L'uomo di fil di ferro
Di Ciro Kahn
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A cura di Daniele Lucchini.
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Anteprima del libro
L'uomo di fil di ferro - Ciro Kahn
Colophon
Finisterrae 41
Prima pubblicazione: Milano, 1930
Prima volta in Finisterrae: 2014
In copertina: Daniele Lucchini
Elaborazione grafica dalla copertina del 1932
© 2014 Daniele Lucchini, Mantova
http://www.librifinisterrae.com
Tutti i diritti riservati
ISBN: 9781326745301
Epigrafe
Un robot non può recar danno a un essere umano
né può permettere che, a causa del proprio mancato
intervento, un essere umano riceva danno.
Isaac Asimov, Io, Robot
Prefazione
L'uomo di fil di ferro è un gioiellino della letteratura fantascientifica italiana del '900 ingiustamente ignorato. Pubblicato una prima volta a puntate sul Giornale illustrato dei viaggi nel 1930, fu riproposto in volume nel 1932 da Sonzogno, per poi sparire dalla circolazione editoriale; a tutt'oggi ne è disponibile una sola copia pubblica presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Nel nulla resta pure il suo autore, Ciro Kahn, o Khan come riportato in un altro romanzo di genere pubblicato nel 1931 intitolato Gli astronauti del polline. Evidentemente uno pseudonimo del cui utilizzatore non si conosce alcun dato biografico.
Eppure già da questi rapidi cenni ci sarebbe materiale sufficiente per accendere l'attenzione sul romanzo. In primo luogo perché si tratta di fantascienza italiana. Genere che nel nostro paese è sempre stato snobbato da autori e critica come letteratura di bassa lega per palati poco raffinati. Uno stereotipo infondato naturalmente, poiché la fantascienza, evoluzione tecno-futuribile del fantastico, ha saputo offrire spunti di riflessione sulla società arguti e approfonditi al pari di generi considerati più nobili. Si pensi ad esempio a Cronache marziane o a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, per non dire comunque dell'importanza che lo stesso Italo Calvino, unico nel bel paese, riconobbe al genere, intuendone ed evidenziandone i collegamenti con il fantastico cinquecentesco, come attraverso un fiume carsico. Il Calvino delle Cosmicomiche evidentemente, ma anche quello del Visconte dimezzato e, ancor più, del Cavaliere inesistente.
E proprio quest'ultimo, se un antenato blasonato si vuole cercare, accosteremmo al romanzo di Kahn. Il protagonista, l'automa Zeta Otto, pur con personalità e vicende molto diverse, ricorda infatti l'Agilulfo calviniano. Inoltre gli interrogativi che l'automa si pone a proposito del rapporto con gli umani anticipano di vent'anni le tematiche della saga robotica di Isaac Asimov. Così come la Roma futuribile, in cui è ambientato il romanzo, precorre di molto tempo le metropoli di film come Blade runner e di anime come Ghost in the shell.
Il tutto però senza mai perdere la credibilità della costruzione immaginaria, che mantiene una propria verosimiglianza. Diremmo infatti che, tra le varie visioni dell'oggi proposte dalla fantascienza dell'ultimo secolo, quella di Kahn è tra le più azzeccate. Certamente non deve essere estranea la lezione del futurismo la quale, anziché inventare improbabili novità, spinge a portare agli estremi quanto già esistente. Per dirlo in altre parole: non nuove macchine, ma macchine più performanti.
E parlare di futurismo introduce l'altra importante chiave di lettura dell'Uomo di fil di ferro: il fascismo. Pubblicato in piena epoca fascista, quando ormai il regime ha rivelato il proprio vero volto, il libro risente moltissimo del suo tempo. Vi è tutta un'atmosfera militarista e gerarchista, di grandeur, di romanità, pur senza mai riferimenti espliciti alla dittatura. Così come, pur non essendovi critiche al regime, tornano ripetutamente posizioni di forte perplessità sui suoi riferimenti culturali e i suoi atteggiamenti.
E probabilmente proprio qui sta il mistero sull'identità dell'autore, che, consapevole della trasparenza delle proprie perplessità, deve aver scelto l'anonimato. Ma con ogni probabilità non ha comunque avuto modo di sopravvivere al regime. In assenza di documenti, non possiamo affermare se sia stato perseguito, ma è un dato di fatto che, dopo la caduta della dittatura, nessuno si è mai fatto avanti per rivendicare la paternità di un testo che alzava la luce del dubbio sul fascismo. E che nel corso del tempo, almeno per i lettori più attrezzati, si è venuto delineando come un gioiellino della fantascienza italiana e un antesignano, seppure ignorato, dei maggiori successi della fantascienza del dopoguerra.
