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Il ritorno dei Grandi Antichi - Parte prima
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E-book318 pagine4 ore

Il ritorno dei Grandi Antichi - Parte prima

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Fantascienza - racconti (254 pagine) - La prima parte della nuova, grande antologia dedicata alla narrativa italiana ispirata a H.P. Lovecraft, curata da Gianfranco de Turris.


Il pantheon alieno (nel senso etimologico e fantascientifico del termine) creato dal Maestro di Providence, di cui il Grande Cthulhu, che giace sognando nella sommersa R’lyeh, è l’espressione simbolica e conosciuta per eccellenza, è ancora oggi popolarissimo. Mi sembrava il caso, dopo tanti anni, di trarre una specie di bilancio di questa potente fonte ispirativa, ed ho chiesto di cimentarvisi sia ad autori vecchi che nuovi, non intendendo i due termini solo dal punto di vista dell’età anagrafica, ma anche di quella letteraria. Le idee dei ventisette autori che fanno parte di questa antologia, divisa in due parti, sono le più diverse, direi soprattutto le più inaspettate, al di fuori dei luoghi comuni e dei cliché che per decenni hanno caratterizzati i racconti “alla Lovecraft”, ma anche quanto a “genere” non si cade nella ovvietà: non ci sono soltanto le storie di puro orrore, non mancano le storie poliziesche, le storie d’amore, la pura cronaca e addirittura il grottesco, l’umoristico, il sorprendente e il surreale, lo psicologico e il metaletterario. Non si rabbrividisce soltanto, si sorride anche, e spesso ci sono ipotesi che ti lasciano interdetto, sollevano dubbi e inquietudini. Non faccio nomi esemplificativi per non far torto a nessuno e per lasciare il gusto della scoperta e della sorpresa, ma tutti meritano, e lo dice uno che è diretto interessato, avendoli scelti! (dall'introduzione di Gianfranco de Turris)


Gianfranco de Turris (Roma, 1944) è uno dei protagonisti del fantastico in Italia fin dagli anni Sessanta. Autore di numerosissimi saggi sul fantastico in generale e sulla protofantascienza italiana e l’ucronia in particolare, ha curato e scritto prefazioni di molti volumi di J.R.R. Tolkien, H.P. Lovecraft e Gustav Meyrink, ma anche di  Daniel Halévy, Stanislaw Lem, Ayn Rand e Volt. Ha curato la sezione narrativa di Oltre il cielo e negli anni settanta insieme a Sebastiano Fusco diverse collane della casa editrice Fanucci. Ha collaborato con Linus e L’Eternauta. Nel 2004 ha vinto il Premio Saint Vincent per il giornalismo per il suo lavoro al Giornale Radio Rai.

LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2020
ISBN9788825413151
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    Anteprima del libro

    Il ritorno dei Grandi Antichi - Parte prima - Gianfranco de Turris

    9788825413168

    Introduzione

    Antichi, grandi e piccoli, vecchi e nuovi

    Gianfranco de Turris

    Poiché non è morto ciò che in eterno può attendere,

    e con il passar di strane ere anche la morte può morire

    Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn.

    Con un espediente non certo nuovo chiediamo alla Lampada di Aladino della modernità, vale a dire Google, quante volte il nome Lovecraft è citato nella Rete Mondiale a inizio luglio 2020: la risposta è circa 21.100.000 risultati trovati in 0,53 secondi. Se invece chiediamo quante volte risulta il nome Cthulhu otteniamo circa 30.500.000 risultati in 0,54 secondi.

    Sorpresa! La creatura supera il suo creatore per quasi dieci milioni di citazioni. Per quel che possono valere dati generici di questo tipo, sembrerebbe che in termini quantitativi l’essere, divenuto sempre più il simbolo dei Grandi Antichi pur non essendo stato il primo concepito dallo scrittore, protagonista del racconto del 1926, è maggiormente diffuso, e quindi noto e famoso, si dovrebbe dedurre, di colui che lo fece scaturire dalle profondità marine e dalla propria immaginazione.

