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Il Baule, quello del marinaio
Il Baule, quello del marinaio
Il Baule, quello del marinaio
E-book439 pagine6 ore

Il Baule, quello del marinaio

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Mi si chiede di descrivere brevemente, qui, quest'opera.
Per come la vedo io, questo libro rappresenta lo sfogo di un marinaio che ha visto, praticamente, tutto il mondo, naturalmente dalla parte del mare, in quanto all'epoca viaggiavo già fin troppo per mestiere, da avere voglia di farlo anche da turista.
Ho visto tante cose: Cose antiche, cose moderne, cose affascinanti dal punto di vista naturalistico.
E poi, ancora, ho visto il mare in bonaccia, giorno dopo giorno, per decine di giorni, in oceano, e mi è sembrato la manifestazione della bontà divina.
Poi ho visto quello stesso mare furibondo di rabbia, roba che chi non l'ha visto non può arrivare a crederci, ed anzi adesso, che gli anni sono passati, non riesco più a crederci neppure io, se non facendo uno sforzo mentale, alla fine del quale ancora mi vengono i brividi.
Tutto questo l'ho messo, in questo libro.
Ma, soprattutto, ho visto l'uomo.
L'uomo bianco, l'uomo nero, l'uomo giallo, l'umo rosso.
Ho visto il Cristiano, l'Islamico, l'Ateo, l'Ebreo, lo Shintoista, ed anche altri.
Ho visto l'uomo ricco e potente, ed ho visto l'uomo povero, umile.
Di uomini umili e poveri ne ho visti di più, perché tali erano quelli che popolavano gli ambienti del porto, e delle sue vicinanze.
Ho parlato con quegli uomini. Ne ho osservato il comportamento, ascoltato i discorsi, ed alla fine ho capito che sotto la scorza del colore della pelle, della religione, della lingua, gli uomini, tutti gli uomini, sono abbastanza simili, per lo meno quelli sani di mente, vogliono tutti le stesse cose, che si riassumono poi nel diritto a mantenere la speranza di potere condurre una vita decorosa, migliore di quella vissuta dai loro padri, e di poterne offrire di ancora migliori ai propri figli.
Tutti, a parte i pazzi, vogliono vivere in pace, sognano di vedere riconosciuti i propri diritti, curate le malattie, assicurata la vecchiaia.
Vivono nel terrore che qualche pazzo scatenato decida di portarli in guerra, loro e i loro figli, e trasformi le loro mogli in vedove, le loro madri in vecchie in gramaglie.
In questo libro ho messo anche questo.
Poi, ho tirato giù i miei ragionamenti.
Tranquilli: A parte che il fatto che io, come tutti noi occidentali, sono stato formato nella cultura cristiana, nella qual cosa, tra l'altro, non vedo nulla di male, non ho fedi politiche, e neppure religiose. Ho il cuore, ed ho il cervello. Tutto quanto leggerete, se vorrete, viene dritto da lì: Dal cervello e dal cuore.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2016
ISBN9786050466522
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    Anteprima del libro

    Il Baule, quello del marinaio - Stefano Musso

    decimo

    Capitolo primo

    Il Baule

    CAPITOLO PRIMO

    IL BAULE

    A me piace l’autunno.

    Quella è, infatti, la stagione migliore per fare molte delle cose che amo fare, ed in particolare pescare, an-dare a funghi ed in cerca di lumache.

    Ma quello era veramente un uggioso pomeriggio d’autunno.

    Fuori pioveva e tirava vento, ed io ero solo nella vecchia casa di famiglia. Non sapevo più che fare.

    Tentai d’ingannare il tempo leggiucchiando qualche pagina di un libro che già sapevo non piacermi, ma non ne avevo altri sottomano. Quindi osai la carta della TV, ma neppure con quella ebbi fortuna.

    Infine mi venne l’idea.

    Quella, ragionai, era l’occasione giusta per andare ad esplorare la soffitta, in santa pace.

    Erano anni che mi ripromettevo di farlo, per lo meno da quand’ero bambino; allora ci andavo con mio pa-dre, e mi sembrava un posto immenso. Ricordo che era sempre tutto buio e pieno di polvere, un po’ m’inti-moriva ma il bastone più grosso, tra le mie ruote, ce lo metteva mio padre, il quale non smetteva mai di sor-vegliarmi strettamente mentre si sbrigava a riporre, oppure a prendere, quanto era venuto a riporre, oppure a prendere; e ad ogni mio movimento mi diceva dove potevo andare e dove no, cosa potevo toccare e cosa no.

    Ora, avrei potuto ficcanasare a mio piacimento; nessuno avrebbe potuto sollevare delle obbiezioni.

    Mi armai di una torcia elettrica, infilai una cerata col cappuccio e poi salii, lungo la scaletta che portava in su.

    Oltre la botola, incominciava il regno delle ragnatele.

    Cominciai guardandomi intorno, per assicurarmi di dove fossero le tavole su cui si poteva camminare. Un piede fuori da quelle, e mi sarei ritrovato al piano sottostante senza neppure bisogno di scendere le scale, vi-sto che i nostri vecchi non sciupavano materiali per dotare le soffitte di solette interamente percorribili, quan-do se ne poteva fare a meno.