Daniele Lucchini
marzo 2014
Parte prima - L'incubo
I. Il sapiente atterrito.
La «Villetta Nadir» non aveva nulla che la distinguesse dalle tante altre villette, modeste e ad un solo piano, disseminate nei dintorni della metropoli. Era tuttavia ben nota da che vi viveva E. I. Sedana: l’astronomo e filosofo insigne.
Il cancelletto cigolò lamentosamente e un individuo indistinguibile nel buio della notte ne uscì allontanandosi in fretta.
Quello che era accaduto nella villetta non fu possibile chiarirlo così presto come sarebbe stato utile. Il Sedana la mattina seguente fu trovato dalla domestica svenuto nel corridoio, nella posa di chi sia stato arrestato in un inseguimento da una visione terrifica.
Ricuperati i sensi era sopravvenuta una febbre altissima; e medici e discepoli, al capezzale del vegliardo che non riconosceva nessuno, tentarono invano di dedurre e di capire.
Nessun segno di violenza era emerso da un attento esame della villetta. Solo si era potuto accertare la presenza fino a tardi di un visitatore con cui lo scienziato doveva aver appassionatamente dissertato su argomenti molteplici, come appariva dal tavolo dello studio carico dei libri e dei trattati più diversi.
La domestica andava a coricarsi di solito verso le dieci; non senza però prima entrare nello studio del maestro a lasciargli il termos colmo di un tè molto lungo ma bollente, di cui l’astronomo aveva contratto la consuetudine nelle lunghe notti di veglia negli osservatorî.
Nel suo studio di «Villetta Nadir» non c’era più il freddo né più la snervante immobilità sulle lunghe poltrone girevoli sotto l’oculare dei gran cannocchiali, ma c’era ancora, là come nelle terrazze degli osservatori, l’indagine del Mistero, la corsa del pensiero alla conquista dell’Universo - e il tè, che stimolava le energie del vegliardo infaticabile, era rimasto.
Era stato trovato non bevuto, e anche questo concordava con l’ipotesi di una discussione serrata e drammatica.
D’altra parte la circostanza di una visita di cui la domestica non sapeva niente, iniziatasi cioè oltre le dieci, non era insolito. Frequentemente discepoli e amici avevano potuto constatare la facilità di ottenere, personalmente dallo scienziato, l’accesso a «Villetta Nadir». E una volta dentro, anche ai visitatori più riguardosi, era accaduto con facilità di dimenticare il trascorrere delle ore.
Solo elemento, quindi, eccezionale in quell’ultima conversazione, restava il suo carattere di strabiliante vastità, nella quale, sotto la pressione di un interesse supremo, dovevano essersi alternate quasi tutte le branche del sapere.
Ora chi mai era stato visitatore; solo, come indicavano una sola poltrona spostata oltre quella del maestro, una sola calligrafia sulla lavagna oltre quella del maestro; capace di originare siffatto fervore sapendo mantenervisi all’altezza per ore e ore?
Nessuno era informato del passaggio di personalità scientifiche straniere nella metropoli. Mentre solo la natura di quel visitatore, o meglio, solo la natura delle idee da costui esposte delle ipotesi da costui prospettate, poteva servire a chiarire l’essenza dei formidabile spavento provato dal vegliardo. Era stato infatti compreso che uno scienziato giunto all’apice della saggezza non può aver paura né di ombre né di creature; giacché solo le idee che non pesano ma possono pur dare la follia; solo i ragionamenti che non lasciano traccia e possono tuttavia apparire più terribili della rovina stessa che fanno intravedere, potevano aver abbattuto il maestro per nessun altro lato insidiabile.
Ma i libri compulsati erano stati molti; le formule ammucchiate sulle lavagne troppe, per poterne discernere, attraverso l’eterogeneità, il movente complessivo.
Solo una serie di formule derivate da quelle moltissime della chimica organica, che nel quadrinomio dell’Azoto, Ossigeno, Carbonio e Idrogeno racchiudono il segreto della materia vivente, parevano aver predominato. Però con quale intento?
Era curiosa e innaturale la calligrafia dell’estraneo che aveva vergate queste formule, dissimile da quella di tutte le persone da tavolino, precisa, geometrica, quasi tipografica, senza l’oscillazione e il chiaroscuro più tenue: da prodigioso fanciullo o da inumano essere senza età, senza cuore e senza nervi. E che poteva dunque il visitatore ignoto, da quelle formule che stavano alla base della vita, aver fatto lampeggiare di tanto terribile alla mente dello scienziato da tramortirlo e sconvolgerlo?
Questo si chiedevano gli intimi. Tra cui non mancarono i romanzeschi e i fantasiosi che inducendo, dallo sconvolgimento del vegliardo, qualche sua accertazione di disastri imminenti, misero in fermento