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Parlami di me
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E-book268 pagine3 ore

Parlami di me

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Info su questo ebook

La giovane Vera si ritrova a casa di suo padre due mesi dopo la sua morte e s’imbatte in un album fotografico che la sorprende: quel genitore rigido e assente, uomo d’affari, appare lì vestito in modo semplice, a suo agio vicino alle reti dei pescatori. Mentre mostra alla madre, al fratello e alla sorella quelle foto, resti di un rapporto mancato che trasformano l’immagine di suo padre, Vera si scontra con la solita freddezza dei famigliari. Loro l’hanno sempre fatta sentire esclusa, invece lei si è distinta per essere una contraria alle relazioni di convenienza; studia medicina all’università, lavora presso un’agenzia immobiliare, coltiva la sua autonomia. Eppure, dietro la facciata tenace di Vera si celano varie fragilità: quelle derivanti dal senso di abbandono, dal rapporto con il fidanzato che stenta a decollare, da una delusione legata alla sua migliore amica. Un giorno lo sguardo di Vera si posa su un quadro che raffigura un paesaggio di mare al tramonto, un luogo che le suscita motivate forti emozioni. Le ricerche sul dipinto la conducono da Roma a Leonti, un paesino della Sicilia dove si mette sulle tracce del misterioso artista. Il viaggio sarà l’occasione per apprendere segreti e verità sconvolgenti sul suo passato e sulla sua famiglia, ma anche per sperimentare incontri autentici di amicizia o di amore.

Rita Perrotta, nata e cresciuta a Roma, è una mamma e una moglie che con grande gioia ha dedicato alla sua famiglia la sua vita. Rita ha scritto molti racconti ma Parlami di me è il primo che ha voluto pubblicare
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830675872
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    Parlami di me - Rita Perrotta

    cover01.jpg

    Rita Perrotta

    Parlami di me

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6927-7

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Parlami di me

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Ringraziamenti

    Dedico questa storia a mio padre Peppino con il quale, in età adulta, ho avuto la possibilità di costruire un legame profondo prima di salutarlo per sempre.

    Un grazie infinito a sua moglie Rita che mi ha incoraggiata a fare conoscere i miei racconti.

    Parlami di me

    "Frugare fra le sue cose, come mai prima d’ora, ventisette anni di estraneità, e poi ritrovarsi l’unica a dovere sistemare tutto alla meno peggio. Strani i sentimenti nel maneggiare oggetti personali, anche di vecchia data, molto familiari che però non le ricordavano assolutamente nulla. Solo due posaceneri: li aveva sempre visti sullo scrittoio dello studio di suo padre, prima che lasciasse la casa di famiglia. Erano lì, per terra fra scatole e rotoli di scotch. Le sembrava di stare a porta Portese la domenica mattina, quando verso l’ora del pranzo, sui tavolinetti arrangiati, si guarda fra curiosità e nostalgia.

    Le serrande, lasciate aperte dai precedenti visitatori che, nell’uscire, non si erano curati di chiudere i pochi resti nella loro malinconica intimità.

    Era arrivata tardi, volutamente troppo tardi. Non sarebbe voluta andare, ma non appena saputo che, di lì a due giorni, la casa sarebbe stata consegnata al nuovo proprietario ebbe il desiderio vedere cosa rimaneva di quel trasloco, l’ultimo di una lunga serie di inutili tentativi di conquistarsi l’immortalità.

    Il salone che si apre dalla porta d’ingresso, completamente foderato di legno, aumentava la sua angoscia, si sentiva come un ladro in cerca di qualcosa che non gli apparteneva.

    Suo padre, che strano, immaginare di non vederlo più non sarebbe stato difficile. Finalmente, però, aveva una scusa valida per giustificare la sua assenza.

    Scatole mezze piene su un pavimento di parquet scuro, mogano forse. Accanto alla libreria oramai spoglia, un attacca panni stile liberty di colore bordeaux sopportava una giacca mezza stagione, un trapuntino blu, il classico soprabito di tutti i giorni.

    Non avrebbe mai immaginato di venire pervasa dal desiderio di salvaguardare e dare giusta sepoltura ai resti di un rapporto mancato.

    Sul pavimento fra le scatole, sotto una pezza di stoffa damascata marrone e oro, un album di foto. La ruvida fodera di stoffa azzurra, la vuole avvertire di non andare oltre, ma oramai era lì, tanto valeva andare fino in fondo.

    Nella prima pagina solo immagini di paesaggi marini, casupole arroccate dolcemente colorate, vasi di terracotta scheggiati e infarinati dal tempo, traboccanti di grappoli di fiori, piante di pomodori e prepotenti cespugli di basilico.

    Foto troppo bene fatte, sicuramente troppo attente ai dettagli per essere state scattate da lui.