    Non è una novità assoluta, certo, dato che ad esempio Sherlock Holmes è più famoso di Arthur Conan Doyle, Tarzan di Edgar Rice Burroughs e Perry Mason di Erle Stanley Gardner, solo per rimanere nell’ambito della narrativa popolare: spesso personaggi di questo tipo assumono quasi una specie di vita autonoma rispetto ai loro ideatori. La Fantasia, grazie ai lettori, fa aggio sulla Realtà, ma nel nostro caso colpisce particolarmente, dato che da un lato H.P. Lovecraft viene unanimemente considerato un vero Maestro insuperabile in questo genere letterario, il più apprezzato di tutti, e dall’altro Cthulhu è il non plus ultra della mostruosità immaginabile, non un personaggio umano. Ma forse la risposta è proprio in tale paradosso: HPL, in quanto vero Demiurgo – trent’anni e più fa lo definii l’Ultimo Demiurgo – ha letteralmente creato degli esseri, delle entità, delle mostruosità che man mano hanno assunto una loro identità specifica, quasi estraendoli dall’Inconscio Collettivo, e proprio per questo riconosciuti e accettati inconsciamente dalla totalità dei lettori in ogni parte del mondo, dato anche che Lovecraft è stato tradotto in ogni parte del mondo. Non sono dunque mostri di cartapesta, come infelicemente li definì un intellettuale peraltro di valore come Giorgio Manganelli, ma qualcosa di più, di molto di più.

    Il pantheon alieno (nel senso etimologico e fantascientifico del termine) creato dal Maestro di Providence, di cui il Grande Cthulhu, che giace sognando nella sommersa R’lyeh, è l’espressione simbolica e conosciuta per eccellenza, è infatti popolarissimo. Ci si potrebbe chiedere il perché, ma per la verità lo era sin da quando Lovecraft era vivo e scriveva prima sulle riviste amatoriali e poi sui pulp magazines, tanto che, come è ormai notissimo, non solo affascinò i lettori, ma anche i molti suoi giovani amici che, a loro volta scrivendo e pubblicando, utilizzarono le sue entità e sulla scia della loro suggestione ne idearono diverse altre di contorno. Morto HPL nel 1937, la sua fama si accrebbe prima per merito di August Derleth, che fondò una casa editrice, la Arkham House, per diffondere i suoi scritti e quelli di altri autori del medesimo filone, poi anche con la sua personale prolificissima attività di narratore (non sempre all’altezza come stile e originalità). Il risultato fu che la mitologia lovecraftiana camminò con le sue gambe e altri autori, non solo di lingua inglese, ne continuarono l’opera e l’elaborazione creativa.

    Oggi la Mitologia di Cthulhu, grazie anche prima ai fumetti e ai giochi di ruolo e adesso a Internet, possiamo constatare essere diventata affollatissima. Come minuziosamente riporta An H.P. Lovecraft Encyclopedia di S. T. Joshi e David E. Schultz (Hippocampus Press, New York 2001), le entità citate dallo scrittore in racconti (suoi o scritti per conto terzi), poesie, saggi e lettere sono venti, comprese quelle che egli riprese da storie di altri (F.B. Long, A. Bierce, C.A. Smith). A queste bisogna aggiungerne altrettante ideate dai suoi amici e corrispondenti, Lovecraft vivente, in particolare Howard, Smith, Bloch, Derleth e Kuttner.

    Negli anni successivi alla sua morte e man mano che si diffondeva la sua popolarità e quella dei suoi Miti, decine e decine di altri autori hanno contribuito ad accrescere il pantheon, portandolo a non meno di duecento entità (cfr. The Cthulhu Mythos Encyclopedia di Daniel Harms, Elder Signs Press, Lake Orion, Michigan 2008). Un dato per difetto, poiché come si vede risale a oltre dieci anni fa. Se poi aggiungiamo le opere in lingue diverse dall’inglese, e oltre alla narrativa consideriamo anche giochi di ruolo, videogames, fumetti e pastiches vari, la cifra agevolmente raddoppia. Il portale The H.P. Lovecraft/Wiki riporta del resto circa trecentosettanta nomi, ma riconosce di essere incompleto e tratta soltanto materiale in lingua inglese.

