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I signori di Roma. Storia e segreti
I signori di Roma. Storia e segreti
I signori di Roma. Storia e segreti
E-book875 pagine12 ore

I signori di Roma. Storia e segreti

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Info su questo ebook

Una galleria di volti dipinti e scolpiti nel tempo. Una rassegna di voci che risuonano ancora tra i marmi antichi. Una vita dopo l’altra, da Cincinnato ad Alberto Sordi, di alcuni dei personaggi che più hanno contato nella storia della Città Eterna. Dalla spregiudicata intelligenza di Cesare alla smisurata autostima di Cicerone, dalle fortunate avventure politico-militari di Scipione ai progetti sanguinosi di Giulio II, il “papa guerriero” che amava il potere della Chiesa quanto l’arte di Michelangelo; dagli intrighi della seducente matrona Marozia, che crebbe nel letto di un papa, alle fantasie maliziose di Gian Lorenzo Bernini, fino al gusto predatorio del cardinal Borghese, il collezionista invasato. E ancora, San Filippo Neri, il santo vagabondo delle strade di Roma, e il “soldato di Dio”, Ignazio di Loyola, che intuì la modernità prima che questa si mostrasse agli uomini.

La storia della Città Eterna attraverso i personaggi che ne hanno segnato la grandezza, dall’antichità ai giorni nostri

Tra i personaggi descritti nel libro:

• Cincinnato

• Scipione l’africano

• Giulio Cesare

• Augusto

• Mecenate

• Nerone

• Marco Aurelio

• Costantino

• Bonifacio VIII

• Cola di Rienzo

• Pasquino

• Donna Olimpia

• Cristina di Svezia

• Giovanni Battista Piranesi

• Giuseppe Gioachino Belli

• Ciceruacchio

• Anna Magnani

• Alberto Sordi

e tanti altri

Stefano Lamorgese

Nato a Roma nel 1966. Maturità classica, laurea in Lettere a Roma con una tesi dedicata al teatro didattico della Compagnia di Gesù. Dal 1990 lavora come giornalista per la RAI. Ha insegnato presso le Università di Urbino e di Perugia. Oggi è docente presso il dipartimento di studi storici dell’ateneo di Ferrara.
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2015
ISBN9788854187085
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    Anteprima del libro

    I signori di Roma. Storia e segreti - Stefano Lamorgese

    es

    348

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8708-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Stefano Lamorgese