    Cominciai a ripulire un po’ qua e un po’ là, col braccio libero dalla torcia, allontanando più che altro qual-che ragnatela da davanti agli occhi, giusto per orientarmi un poco.

    Non avevo fatto che pochi, piccoli passi, quando la mia attenzione fu attratta da un baule.

    Era messo là in un canto, da solo, a terra, ed era interamente ricoperto di polvere; ma anche così s’indovi-nava che doveva trattarsi di roba vecchia e solida, anche se per nulla elegante.

    Mi avvicinai e potei constatare ch’era chiuso a chiave, che la chiave pendeva appesa ad una catenella at-taccata al cassettone stesso, ed anche che la ruggine aveva rispettato il tutto, quantomeno a sufficienza per-ché non mi si sbriciolasse tra le mani.

    Provando a muoverlo mi resi conto che era pesante, pieno; che doveva esserci della roba, là dentro.

    Ce n’era abbastanza da farmi venire un furioso attacco di quella che io definisco sindrome da uovo di Pa-squa, ossia di smania di sapere che cosa ci fosse stato dentro.

    Decisamente, però, non era il caso di fare inventari minuziosi in quel buio, con quella polvere e sotto quel-le ragnatele. Usai lo straccio che mi ero portato dietro per togliere il più grosso del grigio del tempo accumu-lato là sopra, afferrai l’oggetto per le maniglie e riguadagnai la botola per la quale ero entrato. Dieci minuti più tardi, in salotto, con la giusta luce, la giusta poltrona e la giusta quantità di vermentino locale nel bicchie-re, fu tutto un altro esplorare.

    Non appena fatta scattare la serratura e sollevato il coperchio, che cigolò sulle cerniere mai più usate da decenni, mi resi subito conto che l’impressione ricevuta in un primo momento, ossia che si trattasse di un baule da marinaio, era esatta.

    Sull’interno del coperchio, infatti, era stato dipinto uno scorcio in cui entravano mare e terra.

    Si vedeva bene che la mano che aveva pitturato quel legno non era certamente appartenuta ad un artista del rinascimento fiorentino; quella doveva essere stata avvezza all’uso di arnesi più corposi, quali la pennel-lessa da marinaio, il coltello a caviglia, eccetera eccetera.

    Tutti i marinai d’un tempo erano soliti dipingere così quella parte del loro baule personale, e forse lo scopo era proprio quello di conferirgli una personalizzazione che sarebbe stato impossibile ottenere altrimenti, nella maggior parte dei casi almeno, visto che ben pochi di essi sapevano leggere e scrivere; così ognuno dipinge-va là sopra, come poteva e con quello che aveva sottomano, una veduta del proprio paese d’origine, che gli fosse stata particolarmente cara.

    Faticai non poco, tuttavia, e ci riuscii soltanto perché il proprietario del baule doveva essere stato origina-rio dei dintorni, altrimenti non ci sarebbe stato motivo perché quell’oggetto si trovasse in casa mia, a ricono-scere, in quelle pennellate un po’ assassine, una panoramica della baia del mio paese, vista dalla cima di uno dei promontori che la cingono, la difendono dalle intemperie e dalla maggior parte delle mareggiate.

    Ci riuscii, dopo un attento esame, soltanto perché certi bastioni, certe torri, certi paesi fortificati esistevano ancora, così com’erano esistiti ai tempi dell’artista, anche se ora erano attorniati da costruzioni molto più moderne, e l’insieme odierno non somigliava più di tanto a quello descritto a pennello.

    A quel punto mi dedicai ad estrarre dal baule ciò che vi era contenuto, per esaminarlo minuziosamente.

    C’erano delle lenzuola di lino ormai ingiallite, ed ognuna di esse portava delle iniziali, sempre le stesse; ed anche delle federe da cuscino, con le medesime cifre.

    Al sicuro tra quella biancheria rinvenni una busta di pelle, legata con un nastro rosso passato a croce; e dentro quella busta un paio di fasci di lettere, ed un antico libretto di navigazione.

    Presi ad esaminare la corrispondenza.

    Dalle date in testa di lettera vidi subito che si trattava di roba scritta, mediamente, cento cinquant’anni pri-ma, che copriva un periodo di trent’anni o giù di lì.

    Era tutta, esclusivamente, corrispondenza infraconiugale. Le lettere se l’erano inviate rispettivamente ma-rito e moglie, lui da dove si trovava, su qualche nave in giro per il mondo, e lei da casa.

    La calligrafia di lui era larga, chiara, infantile. La carta pareva scavata con la zappa, però andava già bene così. Andava già bene che l’avesse posseduta, quella calligrafia; infatti, a parte Comandante e Scrivano, do-veva essere stato l’unico, a bordo, a saper scrivere.