    Il Solitario di Providence, quando si immaginò le sue prime entità, Azathoth e Dagon, senza avere in mente una vera e propria struttura cosmogonica organica, non avrebbe mai immaginato che questi prodotti della sua fantasia avrebbero avuto tanto successo e diffusione in tutto il mondo, e non solo fra i suoi più stretti amici. Forse nemmeno i popolatissimi empirei delle culture centro e sud americane ne contano tanti…

    Quindi, torniamo alla domanda inziale: perché tanta notorietà e fascino? In fondo si tratta di mostri, no? Peraltro mostri particolarmente orribili, compositi e impressionanti. Molto più complessi e fuori dell’ordinario rispetto a quelli di derivazione ottocentesca cui si era abituati fino a che non è comparso sulla scena letteraria H.P. Lovecraft, che ha sconvolto il modo non solo di scrivere ma di concepire la storia dell’orrore, modificandone il canone. Tutti conoscono le definizioni di Jacques Bergier (un Edgar Allan Poe cosmico) e di Fritz Leiber (un Copernico letterario) che indicano sinteticamente la sua rivoluzione narrativa e ideologica. Questo il punto: gli esseri immaginati da HPL non sono semplici comprimari utilizzati per incutere terrore nei personaggi delle sue storie e nei lettori, ma veri e propri protagonisti intorno a cui ruotano le trame e quindi hanno un loro significato profondo che non è stato compreso subito.

    Come accennato, lo scrittore non partì con un progetto ben preciso, ma queste sue entità cosmiche nacquero poco alla volta, a partire da Dagon, che poi è il nome di una divinità acquatica mesopotamica, cui dedicò l’omonimo racconto nel 1917, quando la Grande Guerra era in pieno svolgimento; seguirono poi man mano tutti gli altri, abbozzati o esplicitati, a partire da La città senza nome del 1921. Divinità che si inserirono nella sua geografia fantastica con al centro le città di Arkham (una Providence visionaria), Dunwich, Innsmouth e così via, sino a giungere ad una strutturazione quasi definitiva col romanzo Le montagne della follia del 1931, pubblicato postumo. Ma in realtà HPL non spiegò mai esattamente come intendesse queste sue divinità cosmiche, se non che erano del tutto estranee all’umanità, di cui non s’interessavano affatto.

    È stato August Derleth, suo amico e discepolo, ma cattolico e non agnostico come il suo maestro, a tentare di darne una sistematizzazione, alla quale diede il nome complessivo appunto di Miti di Cthulhu, ed una spiegazione, organizzando queste divinità come fossero una specie di pantheon parallelo alla religione cattolica. Impostazione comunemente accettata sino a che è comparso sulla scena della critica lovecraftiana il professor Dirk W. Mosig, studioso di formazione junghiana, che, oltre a proporne un nuovo nome (Ciclo mitico di Yog-Sothoth) imperniato sulla divinità considerata più significativa e che a quanto pare usava lo stesso HPL, ne ha avanzata una ben più profonda e valida interpretazione simbolica, maggiormente consona alla cultura del suo creatore: tutte queste divinità, orribili ai limiti dell’indescrivibile, sono la proiezioni del nostro inconscio di uomini che vivono in una civiltà modernissima e alienante ormai al declino che sta rinnegando se stessa, la sua cultura, le sue radici, e non certo gli incubi personalissimi dello scrittore americano, secondo una banale interpretazione freudiana, e dove ogni entità rappresenta un aspetto pervertito del suo (e nostro) tempo (entrambi i testi di Derleth e Mosig, questo in prima edizione mondiale, sono nella antologia I Miti di Cthulhu pubblicata per Fanucci nel 1975 e da ultimo in una versione molto ampliata negli Oscar Draghi Mondadori nel 2019 grazie all’interessamento di Giuseppe Lippi, scomparso improvvisamente poco prima della sua stampa).

    Come si scrisse ormai molto tempo fa, si ha l’impressione che Lovecraft utilizzasse le sue creature filtrate dalle stelle sulla Terra per demolire, materialmente e metafisicamente, una civiltà in cui non si riconosceva rappresentando in ognuna di esse i diversi aspetti negativi, anzi negativizzati, di una società sulla via della decadenza, un piano inclinato inarrestabile e che lui vedeva intorno a sé ogni giorno.