    I signori di Roma

    Storia e segreti

    omino

    Newton Compton editori

    Alla mia grande famiglia

    e a P.P. che ne è membro onorario

    Introduzione

    A Roma, scrisse Goethe, «si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l’una e l’altro, la nostra immaginazione». Il grande tedesco – quasi due secoli e mezzo ci separano dalle sue parole – non poteva immaginare quanto sarebbe accaduto, dopo di lui. La città nella quale era nato, Francoforte sul Meno, era stata degna della prima citazione storica alla fine dell’viii secolo d.C., millecinquecento anni dopo la mitica fondazione di Roma. Non stupisce quindi l’emozione del poeta: «Quando si considera un’esistenza simile, vecchia di duemila anni e più, trasformata dall’avvicendarsi dei tempi in modi così molteplici e così radicali, e si pensa che è pur sempre lo stesso suolo, lo stesso colle, sovente perfino le stesse colonne e mura, e si scorgono ancora nel popolo tracce dell’antico carattere, ci si sente compenetrati dai grandi decreti del destino». Magniloquente. E c’è del vero in quelle parole. Tra quelle colonne, tra quelle rovine, su quei colli, visse un papa che parlava con gli angeli e un altro che, in armi, conquistò una città. Generali che usurparono l’impero, sostenuti da legioni di barbari urlanti e temibili. Nobili discendenti di re che saggiamente si piegarono a principi più gloriosi di loro. Filosofi amanti della pace con indosso l’armatura di bronzo e soldati brutali, ma in vesti femminee. Assassini senza riconoscenza e corruttori stracolmi di dignità. E sangue, fiamme, sperma, feci, cadaveri, croci, labari, incenso e veleni. Condottieri rivoluzionari e austeri padri della patria, difensori di tradizioni che si dissolvevano sotto i loro occhi. Donne maliziose e febbrilmente innamorate del potere, seduttrici degli eredi di Pietro; o astute manovratrici di pallide marionette incoronate o vestite dei paramenti sacri. Cani dormiglioni ed eroiche oche. Manigoldi dal rapido pugnale e santi dalla battuta pronta. Schiavi sapienti e padroni prepotenti. Poeti capaci di distillare nel vernacolo l’immensa sapienza che fermentava loro intorno e – persino – politici onesti, immersi nella modernità e colmi di un orizzonte di speranza che potevano appena intravedere. Gladiatori senza pietà e martiri della fede. Ricchi liberti lussuriosi assaliti dalla gotta e irascibili ed esigenti mecenati rinascimentali. Costruttori di acquedotti e riformatori del calendario. Magistrati tutti d’un pezzo ed esattori neghittosi. Avvocati rampanti e ambiziosi; aristocratici che a ogni costo si fecero plebei. Statue parlanti e irrequiete regine scandinave. Fieri fustigatori della morale e fondatori di Ordini religiosi. Imperatori artisti ed eroi faceti dei rioni popolari. Vittime immolate sul rogo e penitenti visionari. Tagliatori di torri e lanzichenecchi. Collezionisti in tonaca dall’occhio rapace e osti generosi, sobillatori del popolo. Banchieri di talento e strozzini con gli artigli. Nobili di basso rango e plebei dalla grande anima. Sacerdoti e cavalieri. Briganti, inquisitori e primedonne. Il popolo di Roma, da quasi tremila anni, è una galleria di maschere senza eguali.

    Scegliere tra un così vasto repertorio di umanità, nel quasi sterminato patrimonio di testimonianze di ogni tipo che ne documentano la storia, è un compito ingrato, persino velleitario; e il risultato è sempre ambiguo, ingiusto, arbitrario. Scrivere una Storia di Roma è un compito così ambizioso che rischia di gettare nel ridicolo chiunque vi si cimenti. Saranno sempre troppi gli esclusi, troppi i maltrattati, troppi i sopravvalutati. Impossibile non esserne consapevoli.

    Eppure questa non è, né vorrebbe essere una Storia di Roma come tante altre. È invece una pinacoteca, una galleria, una collezione di graffiti, una rassegna di volti e nomi; una crestomazia di curiosità e di storie che, come tessere di un mosaico antico e pertanto inevitabilmente mutilo, permettono tuttavia di ricostruire i baluginanti caratteri di un’idea, di un luogo che – Goethe l’aveva capito benissimo – ha troppa storia alle spalle per poter essere ridotto alla gloria o alla fama di un singolo nome, d’un semplice titolo, di una pur magnifica funzione. Per quanto celebri, importanti, fastosi siano stati, i presenti e gli assenti sono soltanto una parte del tutto; sono soltanto interpreti, virtuosi o mestieranti, che hanno calcato il plurimillenario palcoscenico dell’Urbe nell’arco, sempre troppo breve, della loro vita. Come a teatro, nel teatro dell’arte, i ruoli sono quasi tutti prefissati dalla tradizione. Gli interpreti, invece, ruotano, cambiano posizione, trucco, abito, timbro. Così, col cambiare degli interpreti, mutano le voci, gli sguardi, le intonazioni, il portamento. E tutto l’immenso circo della città appare ruotare nel tempo, sull’asse del Palatino, assumendo colori e sfumature nuove, puntando all’eternità del destino che compete a questo inguaribilmente profano, sacerrimo luogo.

    Ecco: contrariamente alle fonti delle Ninfe e ai grandi alberi delle foreste; diversamente dai picchi rocciosi e dai laghi profondi; Roma – la città più desiderata, ambita, ammirata del mondo antico – non ha un solo genius loci. A proteggerne i vetusti colli e l’oggi sterminata, disarmonica estensione c’è una folla di nomi, un esercito di memorie, una processione di anime e volti, la maggior parte dei quali ignoti, i caratteri sgretolati dai secoli, il sembiante scolorito dal Tempo, la memoria viva perduta per sempre.

