Scrivere un romanzo: Creative Writing per principianti di talento
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Scrivere un romanzo - Creative writing per principianti di talento affronta tutte le problematiche che un autore neofita incontra durante la stesura della sua opera.
Dall'idea iniziale, alla costruzione dei personaggi, alla scelta dell’ambientazione, ai dialoghi, allo stile ogni tema è sviluppato attraverso le testimonianze e i suggerimenti di scrittori ed esperti.
Conclude il testo un "dizionarietto di narratologia, retorica e editoria".
Un manuale utile per affinare le tecniche di scrittura, ma anche per avvicinarsi ai temi della narrativa. Perché non si può pensare di diventare romanzieri se non si è anche lettori.
Massimo Moscati
Massimo Moscati, giornalista e sceneggiatore, ha scritto numerosi libri sul cinema fra i quali: Manuale di sceneggiatura (Mondadori), Ammazza che fusto (Rizzoli, scritto con Alberto Sordi), Il monumentale Grande dizionario dei film (Hobby&Work), Filmania-Enciclopedia multimediale del cinema (Expert System), Introduzione al cinema (Lattes), Benignaccio con te la vita è bella (Rizzoli-Bur) e il libro-intervista collettivo Bollicine di futuro (Rizzoli-Bur). Creatore della serie mondadoriana Nero italiano, ha pubblicato inoltre Guida al cinema dell'orrore (Il Formichiere), Western all’italiana (Pan), I predatori del sogno (Dedalo), James Bond-Missione successo (Dedalo), Breve storia del cinema (Bompiani). Di prossima uscita: Manuale di sceneggiatura e Totò ’50 (Bibliotheka).
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Anteprima del libro
Scrivere un romanzo - Massimo Moscati
Massimo Moscati
Scrivere un romanzo
Creative writing per principianti di talento
© Bibliotheka Edizioni
Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma
tel: (+39) 06. 4543 2424
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, aprile 2021
e-Isbn 9788869347085
Progetto grafico e disegno di copertina:
Riccardo Brozzolo
Massimo Moscati
Massimo Moscati è direttore editoriale di alcune riviste B2B di un’importante casa editrice milanese. Fra le varie esperienze, è stato script analyst per Reteitalia, come consulente di Carlo Bernasconi.
Creatore della serie mondadoriana Nero italiano, ha pubblicato – fra gli altri – Manuale di sceneggiatura (Mondadori), Benignaccio con te la vita è bella (Rizzoli), Ammazza che fusto con Alberto Sordi (Rizzoli), Breve storia del cinema (Bompiani). Con Western all’italiana (Pan), ha pubblicato la prima intervista a Sergio Leone, più volte citata e ripresa in Italia e all’estero.
In uscita il suo primo romanzo 1958 – C’era una volta in… Almeria (Golem)
Non si può pensare di diventare romanzieri se non si è anche lettori
Perché scrivere un romanzo?
Se ci pensate, trasformare un’idea in un romanzo è una vera e propria alchimia. Una sorta di pratica magica per trovare la pietra filosofale, che poi significa cercare di svelare tutti i segreti della vita e trasformare i metalli in oro.
Eppure, secondo Javier Marìas, forse il più grande romanziere spagnolo contemporaneo, ci sono sette motivi per non scrivere romanzi… e uno per scriverli. E questo perché è facile farsi sedurre dal fascino della scrittura. Marìas sostiene, nell’ordine, che: ci sono troppi romanzi e troppe persone che li scrivono (in pratica tutti possono scrivere, se lo desiderano); proprio perché la scrittura è alla portata di tutti è un’attività priva di merito e mistero (che però continua ad attrarre); scrivere romanzi non arricchisce e richiede un lungo, faticoso e antieconomico lavoro (l’opinione pubblica si fa troppo condizionare dai romanzieri da best-seller); il romanzo non è garanzia di fama, che è più facile ottenere intraprendendo altre professioni (per esempio, scrivendo poco ma frequentando i talk show televisivi); il romanzo non porta all’immortalità, soprattutto perché l’immortalità non esiste più (e tantomeno i posteri, visto che un romanzo dura al massimo una stagione per poi scomparire dagli scaffali delle librerie); scrivere romanzi non lusinga l’ego, a differenza di registi o musicisti che vedono immediatamente la reazione del pubblico alle loro opere (al massimo, lo scrittore può incontrare qualche lettore a un reading circle); senza farla troppo lunga ed esagerare, lo scrittore lavora in stato di isolamento (magari lottando con i fantasmi dell’aridità creativa).