    Le pagine successive lo vedevano in confidenza con il luogo e con le persone: vicino alle reti dei pescatori al porto, fiero nel mostrare il pesce pescato, alla trattoria, sul muretto, sempre semplicemente vestito, in atteggiamento disinvolto e sereno. In una a piè di pagina, addirittura intento ad ammucchiare le reti su un piccolo gozzo di legno, in estrema confidenza con il gesto.

    Un delizioso muletto di mare, il suo nome poi... DESIDERIO.

    Ai lati del nome, due stelle marine color corallo che evidenziavano ancora di più il celeste della scritta.

    Sicuramente una bella vacanza, una ultima splendida parentesi aperta in una quotidianità fatta di tutt’altro, in fondo di niente.

    Il lavoro aveva indubbiamente inciso sulle amicizie e sulle frequentazioni, affari, società, contratti, un marasma di favori vicendevoli e traffici strani, giochi di mercato.

    Vederlo inserito in quel semplice contesto era solo possibile in una immagine statica come una foto perché, pensarlo a interagire in quel mondo, le risultava assurdo.

    Mentre cercava di lavorare di fantasia, si accorse che le immagini ritratte non raccontavano un’unica vacanza in quel paese, si trattava invece di un collage cronologicamente confuso che abbracciava un arco di tempo indefinibile, che poteva variare dai dieci ai venti anni. Infatti, qua e là, anche se panciuto e con la barba incolta era visibilmente molto più giovane. Un tonfo pesante chiuse il suo stupore fra quelle due pagine azzurre. I suoi confusi pensieri giravano come il suo sguardo, alla ricerca di altre stranezze più normali della verità alla quale era abituata.

    Una scatola di scarpe con il coperchio malconcio e lì dentro altre foto, un frullato di momenti e situazioni conservati con poca cura; la parte disordinata della sua vita era custodita così, come lui l’aveva sempre considerata.

    Il suo primo matrimonio con la madre, i figli tutti e tre, in età svariate come svariata era la loro differenza di età. La sua seconda moglie, la terza, i genitori di queste ultime due, i figli avuti dai precedenti matrimoni delle stesse. Una serie di illustrazioni della sua casa di campagna e le trasformazioni apportate a ogni cambio della guardia, insomma tutte cose da lei sapute ma volutamente dimenticate.

    Riviveva, in quei pochi momenti, tutta la rabbia grande dell’abbandono, e in quelle immagini, come violenti schiaffi, lui le sbatteva in faccia ripetutamente tutta la sua indifferenza.

    Non esiste il tempo e non c’è età che riesca a placare questi forti sentimenti, gli stessi che la spinsero ad affrettarsi a uscire.

    Non volle salvare nulla, volle lasciare tutto lì, così come meritava; tutto tranne le foto che la ritraevano e, perché no, anche quell’album, portandosi dietro il padre che avrebbe voluto.

    Finiva dunque, l’ultimo tentativo di capire chi erano loro due e uscì senza neanche salutare la giacca rimasta appesa all’attaccapanni. Le venne però voglia di chiudere le serrande, ma l’idea di rimanere anche solo per un secondo da sola al buio, lì dentro, la terrorizzava, quindi, con la stessa fretta di quando si esce tardi di casa al mattino, scappò, trascinando via anche le speranze con le quali era entrata.

    Così Vera si sgrullò di dosso tutti i pensieri, asciugando dagli occhi le illusioni.

    La strada alberata, la gente, le vetrine, tutto la riportava a normali pensieri. Parcheggiò sotto casa l’auto incastrandola a fatica dentro l’unico spazio trovato. Prese le cose rubate alla distruzione e si affrettò a chiudere la macchina perché un temporale iniziava a lavare l’aria. I primi freschi scrosci autunnali, niente le serviva di più per pulire la mente da antichi rancori e perdute occasioni.

    Le abitudini scandivano il tempo.

    In quel periodo sua madre la chiamava spesso per controllarne il suo stato emotivo dopo la perdita del padre.

    «Ciao Vera, come stai?»

    «Mamma? È successo qualcosa?»

    «No, assolutamente! Avrei solo piacere di averti a cena sabato, insieme ai tuoi fratelli.

    «Sabato? Ma è domani.»

    «Già! Avevi qualche impegno?»

    «No, direi proprio di no.»

    «Sai? Ho delle cose da dirvi riguardo vostro padre, beh non solo da dirvi, soprattutto da darvi.»

    Quale migliore occasione per mostrare qualche foto? La infastidiva però l’idea di scoprire che, dietro quella normalità, ci fosse una banale e opportunistica verità. Avrebbe voluto idealizzare più possibile suo padre. Così scelse solo due o tre immagini riguardanti un unico anno, che contenessero validi indizi per poter riconoscere il posto.

    L’odore di quella casa era piacevole, la cera dei pavimenti e il profumo dei fiori secchi che addobbavano l’ingresso, anticipavano il profumo della cena che veniva incontro a ogni passo in avanti.