    L’idea di trasferire i Miti di Cthulhu da noi, affidandone la rielaborazione ad autori italiani e possibilmente ambientandoli in Italia, la ebbi alla fine degli anni Ottanta leggendo le storie inviate al Premio Tolkien promosso dall’editore Solfanelli tra il 1980 e il 1993 e su stimolo di Giuseppe Lippi durante un incontro milanese. In fondo HPL già allora aveva un suo ampio pubblico di appassionati; non eravamo da meno degli altri Paesi del mondo, lo si leggeva ed apprezzava da una ventina di anni. Ne scaturì una antologia dal titolo esemplificativo: Gli eredi di Cthulhu (Solfanelli, 1990), dove si provava che anche i nostri scrittori avevano la capacità inventiva di realizzare storie che non fossero semplici calchi e scopiazzature degli originali di Lovecraft & C., così come in precedenza avevano dimostrato la loro capacità nello scrivere una heroic fantasy all’italiana, tesi da me sostenuta appunto dall’epoca del Premio Tolkien, nonostante le incredule ironie di alcuni critici dell’epoca che parlarono addirittura di… nazionalismo! Mah…

    Dopo trent’anni giusti, questo Il ritorno dei Grandi Antichi ne è il seguito ideale, sia nel titolo che nell’ispirazione di fondo: vale a dire ambientare le divinità ideate da HPL, ma anche di nuovo conio, nel mondo di oggi, nel XXI secolo, in cui si è accelerato quel piano inclinato di cui si diceva, la società italiana e planetaria è in una profondissima crisi che coinvolge tutti i suoi aspetti: personale e generale, morale, sociale, politico, sentimentale, emotivo, economico, esistenziale. E se dietro di essa ci fossero i Grandi Antichi, seppur indifferenti nei nostri confronti? Di fronte a tanto caos inspiegabile razionalmente potrebbe essere una spiegazione di fronte alla impossibilità di trovarne altre alla luce della ragione…

    Mi sembrava il caso, dopo tanti anni, di trarre una specie di bilancio di questa potente fonte ispirativa, ed ho chiesto di cimentarvisi sia ad autori vecchi che nuovi, non intendendo i due termini solo dal punto di vista dell’età anagrafica, ma anche di quella letteraria: autori che scrivono da molto e a me noti, spesso amici di antica data, e autori più recenti, meno noti, certe volte quasi esordienti. Un modo anche per effettuare un confronto stilistico e creativo fra generazioni, e mi pare che il risultato sia notevole, perché tutti hanno avuto idee originali, nessuna delle quali si sovrappone ad altre del passato. Anche perché tutti, ovviamente, sono devoti a Lovecraft e alla sua mitologia che dopo trent’anni dall’esperienza precedente si è vieppiù radicata fra gli scrittori italiani dell’Immaginario, considerando che la sua analisi ed interpretazione è stata approfondita e non si scrive soltanto sotto l’impressione del momento. E così, in queste pagine, tra i vecchi sono riuscito a riunire diversi Premi Urania o autori che hanno pubblicato romanzi sulla rivista mondadoriana, alcuni nomi ormai noti oltre la specializzazione, una scrittrice ben nota nel romanzo storico, due altrettanto ben noti sceneggiatori cinematografici e di fumetti, il direttore di una rivista letteraria, un esperto di imaginario letterario e filmico.

    Il lettore troverà quindi sia divinità del pantheon classico lovecraftiano, fra cui primeggia Nyarlathotep, sia alcune del tutto inedite che si aggiungono alle innumerevoli di cui si diceva all’inizio. Tutte orripilanti e imprevedibili, e certe volte addirittura sorprendenti per il modo di presentarsi e agire dietro le quinte. Ci sono storie che danno veramente da pensare su quanto ci circonda, anche se nessuna trama, eccetto un accenno nell’ultimo racconto arrivato ed accettato, a causa del termine fissato come chiusura della antologia avvenuta durante la cosiddetta quarantena, ha fatto in tempo a immaginare qualcosa collegato al nuovo coronavirus che nella sua immagine a tutti ormai nota, avrebbe potuto benissimo essere un piccolo-grande Antico!