Ma Marìas ha anche l’asso nella manica, l’unico vero motivo perché si scrive: "Scrivere romanzi consente al romanziere di trascorrere gran parte del suo tempo in un mondo immaginario, che è davvero unico o almeno il posto più sopportabile in cui trovarsi. Ciò significa che può vivere nel regno di ciò che avrebbe potuto essere e che non è mai esistito, e quindi nella terra di ciò che è ancora possibile, di ciò che accadrà sempre, di ciò che non è ancora stato scartato perché già accaduto o perché tutti sanno che non accadrà mai. Il cosiddetto romanziere realistico, che, quando scrive, rimane saldamente legato al mondo reale, ha confuso il suo ruolo con quello dello storico o del giornalista o del documentarista. Il vero romanziere non riflette la realtà, ma l’irrealtà, e non necessariamente l’improbabile o il fantastico, ma più semplicemente ciò che sarebbe potuto accadere o meno, indipendentemente da fatti o eventi o incidenti reali: esattamente il contrario di cosa sta succedendo adesso. Ciò che è semplicemente possibile continua ad essere possibile, eternamente possibile in ogni età e in qualsiasi luogo, motivo per cui leggiamo ancora Don Chisciotte e Madame Bovary, con i quali si può vivere per un po’ e crederci totalmente, senza ritenerli improbabili o demodé".
Perché, continua Marìas, l’unica Spagna del 1600 che conosciamo è quella di Cervantes, anche se non esiste e si presume che sia come è descritta nella pagina scritta. Secondo il romanziere, e così ci fornisce la sua vera risposta sul perché si scrive, sulla necessità di scrivere, la finzione (fiction) è il più sopportabile dei mondi, perché offre svago e consolazione a coloro che la praticano. Ma oltre a fornire un presente immaginario, offre anche una possibile idea di futuro. E, in qualche modo, quindi la possibilità per ogni scrittore di guadagnarsi una sorta di immortalità con le proprie opere.
Come abbiamo visto – e come potrebbe essere diverso? – Marìas ha bleffato quando ha voluto dare l’idea di disincentivare alla scrittura.
Perché la domanda è da sempre una sola: perché scrivere di finzione (fiction)? Perché il narratore crea un mondo della sua immaginazione e invita i lettori a entrarci?
Per alcuni c’è il tentativo di condividere con i lettori una visione di un mondo più giusto e umano: non sono pochi gli scrittori che credono che sia possibile un mondo migliore, e questa speranza si riflette nelle storie che raccontano. Gli psicologi sostengono che leggere la narrativa ci rende più empatici, e che, letteralmente, diventiamo persone migliori. La lettura affina la nostra capacità di immedesimazione, di comprensione delle emozioni degli altri. Questo ci permette di affrontare il mondo reale con un approccio relazionale che facilita la nostra vita quotidiana: è come se lo scrittore avesse il compito di connetterci
con la nostra stessa umanità. La magia della finzione ci permette di condividere le vite dei personaggi dei romanzi, attraverso la scoperta della loro vita interiore ci confrontiamo con le nostre fragilità e i nostri difetti. Condividendo un cammino con questi personaggi e le loro storie ci mettiamo in cerca, in loro compagnia, di bellezza, verità e significato della vita. Ecco perché scrivere: perché la fiction è essenziale per la sopravvivenza della razza umana, ci aiuta ad entrare nella pelle dell’altro. A costruire la tolleranza, offrendoci l’opportunità di scrutare il mondo da diverse prospettive. È un luminoso faro di speranza in un mondo sempre più intollerante.
E, come appunto ha affermato Marìas, la finzione ha anche il potere di suscitare nel lettore un senso di meraviglia, perché le storie possono condurci in luoghi magici.
E si sbaglierebbe a parlare di fuga dalla realtà, perché la storia della letteratura è costellata da opere di finzione che esplorano temi sociali e di interesse collettivo come la guerra, l’emigrazione e il razzismo, la crisi economica, la tecnologia e il suo impatto sulla società…
La fiction si occupa pressoché di tutto ciò che riguarda la vita dell’uomo: amore e abbandono, matrimonio e adulterio, politica, storia, vite di re, regine e gente comune… La narrativa illumina gli angoli bui del nostro mondo, amplia la nostra comprensione e allarga i nostri orizzonti, sblocca i nostri istinti, ci fa ridere e piangere, ci fa fermare dopo una giornata convulsa, riflettere, meravigliare, esplorare, intraprendere sentieri sconosciuti.