    La signora Rosa, oramai settantenne, le aveva aperto la porta e prima ancora il citofono, l’aveva aiutata a togliersi il cappotto per poi riporlo nell’armadio attacca panni, quello con la luce che da sola si accende all’apertura dello sportello. Quel nascondiglio le ricordava quando da piccolina, lasciando la porta accostata per mantenere la luce accesa, ci si nascondeva e creava il suo magico mondo, trasformandolo in astronave, nella stiva di un battello, nel castello della principessa e così via. D’inverno, mentre giocava lì dentro, sentiva i profumi di tutti i suoi familiari, cappotti presi e levati che si portavano dietro odori sempre freschi e personali. Abbracciava la pelliccia della mamma affondava il viso fra i peli morbidi di visone e sentiva il profumo di quella donna. Stringeva forte e annusava.

    Il tonfo della porta dell’armadio, chiusa da Rosa, la svegliò dai ricordi.

    L’anziana donna la strinse, le scostò i capelli dal viso e controllandone l’aspetto generale le regalò il solito soddisfatto sorriso, candido come la crestina che portava formalmente sui capelli bianchi intrecciati a corona intorno alla nuca. Vera l’ammirava, le sembrava una regina.

    Sorpassando quel formale accompagno, raggiunse la madre che impeccabilmente aspettava seduta sul divano con in mano un libro. I capelli immobilizzati dalla lacca erano dello stesso colore della montatura dei suoi occhiali, un bel marrone che le scaldava la pelle color del ghiaccio. Naso affilato e rossetto completavano il suo viso. Magrissima e classicamente vestita era sempre pronta a ricevere visite.

    Aspettava di essere baciata chiudendo quelle pagine che componevano i suoi soli pensieri, porgendo col sorriso la guancia.

    «Bene arrivata, cara.»

    Mentre si scambiavano le prime frasi, suonò nuovamente il campanello. Dall’ingesso arrivava la voce di Giulio, suo fratello, che, salutata Rosa, arrivò nel salotto, baciò sua madre e lei per poi chiudersi nello studio, come d’abitudine, a telefonare, in attesa della cena.

    I vent’anni che li dividevano non erano più così evidenti. Era alto, moro, elegantissimo anche quando vestiva sportivamente. Capelli corti, così corti da risultare impettinabili. Sempre perfettamente sbarbato, mani curatissime, occhi scuri e sopracciglia sfoltite che alleggerivano uno sguardo altrimenti troppo severo.

    Di lì a poco, arrivò anche sua sorella che dopo essersi trattenuta con Rosa all’ingresso per consegnarle la cipria che le regalava ciclicamente, le raggiunse in salotto. Senza baci e abbracci si sedette a peso morto sbuffando.

    «Che giornata! Giulio dov’è?»

    «Nello studio, al telefono» rispose Vera.

    Veronica non era più una ragazza ma aveva maturato un fascino sicuro. Capelli lunghi, folti, ramati erano sempre raccolti con cura anche se sembravano appuntati a caso. Il trucco leggero degno di un professionista dell’aspetto le illuminava i tratti regolari.

    «Che impiccio! Sono due mesi, da quando papà è morto che non facciamo che sistemare situazioni sospese. Cercare di ragionare con la sua testa non è assolutamente facile, se non fosse anche per le prepotenze di quella stronza della moglie che sta cercando di rosicchiare fino all’ultimo osso. Quando si dice un matrimonio d’amore...»

    «Perché, cosa vuole?» chiese la madre cercando di mostrare minor interesse possibile.

    "Vuole chiudere tutte le questioni con il maggiore dei profitti, senza salvaguardare i rapporti con le persone con le quali noi vorremmo continuare a lavorare. E tu, sorellina, come stai, non è che per caso ci hai ripensato e sei in cerca di un lavoro?»

    Vera sorrise. I due fratelli, dopo la laurea, come predefinito, erano entrati in affari con il padre. Avevano imparato a discutere, arrabbiarsi, sghignazzare, per tutt’altri motivi che quelli familiari, trasformando la competizione che da bambini li vedeva litigare, in una sorta di caccia alla gratifica del grande e indiscusso capo.

    La separazione dei genitori non fu per Vera un trauma, infatti, rimasta sola con mamma e Rosa, nulla cambiò, le giornate rimasero le stesse, solo la sera nessuno telefonava per dire che non sarebbe venuto a cena e Rosa non toglieva nessun piatto dalla tavola apparecchiata.

    Era arrivata in ritardo, in una famiglia di adulti già organizzati, dove nessuno aveva avuto tempo da dedicarle. Solo Rosa, come sempre, la coccolava e faceva con lei tutto quello che di piacevole si poteva.