    Quella di lei era invece più disinvolta, come di chi avesse avuto buona dimestichezza con la penna, anche se si trattava pur sempre di una di quelle calligrafie di allora, propria di gente alla quale, oltre che la sostanza, veniva insegnata anche la forma. Solo che a quei tempi di mogli di marinai che sapessero usare correttamen-te la penna, e conoscessero la grammatica, ce n’erano ben poche; le donne appena un po’ istruite potevano infatti chiedere alla vita qualcosa di meglio che non il dover dividere la propria esistenza con uno che spariva per anni, per andare chi sa dove a guadagnarsi il pane, dal che dedussi che quella calligrafia così bella, ordi-nata e svolazzante non fosse stata di lei bensì di una terza persona, forse del prete, forse del maestro di scuo-la, ed in ogni caso di qualcuno che, in quei tempi di gente zotica ed illetterata, si sobbarcava abitualmente il compito di leggere alle mogli le lettere dei mariti lontani, e scriverne le riposte sotto dettatura.

    Lui si esprimeva in un idioma che non si capiva bene se contenesse più dialetto che italiano, oppure vice-versa.

    Raccontava sempre che tutto andava benone, che pareva quasi d’essere in vacanza pagata, tanto si stava bene su quel legno. Naturalmente non usava questi termini, allora si conosceva solo vagamente il significato della parola vacanza, era un qualcosa che potevano permettersi i ricchi, quelli che vivevano di rendite che marciavano da sole anche se loro si allontanavano per un po’; vacanza pagata apparteneva, come termine, al futuro. Chi aveva il viziaccio di mettere qualcosa in pancia almeno una volta al giorno tutti i giorni, e non era ricco, tutti i giorni doveva lavorare; però il senso era quello.

    Comunque, i noli erano stati buoni, ottimi, così la sua parte del guadagno sarebbe stata cospicua; avrebbe portato a casa un bel gruzzoletto col quale, magari, si sarebbe anche potuto comperare un’altra capra, per a-vere più latte in casa, e magari persino quel pezzettino di campagna, cinque o sei alberi d’ulivo in tutto, e non di più, a quadrare il lotto che la famiglia già possedeva. E la gente sulla nave era tutta brava gente, ci si cam-pava bene insieme, era facile andare d’accordo con tutti; e poi ancora che il veliero era robusto, ben fatto, marino; non c’era alcun pericolo a navigarci su.

    Raccomandava sempre di non darsi pensiero per lui che stava bene, di restare tranquilli ed in buona salute anche loro a casa, che lui non avrebbe tardato molto ancora, ed al suo ritorno ci sarebbe stata qualche sorpre-sina per tutti. E tanti saluti a quello, ed anche a quell’altro.

    Si comportava, insomma, come da sempre si comporta qualsiasi uomo sia obbligatoriamente lontano da casa, a lavorare, e comunque vadano le cose debba continuare a starci, per tutto il periodo per il quale si è impegnato, e non c’è modo di rientrare prima del tempo, e allora anche a scrivere che c’è pericolo, che le co-se vanno tutte quante a ramengo, c’è solo da fare preoccupare delle persone che non potrebbero farci niente in ogni caso, da procurare del dolore inutilmente, e pensieri e preoccupazioni, e allora quello che è fuori non è più un uomo responsabile, che va lontano per guadagnare il pane per la sua famiglia, ma un bambino vizia-to, piagnucoloso, il quale tiene più alla commiserazione del suo prossimo che non al suo rispetto.

    Lei rispondeva dandogli notizie da casa, dei figli, dei paesani, dell’andamento della campagna, del raccol-to delle olive, della loro resa in olio; e se la capra di casa aveva figliato, e quanti ne aveva fatti, e se c’era tra quei capretti qualche bella femmina promettente da poter tenere, che domani sarebbe diventata adulta, ed an-ch’essa avrebbe reso il suo latte; ed avere un po’ di latte in più sarebbe stato, in ogni caso, una gran bella co-sa.

    Sulle buste non c’era traccia di francobolli, né di annulli postali.

    Non esisteva la posta aerea, in grado di restringere i tempi del giro di corrispondenza a pochi giorni, per il semplice motivo che gli aerei ancora non erano stati inventati.

    Le navi non erano semplicemente il mezzo più veloce ed affidabile per recarsi da un continente all’altro; erano l’unico mezzo, per cui le si poteva rincorrere soltanto usando altre navi, e questo anche per portare la posta ai marittimi imbarcati.

    Le lettere in partenza da casa venivano quindi affidate a velieri, che partivano dopo quello dei loro desti-natari, ed erano diretti dalle stesse parti, mentre le altre di ritorno potevano venire spedite solo se quelli di bordo avevano la ventura d’incrociare, in un porto qualsiasi, una nave che andasse, senza troppi scali, al ter-ritorio della penisola. Allora si consegnava il pacco con le missive al comandante di quel legno, e c’era da star sicuri del fatto che, se mai quello che l’avesse fatta a riprendere la terra natia, tutta la posta sarebbe arri-vata regolarmente a destinazione. Era infatti un sistema che prima o poi tutti quanti avrebbero potuto deside-rare di poter sfruttare a proprio vantaggio, e allora il mancare all’assolvimento di un simile dovere sarebbe stato impensabile, per qualsiasi uomo di mare.

