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Leonardo e la morte della Gioconda
Leonardo e la morte della Gioconda
Leonardo e la morte della Gioconda
E-book172 pagine2 ore

Leonardo e la morte della Gioconda

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Info su questo ebook

Un manoscritto creduto perduto e misteriosamente ritrovato, due storie legate tra loro. Salai, discepolo indisciplinato di Leonardo, violento e ladro, si trova suo malgrado a investigare insieme al maestro sul misterioso avvelenamento di Bianca Giovanna Sforza, presunta modella della famosa Gioconda. Circondati da situazioni oscure e magiche, la loro avventura si dipana in una Milano del 1496, descritta in modo accurato, con i suoi Sestieri e Contrade e in mezzo ai suoi meravigliosi Navigli. Leonardo e Salai scopriranno che dietro a tutto vi è lo zampino della Francia, con il preciso intento di spodestare il Moro e di entrare a Milano, cosa che avverrà nel 1499. A causa di ciò, Leonardo sarà costretto a fuggire e, dopo mille peripezie, dovrà rifugiarsi nella stessa Francia con il suo nuovo discepolo, Francesco Melzi. Qui la Gioconda, ovvero il dipinto di Bianca Giovanna Sforza, sarà la chiave di tutti i misteri, al centro dei quali vi sarà l’oscura presenza della strega Arima, che continuerà a tormentare Leonardo fino alla mortale resa dei conti.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita17 lug 2019
ISBN9788832176445
Leonardo e la morte della Gioconda

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    Anteprima del libro

    Leonardo e la morte della Gioconda - G.P. Rossi

    Prologo

    Era il 15 aprile del 1952, data bizzarra, ma lo capii dopo. Avevo ereditato, da qualche giorno, la casa dei miei nonni a Vaprio d’Adda, un paesino vicino Milano, e stavo ordinando i loro averi per capire cosa tenere e cosa invece avrei dovuto buttare.

    Se fosse stato per me, avrei tenuto tutto, ma mia moglie non era dello stesso parere, perciò, a malincuore, avevo iniziato una cernita di oggetti da gettare nella spazzatura.

    Ero salito in soffitta, dove pensavo di trovare solo cose inutili, quando per caso vidi un piccolo baule di forma parallelepipeda, con un coperchio bombato e fissato da due anelli d’epoca; era ricoperto da sottili lamine in ferro sbalzato, che avevano un motivo decorativo a girali con fiori in sequenza che delimitavano delle specchiature ricoperte da velluto rosso.

    La serratura era d’epoca con una placchetta sagomata; infine, il baule era accompagnato da una chiave antica.

    Ai due lati vi erano delle maniglie, con degli anelli alle estremità.

    Curioso, decisi di aprirlo, perciò presi la chiave sperando che ancora funzionasse. Per fortuna fu così; mi accorsi che l’interno era rivestito con del lino rosso, ma il fatto che mi sbalordì fu che dentro vi trovai del riso.

    Iniziai a rovistare tra il riso, pensando che lo avrei dovuto buttare, quando, in fondo al bauletto, vi scorsi una sacca di pelle marrone, la tirai fuori e dentro trovai un manoscritto perfettamente conservato.

    Pensai subito che il riso, contro le intemperie dell’umidità, avesse mantenuto all’asciutto la carta.

    Il manoscritto era firmato in prima pagina con il nome Iacomo e, subito vicino, c’era un’altra firma che mi sembrava Francesco.

    Le due grafie erano diverse e il documento era in ottime condizioni, tanto che pensai a un falso, ma l’ottima carta su cui era stato scritto e le condizioni ambientali, con cui fortunatamente era stato conservato, ne avevano mantenute intatte le qualità.

    Lì per lì non ne capii l’importanza, ma decisi che un giorno lo avrei letto con più calma e lo lasciai in soffitta dentro il baule.

    Il giorno seguente, mia moglie, avendo un appuntamento di lavoro, dovette ripartire per Roma e mi lasciò solo per una settimana.

    Perciò, annoiato e nervoso, presi nuovamente a mettere in ordine la soffitta e il suddetto manoscritto mi ricapitò tra le mani.

    Ricordo che quel giorno pioveva tanto e il rumore delle gocce sul tetto, sopra la soffitta, riuscì a calmarmi così tanto che decisi di iniziare a leggere subito quel documento.

    Sfogliandolo mi accorsi che era tutto scritto in volgare e, da quel poco che vidi, pochi erano i riferimenti in latino.

    Capii che quella che dovevo tradurre era una lingua poco comprensibile, ma mi rassicurai pensando che, con qualche ricerca e molta pazienza, sarebbe stato possibile adattarla facilmente all’italiano moderno, anche se poi, per mio diletto personale, lasciai qualche termine o qualche parola come erano stati scritti nel testo.