    Divinità che si annidano e manifestano in forme molteplici dappertutto: nella metropoli e nella provincia profonda, nelle piscine e nelle soffitte, nelle trasmissioni televisive e nell’ambiente cinematografico, nel sottosuolo e in mare, in Vaticano e sulle coste dell’Atlantico, nelle trattorie e fra i gruppi di musica estrema, nei laboratori scientifici e negli apparati burocratici, in case ultramoderne e negli ipogei dimenticati, sotto i campanili e in cantine smisurate, negli ospedali e in alberghi abbandonati… Possono infiltrarsi grazie alle figurine che maneggiano i ragazzini e alle notizie false prodotte da speciali agenzie d’informazione, i talk show e le scoperte archeologiche, ma anche attraverso una stirpe di donne che li ospita nelle loro viscere.

    Le idee dei ventisette autori che fanno parte di questa antologia sono le più diverse, direi soprattutto le più inaspettate, al di fuori dei luoghi comuni e dei cliché che per decenni hanno caratterizzati i racconti alla Lovecraft, ma anche quanto a genere non si cade nella ovvietà: non ci sono soltanto le storie di puro orrore, non mancano le storie poliziesche, le storie d’amore, la pura cronaca e addirittura il grottesco, l’umoristico, il sorprendente e il surreale, lo psicologico e il metaletterario. Non si rabbrividisce soltanto, si sorride anche, e spesso ci sono ipotesi che ti lasciano interdetto, sollevano dubbi e inquietudini. Non faccio nomi esemplificativi per non far torto a nessuno e per lasciare il gusto della scoperta e della sorpresa, ma tutti meritano, e lo dice uno che è diretto interessato, avendoli scelti!

    Leggere dall’inizio alla fine per rendersene conto.

    Concludo con uno speciale ringraziamento all’amico di sempre Antonio Tentori: infatti l’idea originale di questa antologia è nata durante una conversazione conviviale del marzo 2019 in cui si parlò di cosa sarebbe stato possibile fare di nuovo intorno ad un tema ormai sfruttatissimo come quello di Lovecraft. Alla fine l’idea cadde sulla presenza delle entità di HPL nel mondo di oggi e in molti dei suoi mali e sul titolo scelto dopo diverse varianti.

    Gianfranco de Turris

    PS. La mia idea iniziale era anche di realizzare quella che potrebbe essere la mia ultima antologia lovecraftiana, una specie di summa qualitativa dopo tanti anni di lavoro in questo ambito narrativo, un indiretto omaggio a HPL e al suo universo immaginativo. Mi sono però fatto prendere da un entusiasmo senile e in un anno e mezzo mi sono trovato fra le mani un volume… mostruoso, anche se ho come attenuante un paio di motivi non previsti, uno dei quali è che ho ricevuto molte storie di una lunghezza fuori norma per la media delle antologie, purtroppo ottime, nonostante gli asciugamenti richiesti che non potevano andare oltre certi limiti; l’altro motivo è che mi sono giunti in limine dei contributi che ormai non mi aspettavo più di ricevere, e anch’essi di qualità. La soluzione l’ha trovata l’editore, dividendo l‘antologia in due tomi pressoché equivalenti da pubblicare a breve distanza uno dall’altro, con le storie in ordine alfabetico di autore, divise in quattordici e tredici. Spero proprio che la qualità di entrambi inviti i lettori a non farsi sfuggire quello che non conoscono ancora.

    Quando le stelle si spensero

    Donato Altomare

    Epilogo

    Non se ne accorsero subito. Non era facile notarlo, ma una alla volta le stelle cominciarono a spegnersi.

    Non c’era un ordine preciso, scomparivano casualmente, piccole, grandi, bianche, gialle, rosse, in tutti i punti dell’universo.

    – Non riesco a vedere la costellazione del Cancro.

    Il ragazzo armeggiava col piccolo ma potente cannocchiale che suo padre, un astrofisico di fama, gli aveva regalato.

    L’uomo sorrise: – Declinazione 20°, ascensione retta 9h. Guarda bene, tra i Gemelli a ovest e il Leone a est. Fa’ attenzione, nonostante le sue stelle siano di media grandezza, sono meno luminose di quelle dei Gemelli.