    Oltre alle lettere, nel baule c’era anche il libretto di navigazione del suo proprietario.

    Era rifasciato di cartoncino marrone chiaro, legato da un nastrino, così come usava ancora sino a qualche decina di anni fa, ed io dovetti maneggiarlo con estrema cura per evitare che mi si sbriciolasse fra le mani.

    Quell’uomo era stato un mio antenato da parte di padre, portavamo il medesimo cognome, però non so e-sattamente come poterlo definire; comunque, lui era stato il bisnonno del mio nonno paterno, e prima di quel giorno io ne avevo solo vagamente inteso parlare, tanti anni prima, giustappunto da mio nonno, come di uno tra i tanti nostri avi che avevano preso la via del mare.

    Aveva incominciato a navigare a lungo corso a quattordici anni circa, come mozzo.

    Allora usava imbarcare sulle navi maggiori soltanto dopo essersi fatti le ossa sulle barche da pesca per qualche anno, diciamo a cominciare dai dieci. I nostri vecchi erano soliti affermare, riferendosi ai ragazzini, ed alla necessità che questi si dessero in qualche modo da fare, per contribuire al mantenimento economico della famiglia, che S’u riva a a tora pe mangià, u ghe riva inscì pe mettine!, ossia che se il pargolo era già sufficientemente cresciuto per mettersi a tavola con gli adulti, per mangiare, era anche abbastanza cresciuto per concorrere ad imbandirla, quella tavola.

    Aveva smesso definitivamente a sessantadue anni, terminando la carriera con la qualifica di nostromo, e questa fu una notizia che mi fece un gran piacere di apprendere, anche se si trattava di un piacere un po’ troppo postumo perché a lui potesse recare una qualche soddisfazione; comunque mi sentii orgoglioso di a-vere avuto un antenato così in gamba.

    In un tempo nel quale già passare giovanotto di prima classe era un riconoscimento alla capacità professio-nale, difatti non esistevano ancora i contratti collettivi di lavoro che stabilissero, alla peggio, obbligatori certi passaggi di qualifica anche grazie soltanto all’anzianità di servizio, ogni scatto equivaleva alla presa d’atto, da parte dei superiori, della serietà, della capacità e di tutto il resto che quella persona metteva, nello svolgi-mento dei propri compiti. Fa sempre piacere potere aggiungere, al novero dei propri antenati, una persona sicuramente seria: Pare, in tal modo, di elevare il livello della schiatta.

    Su quel libretto, di imbarchi non ve n’erano registrati più d’una dozzina.

    Dodici imbarchi, a coprire un totale di quarantotto anni di vita trascorsi a fare il mestiere del mare, ma qualcuno anche a terra, fortunatamente, in famiglia. Fortunatamente per lui ma anche per me, che altrimenti chi sa se sarei mai nato, e se sì che nome avrei avuto. Faceva comunque una media di tre anni e passa a viag-gio più il riposo, e la cosa ci stava tutta.

    Quando, durante i primi decenni dell’ottocento, si partiva per il lungo corso, per viaggi che chiamarli così è riduttivo, più che dei semplici viaggi erano delle vere e proprie avventure, che duravano mediamente diver-si anni, il pensiero di ognuno, alla partenza, non era per quando e dove si sarebbe arrivati, bensì per il se si sarebbe arrivati, e poi mai tornati. E si tratta va di concetti estremamente differenti.

    Per uno come me, marinaio anch’io come quel mio lontano parente, mettermi a lavorare di fantasia fu pressoché inevitabile.

    Davanti ai miei occhi si fecero nitide le immagini del tempo che fu.

    Il baule era il primo pezzo, in ordine d’importanza, del corredo di ogni marinaio.

    In esso l’uomo riponeva la sua roba da lavoro e quando arrivava sulla nave vi riponeva, ripiegato per bene, perché non si rovinasse, l’abito buono che aveva usato per imbarcare, intendendo per detto l’unico, che pos-sedesse, non proprio adatto per arrampicarsi su per il sartiame come una bertuccia.

    Aveva sempre un berretto.

    Qui da noi quel berretto i vecchi lo chiamavano, in dialetto, sciascìa, termine preso pari pari dall’arabo, che in quella lingua significa per l’appunto qualcosa come copricapo, però non lo so di sicuro perché l’arabo non lo parlo, conosco soltanto qualche termine e basta; me l'hanno confermato Arabi che ho conosciuto dopo che qualcuno, qui, mi aveva messo al corrente della faccenda.

    Noi di queste parti d’Italia abbiamo, a farcire il nostro dialetto, un sacco di termini arabi, e questo grazie ai continui contatti, non sempre propriamente amichevoli, che la nostra gente di mare intrattenne per secoli con la gente di mare musulmana.

    Molti di quei termini sono poi entrati a far parte della lingua italiana vera e propria, tipo la parola assassi-no, che suppongo derivi dal ligure asciascin, copiato dalla parola araba che stava, e rimane, a definire colui il quale, in preda alla droga, all’hascisc, commette delitti.