La fiction non ha il compito di fornire soluzioni ai nostri problemi. Lo scrittore non è un mecenate o uno psicologo, deve solo raccontare una bella storia a chiunque abbia voglia di leggerla.
Sino ad ora ho parlato della scrittura in rapporto al lettore, che è poi centrale per tutta la partita: senza lettore non c’è scrittore (nel senso concreto del termine).
È giunto il momento di vedere l’altra faccia della medaglia.
Scrivere una storia richiede la capacità di scrutare il mondo dal punto di vista di un’altra persona. Significa mettere in campo i sensi: ciò che un personaggio vede, sente, fiuta e gusta, il che probabilmente rivelerà le sue emozioni e il suo modo personale di rapportarsi con l’ambiente. La fiction induce gli scrittori a rivivere le proprie esperienze in modo da poter immaginare le esperienze degli altri, perché lo scrittore crea la mente dei suoi personaggi servendosi di simulazioni della propria mente. E questo perché una storia funziona se il personaggio è capace di trasmettere le sue sensazioni, i suoi pensieri e le sue emozioni in modo così vivido da sembrare esperienze veramente vissute. Abitare la mente e il corpo
di una persona immaginaria costringe a pensare oltre sé stessi, a maggior ragione se questi personaggi sono di un altro sesso, nazionalità … o pianeta! Alcuni scrittori credono che non sia corretto rappresentare personaggi sostanzialmente diversi da sé stessi, per evitare di creare stereotipi. Ma questa è la scommessa della fiction, saper ricreare contesti non necessariamente affini alla vita del narratore. Ovviamente non è una regola ferrea: si può scegliere di scrivere solo ciò che si conosce bene perché vissuto, ma allora che fine fa il nostro viaggio nei mondi immaginari? La vera scommessa è di immaginare una prospettiva sconosciuta, scrivere dal punto di vista dell’altro. L’autore deve essere in grado di raccontare la sua storia attraverso gli occhi di un personaggio complesso che vede il mondo in modo diverso. La buona narrativa non deve solo far ripensare ai lettori il modo in cui vedono il mondo, ma deve avere la stessa finalità anche per lo scrittore. La fiction permette di far emergere quei conflitti che la routine spesso soffoca, e richiede allo scrittore l’abilità di inquadrare il conflitto centrale all’interno di un disordine emotivo e di articolarlo dal punto di vista dei vari personaggi che, rappresentando ciascuno una propria verità, finiscono col negarla. Solo se si realizza questa dinamica, e i personaggi emergono dalla mente dello scrittore, assumono vita propria.
Immaginare la vita interiore di un’altra persona, vivere il mondo mentale di qualcuno le cui opinioni si oppongono alle nostre, articolare un conflitto da più punti di vista: scrivere storie sviluppa queste capacità. L’idea che la narrativa sia personale e autoindulgente deriva dall’errore di pensare che scrivere significhi ritirarsi dalla vita. Al contrario, scrivere narrativa significa abbracciare il mondo: ripensare le proprie esperienze, immaginare le esperienze degli altri e raggiungere ciò che non è ancora prevedibile.
Lo scrittore fallito non è colui che non può essere pubblicato; è quello che ha sempre voluto scrivere ma non ha mai provato.
Già, ma ripropongo la domanda: perché́ scrivere? Ci sono già troppi libri al mondo! Non sono in pochi a dirlo
Quando vostro figlio veniva raggiante a farvi vedere il suo coloratissimo disegno qual era la vostra reazione? Ci sono troppi disegni al mondo, smetti subito!
. O, al contrario, rispondevate: Che bello! Me ne fai un altro?
.
Il nostro sé creativo è come un bambino, a forza di mortificarlo smetterà di creare. E poco importa se non vi è alcuna garanzia che i nostri lavori in corso – quelle pagine ancora informi che lottano per esistere – varranno mai il tempo che rubiamo per scriverle. L’atto dello scrivere ha la grande capacità di guidarci, consolarci e sfidarci a non desistere di fronte alle difficoltà.