    Eppure ci sono rare occasioni in cui è possibile ricuperare qualche frammento di quelle vicende; nel continuum spazio-temporale avvengono talvolta miracoli che ci ricongiungono con attimi trascorsi e svaniti da secoli; certe volte la luce del sole, tramontando, illumina d’un lampo la croce di un campanile; o filtra attraverso un vetro e rimbalza, addolcita, sulla superficie di un marmo consunto, rivelandone i segreti. All’alba, altre volte, quella medesima luce inonda l’aria racchiusa da una cupola e la fa esplodere nell’oro, connettendo tra loro epoche diverse e distanti, per un attimo fragile che il miracolo dell’arte rende possibile e vero, sensibile; persino – ma ci vuole fortuna – condivisibile. In piena notte, quando d’inverno le sponde del Tevere sono silenziose e deserte, l’isola Tiberina può ancora risuonare dei canti antichi e Trastevere ospita ancora una volta i fantasmi dei primi cristiani che vi presero dimora. È il soffio del fiume nervoso che trasporta quelle voci da chissà quale tempo e spazio.

    No, non c’è un solo genius loci, a Roma. I Genii dell’Urbe sono un’infinita teoria di storie, di persone, di vicende. Sono quel che resta di quelle gesta e di quelle voci, il cui suono ancora si avverte, incantato, in alcuni rarissimi e solenni momenti.

    Sono le voci dei Signori di Roma: è la loro vicenda umana ciò che abbiamo cercato di raccontare.

    Lucio Quinzio Cincinnato, il console contadino

    Ci sono alcune figure, nella storia di Roma antica, che meglio di altre spiegano il substrato morale e l’attitudine psicologica intorno ai quali il popolo di Romolo costruì la propria leggenda e la fama di conquistatore con vocazione universale. Uno di questi personaggi, sospesi tra storia e mito, è Lucio Quinzio Cincinnato, il dittatore contadino.

    Apparteneva al ramo dei Cincinnati (letteralmente: riccioluti) dell’antica gens Quinctia. Una famiglia che, secondo Tito Livio, era stata assorbita da Roma al tempo di Tullo Ostilio, nel vii secolo a.C. Erano stati, quelli, gli anni della leggendaria conquista di Alba Longa, la mitica città cugina di Roma stessa. Un conflitto che secondo la leggenda fu risolto a favore di Roma, almeno in un primo momento, dalla celebre disfida tra Orazi e Curiazi.

    Cincinnato venne al mondo intorno al 520 a.C., quando regnava ancora Tarquinio il Superbo. Era ancora un bambino quando l’ultimo re venne scacciato, nel 509. Visse dunque da spettatore l’elezione dei primi consoli, ascoltò con emozione le voci che correvano per le vie fangose della città, quando Lucio Giunio Bruto, il fondatore della Res Publica, indusse il popolo a giurare di rifiutare per sempre il dominio di un re. Era ancora imberbe quando Roma subì il breve dominio del re di Chiusi, l’etrusco Porsenna; ed era da poco entrato nell’età matura quando finalmente Tarquinio morì.

    Visse, insomma, un’epoca aspra e tormentata. Un’epoca di continue guerre d’espansione verso il mondo esterno e di conflitto interno tra le classi sociali; un conflitto che si faceva di giorno in giorno più acceso. Battuti in guerra uno dopo l’altro, i popoli e le città che circondavano Roma le cedevano il passo, accettando obtorto collo il dominio dei Quiriti. In città, al posto del re, governavano ora i consoli. Ma – a parte la durata annuale della loro carica – non esistevano altre limitazioni al loro potere, i cui confini erano stabiliti esclusivamente dalla consuetudine giuridica, trasmessa all’interno della classe dominante, il patriziato, che infatti sceglieva i più alti magistrati solo tra i propri membri.