    Per tornare a noi, si trattava quasi sempre di un berretto di lana, o di feltro, blu, una specie di basco molto ampio, sormontato da un vistoso pon-pon rosso cinabro. Per la verità era un tipo di berretto non proprio e-sclusivo della marineria ligure; di sicuro lo usavano anche i Francesi, tant’è vero che i marinai della Marina Militare di quella nazione portavano in capo qualcosa di simile fino a non molti anni or sono. Ora non so, è un pezzo che non ho occasione di vedere di quei giovanotti, in giro.

    I maglioni erano di lana grezza, spessi, ampi, possibilmente infeltriti per diventare maggiormente imper-meabili, caldi ma per nulla raffinati, ed anzi grezzi al punto da non possedere neppure il collo, dal che nac-quero i maglioni alla marinara, in uso ancora oggi.

    I pantaloni possedevano anch’essi una strana foggia: Erano molto ampi in fondo, adesso li chiamano a campana, oppure a zampa d’elefante, ed erano concepiti a quel modo per ricoprire il piede calzato ed impe-dire che gocce o spruzzi, calando dalla coscia, andassero ad infradiciarlo.

    Intorno alla vita si portava la cinta, una specie di cintura fatta di più giri di pezza variamente colorata la quale, opportunamente allargata, fungeva anche da straccio per asciugarsi il sudore, pulirsi le mani dopo ave-re nettato il pesce, pescato alla traina durante la navigazione, ingrassato i bozzelli dei paranchi con grassi di origine animali, nonché compiuto altre manovre altamente sporchevoli, ed altrettanto puzzolenti; e ad essere usata in quei modi, a prendere un po’ di sporco oggi e un po’ domani, ma soprattutto un po’ di puzza oggi e un po’ domani, finiva per puzzare, e puzzare assai ed ancora oggi, qui da noi, per dire a uno che manda un cattivo odore, e che sarebbe giusto l’ora che avesse un contatto ravvicinato, e prolungato, con una saponetta, gli diciamo che puzza come una cinta.

    Al collo i marinai portavano il mandilletto, termine genovese che significa attualmente fazzolettino, ma che all’epoca definiva una pezzuola di reticella di cotone grezzo, di forma quadrata, che serviva anch’essa per asciugarsi il sudore, però solo quello della fronte, perché poi lo si doveva portare a pochi centimetri sotto al naso, e così era molto più saggio vedere di limitarne un po’ gli usi. Quando si poteva, quelle rarissime vol-te in cui si riusciva a mettere le mani su un po’ d’acqua dolce non strettamente necessaria per spegnere la sete, lo si lavava pure: Lo si insaponava mentre si faceva il bagno, e allora diventava come una spugna di quelle che grattano, e ce ne voleva di gratteria per levare dalla pelle certe patine di sporcizia antica; poi, striz-zato per bene, risciacquato e quindi strizzato ancora, diventava un’asciugamani. E chi sa a che cosa poteva servire ancora, e pensare che a noi uomini del ventesimo secolo pare di avere trovato la luna nel pozzo, solo perché ci siamo inventati gli oggetti multiuso come i coltellini svizzeri.

    C’era poi la strapunta, o trapunta, una specie di coperta variamente imbottita che serviva tanto da coperta quanto da materasso, e poi ancora la cerata, una larga mantella di tela olona con sotto un paio di braghe dello stesso materiale, un completo che i films americani hanno fatto conoscere a tutti col nome di Sud-Ovest, che era il capo di abbigliamento necessario come il pane, quando ci si trovava a navigare il climi piovosi e freddi.

    Gli stivali di solito i marinai li trovavano a bordo, facevano parte delle dotazioni nave come i fucili, le pi-stole, i cannoni e le altre armi da difesa in generale: Spettava al Comandante la decisione di distribuirli, se e quando se ne fosse presentata la necessità.

    All’atto dell’imbarco si riponeva tutto il suddetto armamentario nel baule, insieme coi piccoli oggetti per-sonali come il rasoio, il pettine, il pennello da barba ed il coltello a caviglia. Si ripiegava quindi ordinatamen-te la strapunta fino ad ottenere una specie di cuscino, la si metteva sulla spalla a fare da intercapedine tra os-so della spalla stessa e fondo del baule, detto cassone di poneva a ricoprire il tutto e poi si partiva, rigorosa-mente a piedi.

    Il marinaio, difatti, non possedeva cavalli, asini, muli o altre bestie da soma e da cavalcatura, sulle quali montare e fare trionfali apparizioni sulla piazzetta del porto. Al massimo a casa sua c’era qualche capretta da latte, un po’ di galline per le uova, qualche coniglio per poter mangiare carne giusto una volta ogni tanto, a-vendo cura di specificare che quel tanto non era soltanto tanto, ma proprio tanto tanto. Perché la sua era la casa di un poveraccio, di uno che non possedeva niente, neppure quel tanto di terra sufficiente a farci la fame sopra, difatti quelli che ce l’avevano appartenevano ad un ceto sociale superiore, erano i contadini, se la pas-savano male alla stessa identica maniera, ma almeno per farlo non dovevano andarsi a giocare la pelle per mare.