L’arte dello scrivere determina una linea di demarcazione ma anche una tensione, tra lavoro privato e dovere pubblico, tra arte e vita stessa, spesso ingenerando in noi ansia. E nuovamente, perché scrivere? Come si giustificano il tempo impiegato e la costante necessità di solitudine?
Forse non c’è risposta. Si inizia a scrivere per una necessità e un impulso, non esistono altre giustificazioni. Scrivere è un vero e proprio bisogno.
A volte, subentra nello scrittore un senso di colpa perché sembra che abdichi alla vita. Ha come la sensazione che quando scrive non stia facendo un’infinità di cose. Lo scrittore non presta attenzione alla famiglia, agli amici, alle notizie che giungono dal mondo. Lo stato ideale è la solitudine e il silenzio.
Ma l’atto dello scrivere ci modifica anche internamente, avvia un delicato processo di bilanciamento tra il sé cosciente diurno e il mondo crepuscolare del subconscio. Accade come nel mondo dei sogni: la scrittura è un’esperienza che sfugge al nostro controllo e apre fessure dalle quali scaturiscono le nostre fragilità che si trasformano in idee.
Ma non dobbiamo pensare che sia facile.
Provare a scrivere, significa che stiamo pensando di scrivere, ma ci sembra di non riuscire. Mille idee ci frullano per la mente. Di cosa parlano le parole in una pagina? È diverso dalle infinite chiacchiere che ci turbinano ogni giorno? Eppure non riusciamo a fare ordine, ci sembra che anche la pagina sia un vortice di parole deliranti. La creatività spesso va a braccetto col narcisismo, abbiamo l’ineluttabile necessità di riempire gli spazi bianchi con le nostre stesse voci. Gli scrittori vogliono essere ascoltati. Si scrive per connettersi, per unirsi alla conversazione, per immaginare di rivolgersi ad una famiglia numerosa. Ma anche per offrire una via di fuga al lettore, per avere il polso della situazione, dell’umanità. È come se il mondo fosse in attesa fra le pagine di un buon libro. Cosa c’è di più rilassante ed emozionante del raccontare una storia?
Qualcuno ha scritto che scrivere è solo mettere il culo sopra una sedia. Ma forse scrivere non è solo scrivere, è far arrivare alla pagina l’invenzione della vita, partendo dalla vita stessa, che è ispirazione.
Certo, alla fine uno scrittore scrive. Non c’è modo di aggirare la definizione. Dopo tutto, si deve mettere il culo sulla sedia e scrivere. Le idee non sono nulla se non prendono forma.
Ma se il bisogno finale dello scrittore è narcisisticamente quello di comunicare, perché scrivere, quando sembra che così poche persone leggano davvero? Perché scrivere, quando il mondo vuole essere informato, non illuminato?
Perché, ormai lo abbiamo capito, la scrittura è uno dei più grandi beni umani. La scrittura ci insegna a pensare, può far crescere le nostre menti. E poi, ci sono poche attività umane più piacevoli della scrittura.
E così si arriva a questo libretto che state sfogliando: serve un manuale di scrittura per imparare a scrivere? Dipende da che cosa vogliamo ottenere.
Alla larga da quei libri che spiegano che cosa o come si deve scrivere per raggiungere il successo, che annunciano trucchi o ricette magiche per scalare le classifiche e vendere milioni di copie.
Al contrario, sono utili quei testi che espongono le idee che gli autori (affermati) hanno sul mestiere della scrittura, magari svelando qualche strategia.
Ritornando a quello che affermava Javier Marìas all’inizio della nostra premessa, il problema della scrittura è che tutti sanno scrivere, e questo è una fortuna. Ma proprio la facilità, presunta, della scrittura, spinge le persone a sottovalutare questo mestiere. Ecco allora la prima lezione che le testimonianze di questi autori regalano: scrivere non è così semplice come appare, anzi.
Creare una trama, scrivere dei dialoghi interessanti, proporre dei personaggi onesti e reali è più complicato di quanto appaia a prima vista. Perché si tratta di creare un mondo in grado di essere convincente.
Inoltre, per scrivere occorre leggere molto. La lettura a lungo andare insegna a comprendere come la parola sia uno strumento delicato, potente ma fragile. Per questo è indispensabile leggere. Perché la lettura insegna non solo ad avere un vocabolario meno scontato e banale, ma permette di apprendere, col tempo, tutta la flessibilità che la parola è capace di donare, e quindi di scegliere