    Un potere senza confini è un potere senza limiti, pericoloso, pensava il popolo, memore dei disastri dell’ultimo re. Cresciuto di numero anche grazie alle conquiste militari, spingeva dal basso, sostenendo i propri tribuni nei disegni di riforma dello Stato neonato. L’aristocrazia, dal canto suo, si arroccava intorno all’antico potere, proteggendo l’agire dei consoli che ne garantivano il primato.

    In questa complessa dialettica c’era poi, sempre, la guerra, le guerre. Per combatterle servivano soldati, la maggior parte dei quali proveniva dalla plebe. Nelle mani di questa risiedeva dunque un grande potere: quello di rifiutarsi di rispondere alla leva militare, tanto spesso chiamata per combattere i numerosi, fieri nemici di Roma. Insomma: l’equilibrio istituzionale era un miraggio e la confusione grandissima!

    Per comprendere compiutamente che aria tirasse a Roma in quel periodo, ci viene in aiuto la vicenda, davvero esemplare, della Lex Terentilia, presentata nel 462 dal tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa, al quale la proposta di legge deve il nome. Con tale provvedimento, costui si proponeva infatti di affrontare il problema del potere dei consoli, chiedendo che venisse affidata a cinque saggi la scrittura delle regole che lo avrebbero definito e sancito una volta per sempre. La plebe la voleva a ogni costo; i patrizi, ovviamente, no. Anzi: ogni volta che se ne doveva discutere, gli ottimati romani decidevano che era giunto il momento di fare guerra a un popolo o a una nuova città; oppure denunciavano una minaccia esterna alle porte; praticavano, ostinatamente, un pervicace ostruzionismo dilatorio.

    Proprio in quei tempi, poi, su Roma s’abbatté un nuovo pericolo. Un gruppo di esuli e di schiavi ribelli, poche migliaia di persone al comando del sabino Appio Erdonio, facendo strage di chi gli si opponeva, aveva occupato il Campidoglio, insediandosi nell’area sacra posta in cima al colle. Da lassù il comandante esortava tutti gli schiavi della città a ribellarsi. Voleva giustizia: sarebbe stato disposto persino ad allearsi con gli eterni nemici, gli Equi e i Volsci, pur di ottenerla.

    Ma… era soltanto una rivolta di schiavi? Era una vera minaccia per Roma? Oppure era una farsa, un trucco architettato dagli ottimati per rimandare ancora una volta la discussione e l’approvazione della legge che ne avrebbe limitato il potere? Quante voci contrastanti si sentivano per le strade e nel foro… quanta paura, da una parte e dall’altra. E, soprattutto, quanta diffidenza reciproca tra le due fazioni della società: il console Publio Valerio esortava il popolo a prendere le armi (ma poi ne distribuiva poche e solo ai più fidati); i tribuni, visto il marasma, ne approfittavano subito per convocare un’assemblea legislativa. Alla fine, se non fossero intervenuti gli alleati provenienti da Tusculum, che sgominarono i ribelli, l’assedio al cuore di Roma avrebbe forse avuto successo.

    È in questo clima che il patrizio Cincinnato accede al consolato, la massima carica repubblicana. Correva l’anno 460, aveva sessant’anni. L’anno prima suo figlio, Cesone, era stato processato perché, giovane e facondo campione dell’aristocrazia, dominava brutalmente la scena politica, giungendo troppo spesso alle vie di fatto¹. Era inviso e odiato dalla plebe, Cesone; gli fu mossa persino un’accusa di omicidio (rivelatasi falsa, anni dopo). Il processo che ne derivò, intentato dai magistrati più vicini ai plebei, lo indusse a preferire l’esilio in Etruria alla condanna, ormai certa. Per la famiglia dei Cincinnati, e per Lucio Quinzio in particolare, era stato un vero e proprio disastro: per risarcire i garanti del processo contro il figlio – procedimento al quale, come si è detto, egli si era sottratto fuggendo – fu costretto a pagare una cauzione di trentamila assi² e a vendere gran parte del patrimonio, riuscendo a salvare soltanto un piccolo possedimento avito al di là del Tevere, nell’area dove oggi sorge la Città del Vaticano. Un campicello – appena quattro iugeri di orti³ – nel quale trovò rifugio e grazie al quale costruì la sua gloria.