    D'altronde, anche se avesse posseduto un tiro a quattro, in quel frangente non gli sarebbe servito proprio a niente. Gli imbarchi si facevano difatti sempre al molo del paese, massimo a quello del paese più vicino.

    Se un bastimento era di Cervo, tutti a bordo erano di Cervo, a meno che qualcuno non si fosse perduto du-rante il viaggio, e non si fosse reso necessario sostituirlo con personale raccattato strada facendo. E se era della Marina di Diano, tutti erano della Marina di Diano; c’era in giro più fame che non posti di lavoro, co-sicché non vi era alcun bisogno di andare a cercare fame forestiera.

    Poi, la nave partiva per il lungo corso.

    Aveva allora inizio un’avventura che, a sentirsela raccontare adesso, c’è da prendere per scemi quelli che la raccontano.

    Al lungo corso ci si andava con diversi tipi di velieri.

    I più famosi di tutti erano i clippers, i più veloci i tea clippers, il più noto di essi in assoluto è rimasto il Cutty Sark, i modellini del quale troneggiano in bella vista nella bacheca di qualsiasi appassionato di model-lismo navale.

    Si trattava di imbarcazioni molto veloci, armate con tante di quelle vele che ci sarebbe stato da farsi venire il mal di testa solamente a cercare di farne l’inventario.

    Migliaia e migliaia di metri quadrati di tela a riva per prendere il vento, imprigionarlo e trasformarlo in nodi, in miglia orarie, in velocità pura; persino i delfini si stancavano di correre loro dietro, in un mese o poco più partivano da Ceylon, oggi Sry Lanka, e dalle altre località nelle quali s’imbarcava il prezioso thè, compivano il periplo del continente africano doppiando il Capo di Buona Speranza ed arrivavano a Londra. E la stagione della raccolta e della preparazione delle pregiate foglioline era quella, non esisteva proprio che uno, pagando, la potesse anticipare, ragion per cui quei clippers partivano a decine tutti insieme, contempora-neamente, però il primo che arrivava a Londra faceva i soldi buoni, tanti, perché per tradizione aveva il dirit-to di stabilire lui il prezzo del proprio carico. Gli altri si pagavano le spese e guadagnavano bene anche loro, però meno; e poi era anche una questione di orgoglio, e allora era una gara giocata sul filo dell’arte marinare-sca, della conoscenza delle correnti, dei monsoni, degli alisei, delle secche che s’incontravano lungo la via, della quantità di tela alzata; leggenda narra che perfino un paio di mutande steso fuori, ad asciugare, potesse aiu-tare a far vincere quelle gare.

    Avevano equipaggi numerosi, perché ce ne voleva di gente per manovrare quelle velature tanto complesse.

    E poi la gente serviva anche per difendersi dagli attacchi dei pirati, dei corsari, e magari anche dei vascelli di linea della flotta inglese dal momento che, una volta concluso l’annuale viaggio del tè, il resto del tempo quei legni lo impiegavano spesso a fare la tratta degli schiavi, cosa proibita già allora, e se fossero stati pizzi-cati con le stive colme di carne nera dalle navi da guerra di Sua Maestà Britannica, all’epoca veri e propri po-liziotti dei mari, sarebbero finiti a penzolare dai pennoni come tanti stoccafissi sull’essiccatoio, rigorosamen-te appesi per il collo.

    Quelle navi, i clippers, erano le regine dei mari; ma poi c’erano le altre, quelle più normali, come le golet-te, i brigantini, i brigantini a palo, e qui da noi i gozzi, i pinchi, gli sciabecchi, i leudi, ma quest’ultimo era naviglio minore adatto per il cabotaggio, non aveva le dimensioni adatte per affrontare con discreti margini di sicurezza certe traversate; e poi portavano poco carico, non sarebbe valsa la pena. Tutte navi, comunque, che si diversificavano tra loro per dimensioni ed armamento velico, ma che in comune mantenevano un’e-strema complicazione di manovra, sempre per via delle decine di vele, ognuna delle quali aveva un suo uso specifico, determinato dalle condizioni meteorologiche e dal tipo di andatura, e centinaia di bozzelli, cavi, ci-me, sartie; e terzaroli, che sarebbero poi stati artifizi per ridurre la superficie utile di una grande vela, senza dovervi rinunciare del tutto ammainandola.

    Era insomma cosa per gente del mestiere.

    La vita a bordo poteva venire definita in mille modi, ma mai facile, né tanto meno comoda.

    L’equipaggio dormiva sulle amache, normalmente sotto il castello, all’estrema prora.