    Così, visto che ormai quel giorno avevo tempo e voglia, presi una risma di fogli e la mia penna personale, una bellissima Montblanc 246 comprata con i soldi del primo stipendio, che avevo l’abitudine di portare sempre con me, e iniziai a trasportare il testo in un linguaggio più comune e comprensibile.

    Fin da subito, per la mia traduzione moderna, mi scuso con chiunque lo leggerà, ma decisi di rendere i testi più dinamici e attuali, anche se mi attenni sempre ai dialoghi originali, pensando, magari, di lasciare in eredità ai miei figli quel manoscritto in un linguaggio più comprensibile.

    Sicuramente non ero un grande esperto, visto che la mia laurea era tutt’altro che umanistica, ma con pazienza iniziai a tradurlo.

    Dopo qualche pagina ne intuii l’importanza e, anche se non potevo essere certo della sua veridicità, di sicuro quel manoscritto mi appassionò all’istante, perciò, quel giorno, corsi spedito nella traduzione.

    Le firme iniziali, apposte sul documento, erano di sicuro due distinte e diverse, ma poi, sfogliando qualche pagina, si vedeva che lo stile e la calligrafia erano sempre della stessa mano.

    Purtroppo, anche dopo, non riuscii mai capire chi dei due, Iacomo o Francesco, lo avesse scritto o se magari fosse stata una terza persona che avesse raccolto le loro memorie per farne un manoscritto.

    Di sicuro intuii sin da subito che avevo tra le mani qualcosa di eccezionale. Dopo qualche ricerca scoprii che Iacomo era in realtà Gian Giacomo Caprotti e Francesco era Francesco Melzi, entrambi discepoli del maestro Leonardo da Vinci.

    Trovai anche che proprio a Vaprio d’Adda vi era Villa Melzi di proprietà della famiglia di Francesco; certo non capii mai come il documento si trovasse nella casa dei miei nonni, Davide e Angiola erano i loro nomi, ma il perché si trovasse in quel piccolo comune mi era più chiaro.

    In seguito, il lavoro si rivelò più difficile di quanto pensassi ed erano passati già alcuni anni senza che avessi tradotto un granché, anche perché, con il mio lavoro, mia moglie e i ragazzi da crescere, il tempo che gli potevo dedicare era sempre meno.

    La traduzione, a mano a mano, andò sempre peggio e più a rilento, tanto che passarono quasi cinquanta anni prima che terminassi del tutto il manoscritto.

    Purtroppo ci fu un lungo periodo in cui, per problemi personali, non lo tradussi più e, scoraggiato, quasi decisi di lasciar stare, ma per fortuna, passato quel bruttissimo lasso tempo, mi ci misi sotto ancora con più voglia di prima.

    Di quel documento e della mia traduzione non dissi mai nulla di preciso a mia moglie, ai miei figli o ad altri.

    Loro comunque sapevano che, ogni tanto, mi dedicavo a un mio passatempo, anche se credo che non sapessero cosa fosse di preciso, soprattutto perché, dopo tanti anni passati a leggerlo e a interpretarlo, io lo consideravo quasi il mio segreto.

    In realtà, avendolo portato con me per tutti quegli anni, era diventato più un hobby che un lavoro, era un qualcosa che dovevo fare a tutti i costi, ma, passato quel triste periodo in cui mi pesava tradurlo, ormai non mi costava più fatica.

    In più, il fatto che non lo sapesse nessuno, o che facessero finta di non saperlo, mi compiaceva tantissimo.

    Infatti, quando ci lavoravo era un momento solo per me, in cui potevo evadere; loro, quando mi vedevano preso a lavorare chiuso nel mio studio, dicevano che fosse, appunto, il mio passatempo e non mi facevano ulteriori domande.

    Certo che ora, con l’arrivo della rete internet, il mio lavoro sarebbe stato più facile e il trovare informazioni o aiuti nel tradurre mi sarebbe stato più agile, e grande fu la tentazione di consultarlo per aiutarmi, ma mai lo feci, forse perché così pensavo, ingenuamente, che il testo fosse più mio.

    Ora, dopo molti anni, e avendolo riletto molteplici volte, sono del tutto sicuro e contento del prodotto del mio lavoro.

    Ormai, l’unica cosa che mi resta da fare è dedicare e lasciare questa mia opera di traduzione a mia moglie e ai miei figli, che mi hanno sopportato così tanto in questi anni e che lo meritano più di me, soprattutto per quando toglievo loro del tempo per riservarlo al manoscritto.

    L’unica postilla, che lascio nel margine, rivolta ai miei cari, è quella di rispettare il mio ultimo desiderio, ovvero che soltanto dopo la mia morte si possa rendere pubblica l’esistenza di siffatto manoscritto.