    Vera spolverava con la tata, nella speranza che se fosse avanzato tempo sarebbero potute andare in cucina a impastare fettuccine, gnocchi e torte.

    La mamma, fra partite a canasta, lezioni e tornei di bridge, aveva le ore e minuti contati e quando in quel conto rientrava lei, facevano insieme un rapido riassunto delle cose fatte e di quelle non fatte con un richiamo al dovere là dove necessario e un elogio dove opportuno. Questi erano i suoi ricordi. Sicuramente la realtà avrà avuto sfumature diverse. Sua madre, in realtà, aveva adempito impeccabilmente a tutti i suoi compiti, come anche anni addietro, lo aveva fatto per i suoi fratelli.

    Il libro sul tavolo e gli occhiali riposti sopra stavano immobili come la signora Clelia che ascoltava attentamente le notizie che provenivano dall’esterno.

    «Siete così tanto nei guai?»

    «Non è così tragica, sono solo un po’ stanca e quel lavativo di tuo fratello lascia combattere me con quei brutti maniaci terrorizzati dall’andropausa.»

    Mentre si lamentava sorrideva, lasciando intendere che in fondo quel ruolo la divertiva.

    Vera, infastidita dalle allusioni di Veronica e dall’assenso del fratello, in quei momenti godeva della fortuna di essere stata tenuta poco in considerazione. Di lì a poco, Giulio le interruppe invitandole a sedere a tavola, poi, versandosi un dito di vino bianco nel bicchiere che stava sul tavolo apparecchiato, chiese:

    «Allora, Vera, come stanno andando gli esami?»

    Quella voce la faceva agitare, specialmente se era rivolta a lei.

    «Nella norma.»

    «Già! Dimenticavo! Non hai bisogno di niente e di nessuno tu. Studi, lavori e chi sa quali altre virtù ci nascondi, signorina.»

    Sarcasmo, ironia, una cosa era chiara: era veramente presuntuoso.

    Da quando il padre era morto, poi, aveva preso l’abitudine, una volta al mese, di chiamarla per sapere se tutto andava come dovuto e lei aveva imparato a rispondere in modo da farlo stare a posto con la coscienza, insomma al suo posto.

    Cenarono e si sedettero sul divano, loro tre, la madre invece prese una sedia e si mise di fronte a loro.

    «A lungo ho pensato a quello che avrei dovuto dirvi e alla fine ho creduto opportuno far parlare le carte. Questi sono i documenti che attestano la proprietà di due case che i vostri nonni, i genitori di vostro padre, avevano donato alla nascita di Veronica e Giulio: una casa ciascuno, dandone a me e a vostro padre l’usufrutto. Vera, a te non hanno fatto in tempo perché sei nata molti anni dopo la loro morte. Io ho deciso che queste case vadano indiscutibilmente alle due figlie.

    «Tu...»

    Continuò rivolgendosi al figlio:

    «Hai ricevuto molte azioni della società e chissà quali altri favori da tuo padre. Quindi credo che la casa a te intestata vada intestata a tua sorella Vera. È la cosa più giusta. In quanto a Veronica, non ha i tuoi stessi diritti in società e neanche gli stessi profitti

    Giulio la interruppe:

    «Se è per questo, neanche le stesse responsabilità.»

    «Vorrei ben vedere, tu sei un uomo. Questo è per me un modo di sistemare equamente le cose. Ti prego, Giulio, di non porre obiezioni e di provvedere come meglio si può a fare quanto ho deciso.»

    Era ricco, non aveva interesse ad accumulare ancora tanto altro denaro, quanto forte era il bisogno di supremazia. Vera temeva che un simile gesto di magnanimità l’avrebbe costretta a prostrarsi a un Dio nel quale non credeva. Teneva alta la guardia in quel contesto immorale, nella paura di perdere quei principi o schemi di vita diversi che la facevano sentire migliore.

    «Posso almeno pensarci? Non credo che questo debba essere fatto con la massima urgenza, vorrei solo riflettere un momento.»

    Le parole di Vera suonarono come un fragoroso tuono in un giorno di pieno sole. I presenti non ne capivano né la provenienza né tanto meno la motivazione e la guardarono allibiti.

    «Signorina, stai scherzando.»

    «No Veronica, non scherzo affatto, anzi la mia risposta sarà immediata e definitiva, cioè propongo di vendere le due case e dividere il ricavato in tre parti.»

    «Quindi alla fine ci rimetto io che dovrò cedere parte della mia proprietà» ribatté Veronica.

    «Sentite bene» disse Vera con tono cresciuto e determinato «io non ho voluto il lavoro e tanto meno i soldi per il mantenimento ma questi sono fatti miei. Nulla mi è stato negato. È solo una questione di scelte e, credetemi, mi sono costate. Sicuramente anche voi pagherete un prezzo per le vostre. Io probabilmente mi sono complicata la vita, ma credo

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