    – Lo so, lo so, sto cercando β Cancri, quella arancione, ma non riesco a inquadrarla.

    Il padre sorrise ancora e si avvicinò. A occhio nudo era abbastanza difficile individuare quella costellazione, bastava un minimo inquinamento luminoso e spariva, figuriamoci una singola stella. Accostò l’occhio all’Orion. Senza dubbio poco più di un giocattolo per lui, ma in grado di raccogliere duecentosettanta volte più luce rispetto all’occhio umano. Grazie alla focale corta e all’ampio campo visivo riusciva a mostrare anche gli ammassi aperti, perfetto per chi muoveva i primi passi nell’astronomia, e il ragazzino aveva appena dieci anni.

    Restò qualche istante a osservare la costellazione, poi sollevò il capo aggrottando la fronte. Suo figlio aveva ragione. Non c’era. La β Cancri non c’era più. Tornò a guardare mettendo l’ingrandimento al massimo. Nulla.

    Scompigliò i capelli del ragazzino con un sorriso forzato, poi tornò in casa. Disse a sua moglie che doveva uscire, ma non le diede spiegazioni.

    – A quest’ora? È pronto in tavola.

    Lui però era già fuori, dopo aver indossato frettolosamente il giaccone. Per fortuna la donna era avvezza a quelle fughe, era pur sempre la moglie di un professionista legato ai capricci del Creato. Sollevò le spalle e chiamò il figlio a tavola. Durante la cena il ragazzino non parlò d’altro che di una stella ch’era scomparsa.

    Per tutto il tragitto l’astrofisico cercò mille ragioni per cui non era riuscito a vedere la stella, ma non ne trovò nessuna plausibile.

    Aveva appena messo piede nell’osservatorio, attivo ventiquattr’ore su ventiquattro, che il cellulare reclamò con ottusa insistenza la sua attenzione.

    Un collega gli parlò in tono concitato.

    Betelgeuse era scomparsa.

    Presero a sparire una dopo l’altra, spegnendosi come candele che avevano esaurito lo stoppino, lasciando vuote macchie di nero nel firmamento prima quasi indistinguibili, poi sempre più ampie.

    Tutti i telescopi della Terra furono puntati verso il cielo notturno in qualunque settore della volta butterata dalle stelle. Man mano che il Sole calava oltre l’orizzonte, gli sguardi umani e tecnologici si puntavano in altro. Sbalordendo.

    Perché la velocità con cui le stelle si spegnevano diventava sempre maggiore.

    Poi anche il Sole prese ad attenuare la propria luminosità.

    Ma, per grazia di Dio, non si spense.

    1

    L’aula magna dell’università era colma all’inverosimile. Astronomi e astrofisici discutevano fittamente tra loro. Ognuno cercava una spiegazione, ognuno faceva un’ipotesi. Eppure nessuno riusciva a convincere l’interlocutore.

    – Signori, per cortesia, un po’ di silenzio!

    Il fastidioso vociare continuò.

    Con insolita forza Ettore Spada, direttore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica di Roma, che aveva convocato in maniera informale quella riunione non certo programmata, colpì con un pugno la cattedra, riuscendo così a richiamare l’attenzione dei colleghi. Attese che un educato silenzio tornasse nella sala e disse: – Cerchiamo di essere scientifici e pragmatici. Ci troviamo di fronte a un fenomeno che ancora oggi, nonostante sia stato accertato, definirei impossibile. C’è qualcuno che ha una teoria in merito? In tal caso, si accomodi qui.

    Nuovo caos. Tutti avevano ripreso a parlare.

    Ancora il pugno: – Così non andremo da nessuna parte, colleghi. Per cortesia, chi vuol esporre la propria opinione si avvicini.

    Un astronomo alquanto giovane fece quasi un balzo in avanti, afferrò il microfono e cominciò: – È un semplice fenomeno ottico.

    Il professor Spada scosse il capo: – Le stelle non soltanto si spengono, ma scompaiono del tutto. Non c’è massa laddove una volta c’era una stella luminosa. Nulla di nulla, il vuoto assoluto. Qualcun altro?

    – Una distorsione temporale – bofonchiò una scienziata di mezz’età.