    Anche perché, nessuno, finché sarò vivo, dovrà sapere che ci lavoravo. Ancora ogni tanto lo correggo per perfezionarlo, poiché questo era, è e sarà sempre il mio passatempo o, come mi piace pensare, il mio segreto.

    1

    Il mio maestro era sempre stato un tipo affabile, molto diverso da me e dal mio comportamento, più rozzo e burrascoso.

    Era il dì della Madonna del 1490 quando lo vidi per la prima volta, ero piccolo e spavaldo, ma subito fui ammaliato dai suoi modi gentili, dai suoi movimenti e dal fatto che parlava con chiunque gli si parasse davanti, quasi cercando di carpire i loro segreti e le loro conoscenze per farle proprie.

    Iacomo mi chiamava, ma ci vollero pochi giorni per farmi dare un soprannome più adeguato al mio comportamento.

    Leonardo capì all’istante il mio animo, ricordo quando gli rubai dei dinari dalla sua scarsella e, anche se mai confessai siddetto furto, mi accusò di essere un ladro e un bugiardo.

    Quella, negli anni insieme, non fu certo l’unica occasione in cui feci inquietare tanto il mio maestro.

    Il mio comportamento non faceva arrabbiare solo lui, ma anche altri; ricordo, infatti, quando, a casa di messere Galeazzo, per le nozze di nostro signore il Moro e della sua bellissima consorte Beatrice d’Este, rubai sempre dei soldi da una scarsella che si trovava in mezzo a dei panni stesi su di un letto.

    In quell’occasione il maestro si arrabbiò molto, ma ancor di più la bellissima Beatrice che, da lì in poi, mi guardò sempre guardinga, quasi con disgusto.

    Comunque sia Leonardo mi voleva bene e, quasi per ischerzo, da subito sostituì il mio nome Iacomo con Salai, perché per lui ero il suo piccolo diavolo o Saladino, data la mia irrequietezza che contrastava con i miei riccioli d’oro che gli piacevano tanto.

    Così, da piccolo garzone di bottega, diventai il preferito del maestro, il suo discepolo; noi due restammo sempre insieme per parecchi anni, finché non ci dividemmo.

    In quegli anni eravamo inseparabili, dovunque andava lui c’ero anch’io e il mio nome, a poco a poco, scomparve per tutti, finché, quasi dimenticando come mi chiamassi, ognuno si rivolse a me come il Salai.

    Chiedo venia al lettore, perché durante il mio racconto farò delle rivelazioni su alcuni miei comportamenti giovanili di cui non vado fiero, ma lo faccio ora come espiazione per i miei peccati e soprattutto perché accaddero degli avvenimenti bizzarri e malefici, di cui vorrei liberarmi finalmente l’anima.

    Ciò che vado a raccontare è il periodo in cui il mio maestro stava lavorando al suo affresco nel chiostro della chiesa di nostra signora, ovvero Santa Maria delle Grazie.

    Purtroppo, in quel tempo, non era molto gioviale, perché il lavoro di affresco non lo aggradava per niente.

    Leonardo era abituato a cambiare spesso idea e a correggere i suoi lavori in atto, cosa che, purtroppo, l’affresco non gli permetteva.

    Ricordo che soleva andare nella chiesa di mattina presto. Il cenacolo era alto da terra, così il mio maestro saliva sul ponte e lavorava fino a sera tardi senza mangiare o bere, rimaneva sempre con il pennello in mano a dipingere.

    Alcune volte restava solo qualche ora a contemplare e altre, invece, mentre stava lavorando allo stupendo cavallo di terracotta di Corte Vecchia, come ispirato al volo da un’idea, si dirigeva al suo affresco per dare solo due o tre pennellate.

    Il suo genio era alquanto strano ed era dura stargli dietro, anche per uno come me che aveva un carattere, diciamo, giocoso.

    Per fortuna, dopo quelle pesanti giornate lavorative, era solito rimanere in cascina a riposare per due o tre giorni, e fu proprio in uno di quei giorni che tutto accadde.

    Nel periodo in cui ci trovavamo a Milano e soggiornavamo a cascina Labola, stavo lavorando alla vigna del mio maestro.

    La cascina era composta, oltre che dalla vigna, da una villa avente un porticato con archi a sesto acuto e, al piano superiore, finestrelle archiacute con cotti.

    La nostra dimora aveva anche una torretta affrescata con un volo d’uccelli, ma era stata danneggiata dal terremoto di qualche anno prima, o almeno così mi fu detto; infine vi era un oratorio dedicato a San Gaetano alla Bolla.

    Ricordo che il mio maestro mi confidò che quella era la meta preferita da Gian Galeazzo Visconti durante le sue cavalcate, e che la conosceva molto bene, tanto che la donò al

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