    Sul ponte di comando, ossia a poppa, appena a proravia del cassero, residenza del comandante e degli uffi-ciali nonché sede dell’armeria, della cambusa e della cucina, c’era la bussola magnetica, la quale serviva al timoniere per regolarsi sulla direzione da far mantenere alla prora, né più e né meno di quanto non si faccia oggi con la girobussola, solo che anche in questo caso, in quei tempi, c’era una complicazione in più. Infatti, mentre oggi la rotta la si esprime in gradi, allora era tutto un mal di capo di direzioni cardinali, venti, mezzi-venti, quarte, mezzequarte e quartine, che sarebbero le suddivisioni nautiche dell'angolo giro; in quel modo era d’uso suddividere l’orizzonte anche perché, non disponendo di lenti adatte, adeguatamente illuminate e-lettricamente, sarebbe stato praticamente impossibile mantenere la rotta al grado, proprio per una pura que-stione di visualizzazione; e allora dare la rotta al timoniere significava mettersi a recitare una filastrocca nep-pure troppo breve.

    Appena dietro alla bussola c’era la ruota a caviglie, o ruota del timone, il movimento della quale andava a comandare quello del timone vero e proprio, immerso in acqua sotto la poppa, ma senza congegni tipo l’at-tuale servotimone, che ne consentissero la manovra senza troppa fatica. Ne conseguiva che se già col tempo buono lo stare al timone era una faccenda parecchio faticosa, quando arrivava la burrasca, e forze immani si opponevano ad ogni virata, ed altre forze altrettanto immani cercavano, ad ogni colpo di mare, di portare fuori rotta, alla ruota a caviglie dovevano mettercisi in più d’uno, e mettercela tutta; e se per un qualsiasi mo-tivo avessero mollato la presa, e fosse andata bene e non fosse accaduto altro, tipo rovesciamento e simili piacevolezze, quella ruota sarebbe tornata a cercare il suo equilibrio mulinando a velocità pazzesca; le cavi-glie avrebbero girato talmente veloci da diventare quasi invisibili, come le pale d’una turbina, e cercare di metterci una mano per fermarle, oppure farcisi sbalzare addosso da uno scrollane della nave, voleva dire dare l’addio per sempre a diverse ossa, dell’avambraccio o della faccia, se non addirittura alla pelle.

    A completare l’attrezzatura della timoneria c’era un tavolaccio bene inchiodato a pagliolo, in una scassa, o alloggiamento, del quale, bene incastrata affinché non partisse per la tangente per via di rollio e beccheggio, era sistemata una clessidra; e spettava all’ufficiale di guardia di rovesciarla ogniqualvolta ne fosse stato il ca-so, e suonare poi la campana, per comunicare agli altri i cambi di guardia.

    Le carte nautiche ed il cronometro, essenziale quest’ultimo per la determinazione della longitudine, erano custodite dal Comandante nella sua cabina, al riparo dalle intemperie e dalla curiosità dei non autorizzati, in-sieme col suo sestante personale.

    Oggi noi siamo abituati, per lo meno nella maggior parte delle nostre faccende, ad avere una certa possibi-lità di scelta.

    Allora non era così. Non per mare.

    Non esistevano cose che si potessero fare, ma in compenso ce n’erano tante che si dovevano assolutamen-te fare. Tutte le altre erano da evitare, e punto e basta. Ne andava della vita.

    Non si poteva, per esempio, partire da Gibilterra per andare a Buenos Aires seguendo la rotta più breve in assoluta, l’ortodromica, e neppure quella che appare la più breve se tracciata sulla carta di Mercatore, la los-sodromia. Bisognava difatti fare i conti con tutta una serie di fattori che impediva quelle soluzioni.

    Il primo di quei fattori era il vento, che sarebbe ancora oggi l’unica forza motrice per qualsiasi imbarcazio-ne a vela.

    La navigazione ideale, quella più facile, si svolgeva con un discreto vento in poppa; ma quella era roba da regalo di Natale per i marinai dell’epoca, in quanto almeno la metà delle volte il vento soffiava invece dai quadranti di proravia, ed era un vento fisso, un monsone, un aliseo, e non era che ci si potesse fermare lì, in attesa che decidesse di abbonacciare, oppure di variare direzione; così bisognava in qualche modo risalirlo, e magari lo si doveva fare per centinaia di miglia marine, per settimane e settimane.

    La nave era così costretta ad andare di bolina, ossia a stringere, per quanto fosse stato possibile, la prua sulla direzione di provenienza del vento, con un angolo minimo che permettesse alle vele di gonfiarsi ed al timoniere di governare; e allora lo stare alla barra diventava pesantuccio per davvero.

    L’angolo di cui sopra dipendeva esclusivamente dalle caratteristiche nautiche della nave in oggetto, ed un Comandante ed il suo equipaggio erano considerati validi quando riuscivano a far rendere al meglio quelle caratteristiche; e più la nave era marina e più quell’angolo risultava acuto, e più si abbreviava il viaggio, con ampia soddisfazione della gente di bordo tutta; e poi ne vedremo il perché.

    Andare di bolina, però, voleva dire cambiare spesso e volentieri la prora, in maniera da prendere il vento, diciamo, per sei ore sulla dritta, e per le sei successive sulla sinistra, allo scopo di non discostarsi troppo dal-la rotta originaria.

