivere erano inferiori in numero e circondati, ma non si erano arresi (non fosse altro che non c’era nessuno a cui arrendersi) e non erano stati, per ora, spazzati via. Fra i totalmente sconfitti, ne incontrai uno solo, e solamente da lontano.

    Lo sprangato Atlantic Theater era un bel posto per un dodicenne che volesse passare un’ora o due in un sabato ozioso, arrampicandosi sull’uscita antincendio, quattro piani di scale e pianerottoli in profilati di ferro. Dal pianerottolo in cima si poteva abbassare lo sguardo, come un dio, sulla gente che passeggiava per Flatbush Avenue. Ci andavo spesso. Ma un sabato, mentre salivo la scala, sentii che era cambiato qualcosa. Il pianerottolo in cima era pieno di cartoni. Sgattaiolai su per i gradini, silenzioso come ogni ragazzino all’inseguimento dello strano, e vidi che il pianerottolo era stato chiuso da cartoni appiattiti. Nella camera che si era costruito, seduto in terra, senza fare niente perché non aveva niente da fare, c’era un vecchio dai capelli bianchi.

    Quando dico i soldi finirono intendo proprio lui. Anche a dodici anni, riuscivo a capire la sua storia. Era solo, in bolletta, e senza un posto dove andare. Riusciva a racimolare un magro pasto facendo la fila per il pane ogni giorno, e aveva i vestiti che portava indosso, e questo era tutto. Vero, esistevano cose come gli alloggi municipali. Ma di uomini squattrinati, disperati, senza casa, ce n’erano proprio tanti, e così i munies erano pieni.

    Inosservato, ridiscesi in punta di piedi le scale per pensarci sopra. Per la prima volta in vita mia, fui mosso a carità. Presi delle uova dalla ghiacciaia, le preparai sode, le misi in una busta di carta, sgattaiolai di nuovo su per le scale, e gliele lasciai. Un giorno dopo tornai furtivamente e trovai un appunto che mi aveva lasciato, scritto a matita quasi illeggibile su un pezzo della busta: Dio-ti-benedica-sconosciuto-straniero, e Grazie.

    Un giorno o due dopo, il suo nido di cartoni era stato distrutto e portato via, e lui era scomparso.

    La cosa importante sul mio amico della scala antincendio era che ce n’erano tanti. Li vedevi dappertutto, migliaia e migliaia come lui, in ogni città del paese. Versioni più giovani spalavano la neve, in scarpe nere da cerimonia e doppiopetti da impiegato – gli unici vestiti che avevano, e l’unica cosa che avevano trovato da fare. Pregavano perché nevicasse. Un pollice di neve era un dollaro di spalatura. Lo vedevi nelle capanne improvvisate, di cartoni o latta, nei parchi e nei lotti vuoti, intere comunità di gente come lui. E lui potevi essere tu. Mio nonno sarebbe stato uno come lui se non ci fossero stati mia madre o mio zio a ospitarlo.

    Le comunità di senza casa venivano chiamate Hooverville, un onore che il nostro Presidente non amava e non aveva cercato. In effetti, quanto della Grande Depressione andava imputato a Hoover? Una volta cercai di rispondere a questa domanda, in un libro al quale lavorai per parecchi anni, decenni dopo.⁴ Non fu Hoover a piantare i semi, erano stati gettati durante il boom degli anni Venti, con acquisti a credito facili e truffe azionarie folli. Ma non aveva fatto niente per rispondere alla crisi. Herbert Hoover era un uomo perbene e capace, che si vantava di aver provveduto, gentile e paterno, ai bisognosi nell’Europa della Prima Guerra Mondiale, devastata dalle battaglie. Non riusciva a capire la necessità di fornire aiuto a gente che semplicemente era senza lavoro, e così la storia, e Franklin Delano Roosevelt, assegnò a lui la colpa di tutto.

    Qualche anno fa ero alla radio, al talk show notturno di Long John Nebel, e la conversazione virò sulla Depressione. Con

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1