    Fu una vana processione. Alla fine si capì una sola cosa: non c’era una spiegazione valida. Si parlò del fenomeno della sublimazione. Scientificamente possibile, ma mai rilevato. Magari si sarebbe potuto verificare per una stella o due, ma tante, una dietro l’altra, no… Si ricorse all’antimateria che, entrando in contatto con le stelle, le annichiliva, ma era dimostrato, senza ombra di dubbio, che nell’universo conosciuto di antimateria ve n’era davvero pochissima, forse neanche sufficiente per una sola stella, figuriamoci centinaia e centinaia. Eppoi sarebbero esplose, non si sarebbero spente. Uno scienziato parlò della teoria del Multiverso e un altro tirò in ballo la relatività ridotta. Insomma, si annaspava nel buio più totale.

    Buio sul buio. Poi…

    – Le stelle vengono divorate.

    Tutti si girarono verso la fonte di quell’incredibile affermazione.

    Chi aveva parlato era un uomo abbastanza anziano che, seduto un po’ in disparte, aveva ascoltato tutti in concentrato silenzio.

    – Lei è un astrofisico o un astronomo?

    – No, sono un professore di filosofia. E devo purtroppo dirvi che l’universo sta morendo.

    Qualche sorriso fu subito spento dall’occhiataccia di Spada, che disse: – La morte dell’universo è un concetto troppo ampio e complesso per essere liquidato in poche parole. Non c’è bisogno di essere uno scienziato per capire che ci vorranno miliardi di anni perché l’universo muoia. Ancora oggi siamo in fase di nascita, lo confermano gli ammassi stellari di neoformazione. La ringrazio per l’apporto al nostro dibattito, ma le assicuro che la scienza è differente dalla filosofia.

    Il vecchio professore non si scompose e replicò: – È proprio per questo che riaffermo: l’universo sta morendo.

    – Ci dica qualcosa di più, allora, se ne è tanto convinto.

    Nonostante restasse ben lontano dalla cattedra e quindi dal microfono, la sua voce stentorea era ben udibile nella sala, dove tutti erano in speranzoso silenzio.

    – C’è un libro…

    – Conosciamo tutte le pubblicazioni del settore, non c’è nulla di edito o in corso di stampa che non abbiamo esaminato. Eppure nessun testo può aiutarci di fronte a questo incredibile evento.

    – Io mi riferisco a un libro di narrativa.

    Risatine contenute. Persino il direttore dell’INAF stentò a mantenere ferma la voce: – Un libro di… narrativa?

    – Esatto. Il titolo certo non lo conoscete, posso però dirvi che è di un autore oggi famosissimo: Howard Phillips Lovecraft. La maggior parte dei suoi estimatori pensa che le sue siano storie inventate, frutto di una cupa fantasia. No, non è così, c’è autentica veridicità nelle leggende sul mondo dei Grandi Antichi e del mostruoso Cthulhu, un essere abominevole che ha vomitato la Terra e l’ha dominata prima degli uomini. Cthulhu dorme nelle vaste profondità abissali in attesa di riappropriarsi del suo regno.

    Questa volta le risate furono sonore e Spada non provò neanche a farle cessare. Poi al microfono disse: – Sta parlando dei Miti di Cthulhu e compagnia bella?

    Il vecchio annuì. Sembrava come spiritato: – Sto parlando di loro, i Grandi Antichi.

    La serietà con cui pronunciò quelle parole smorzò le risate. Erano state dette con lo stesso tono di quando uno scienziato enuncia una nuova scoperta scientifica.

    – Professor…?

    – De Tassis, Giuseppe De Tassis.

    – Professor De Tassis, convengo con lei che la letteratura del Solitario di Providence è davvero interessante, è stata parte preponderante della mia vita culturale da giovane, ma cosa c’entra con la scienza?

    – Noi siamo avvezzi a separare la cultura letteraria da quella scientifica, presupponendo che non ci possa essere legame tra le due, ma quante scoperte sono state fatte sulla base di illazioni letterarie? Il volo umano per gli antichi era impensabile, semplici favole, ma, a partire da Leonardo, lo si è cominciato a trasformare in scienza. Un sogno letterario

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