    Ogni sei ore, o giù di lì, si doveva quindi virare di bordo, ossia portare la prora esattamente contro vento, per poi andarselo a mettere sul lato opposto, oppure abbattere, che significava invece fare il giro più lungo per ottenere il medesimo risultato, porgendo la poppa al vento e risalendolo sul lato opposto; però per fare ciò non era sufficiente mettere il timone alla banda a dritta, oppure a sinistra. C’era infatti tutta una serie di vele da ammainare prima dell’accostata, e da rimandare a riva, ossia da riportare in posizione, subito dopo; e tutto quanto andava fatto con rapidità, di modo da non perdere l’abbrivio, da mantenere per quanto possibile la velocità; e se la nave su quella virata, per via d’una manovra mal fatta, o eseguita troppo lentamente, fosse rimasta in panne, allora si sarebbe dovuto perdere un sacco di tempo, e di cammino percorso, per riportarla in condizioni di riprovarci.

    Ma la gente, alla manovra, non la si chiamava solamente per cambiare la prora. Ogni variazione delle con-dizioni meteorologiche esigeva infatti tempestivi aggiustamenti di velatura: Per aggiungere tela se il vento cadeva, o diminuiva d’intensità, onde incrementare la spinta, per toglierne sui rinforzi onde evitare che ve-nisse giù tutto, per via delle eccessive sollecitazioni.

    C’era insomma un modo di navigare particolarmente appropriato per ogni minima variazione di un qual-siasi parametro componete la condizione meteorologica complessiva.

    Naturalmente tutto questo poteva rendersi necessario tanto di giorno quanto di notte, con mare appena in-crespato come durante il più furioso degli uragani; ed anzi proprio quando il tempo era peggiore bisognava essere più lesti e in gamba; lì, ogni secondo poteva fare la differenza.

    I marinai avevano i piedi prensili quasi come le mani, infatti andavano su a piedi nudi, e scommetto che avrebbero dato chi sa cosa per poter disporre anche di una coda, e prensile anch’essa, come quella di certe scimmie arboricole. Tutto infatti veniva buono per cercare di non perdere l’equilibrio, l’appiglio quando si era lassù, a dieci, venti, trenta metri d’altezza sul ponte di coperta, e le mani servivano tutte e due per fare quello che si era saliti per fare, e gli appoggi erano resi viscidi dalla pioggia, e il vento spingeva a far cadere e la nave rollava e beccheggiava, e sarebbe bastato che un piede fosse scivolato per iniziare un volo che, nel-la migliore delle ipotesi, avrebbe avuto termine in mare, e allora poteva anche darsi che là sotto non ci fosse lo squalo pronto con la bocca aperta, che potesse arrivare prima di lui la scialuppa per il recupero; altrimenti ci si andava a spiaccicare sul tavolato del ponte, e allora buonanotte ai suonatori!

    Il non perdere tempo prezioso era imperativo.

    Non si trattava solamente di una questione economica, tot. lire di nolo divise per tot. giorni per portarlo a termine uguale tot. lire al giorno, meno giorni maggior guadagno; e neppure della fretta di arrivare al porto per correre a fare bisboccia, a base di cattivo rum e donnine allegre allegramente impestate, anche se questo poteva avere la sua importanza, per molti se non per tutti.

    Il vero problema era rappresentato dall’esiguità delle scorte d’acqua dolce, di mele, di vegetali freschi che calavano a vista d’occhio, giorno dopo giorno, e marcivano pure; e quella roba era di vitale importanza po-terla rinnovare per tempo. Dietro l’angolo c’era sempre lo spauracchio dello scorbuto in agguato, pronto a trasformare l’agile veliero in un vascello fantasma, carico di cadaveri.

    Lo scorbuto era la malattia che derivava direttamente dalla carenza di frutta e verdura, ossia di vitamine.

    Quando tutto andava bene, vale a dire quando si poteva reperire per tempo la giusta quantità di vitamine per rimediare, il più delle volte il malanno si limitava alla piorrea, che consisteva nell’allargamento delle gengive, con conseguente caduta di tutti i denti, soprattutto di quelli sani, e di difficoltà a guarire dalle ferite, e rinsaldare le ossa. Se no, se ne moriva.

    Inchiodato in coperta c’era un barile pieno di mele, o di limoni, col coperchio assicurato da un robusto luc-chetto, ed il nostromo aveva, legata al collo, la chiave di quel lucchetto. E quella, più che la razione di frutta dell’equipaggio, era la medicina preventiva contro lo scorbuto, che si sapeva fare effetto ancora prima che un medico, particolarmente intelligente ed intuitivo, si prendesse la briga d’informare i marittimi del perché; e forse proprio da lì deriva il vecchio detto, secondo il quale una mela al giorno leva il medico di torno.

    Lo scorbuto, con ogni probabilità, ha ucciso nel corso dei secoli più marinai che non i pirati, le tempeste, la fame, la sete ed il naufragio messi insieme.

    Però anche la sete metteva addosso una gran fifa; e forse addirittura di più che non lo scorbuto, anche se era

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