    Partì proprio da quel piccolo possedimento, Cincinnato, per salire per la prima volta al consolato. Ed era pieno di risentimento contro la plebe che aveva costretto suo figlio all’esilio.

    Dal suo scranno, supportato dagli ottimati che l’avevano fermamente voluto eleggere, entrò a gamba tesa, per usare una locuzione calcistica, nel conflitto civile in atto. Arringò la folla con parole durissime e astute: rimproverò il Senato per l’apatia dimostrata e i tribuni della plebe per l’arroganza che ne aveva caratterizzato le mosse; richiamò alla memoria del suo uditorio, che si faceva sempre più attento, il patrimonio di unità e di coesione che s’era perduto quando, rivolgendosi direttamente ai tribuni, alluse alla plebe come «quella porzione di popolazione che avete trasformato nella vostra patria, in una cosa vostra, dopo averla sradicata dal resto del popolo»⁴. Ecco svelate la linea e l’astuzia di Cincinnato: richiamare in vita le antiche virtù, quelle che avevano reso il popolo di Roma così coeso e forte, irresistibile per i nemici. E poi l’affondo: «Vi ostinate a ripetere che voi farete passare la legge quest’anno […] ma io e il mio collega abbiamo in mente di guidare le legioni contro Volsci e Equi. Non so per quale destino il favore degli dèi ci arride più in guerra che in pace»⁵. Un oratore avveduto, Cincinnato, altro che un semplice contadino! Pare quasi di sentirlo crescere, tra i visi del popolo assembrato, quello strano smarrimento: il nostro destino migliore è in guerra, per questo siamo nati, noi Romani…

    Tuttavia, nonostante le parole efficaci di Cincinnato, quella fase caotica di confronto si concluse con un pareggio: la legge non fu discussa, i tribuni della plebe non avrebbero dovuto ripresentarsi alle elezioni e il console – che pure si era dimostrato capace di gestire con polso fermo la situazione – sarebbe ritornato al suo podere, rinunciando anch’egli a un secondo mandato. Questo il patto politico, che però i tribuni non rispettarono, facendosi rieleggere. Tuttavia Cincinnato, come per marcare la differenza morale tra patrizi e plebei, vi tenne fede egualmente, tornando a coltivare porri e cipolle.

    L’exemplum fu certamente luminoso. Però la guerra era nell’aria lo stesso. D’altronde accadeva quasi ogni anno: i popoli dei Volsci e degli Equi muovevano in armi contro i Romani come se dovessero adempiere a un dovere rituale. Sconfitti quasi sempre, accettavano trattati di pace per poi violarli alla prima occasione propizia. Un gioco delle parti, tanto che – lo si è visto – le fazioni romane utilizzavano costantemente la loro minaccia come strumento politico per forzare la mano agli avversari.

    Fu così che nel 458 a.C. gli Equi, che estendevano il proprio dominio sull’attuale Lazio orientale, fino alle pendici dell’Appennino abruzzese, mossero di nuovo guerra a Roma, sotto il comando di Gracco Clelio, l’uomo «di gran lunga preminente tra gli Equi», secondo Livio⁶. Questi guidò il proprio esercito di razziatori nella zona di Labico e poi si diresse contro la città di Tuscolo e la saccheggiò. Arraffato un cospicuo bottino, si rifugiò sulle pendici boscose del monte Algido (oggi monte Artemisio, tra Velletri e il Tuscolo).

    Di questo evento bellico ci rimane una scena, descritta con vivacità da Livio stesso, davvero imperdibile per comprendere lo spirito del tempo. Conosciuto l’atto ostile degli Equi, gli ambasciatori di Roma si recano presso il loro generale per chiedere ragione e giustizia e, soprattutto, per avere indietro il bottino. Gracco Clelio è sicuro di sé, se ne sta nel suo accampamento, protetto dai suoi armati; non teme la minaccia recata dai messi di Roma. Anzi: se ne prende gioco in modo sprezzante. «Volete giustizia?», domanda ironicamente ai legati, «chiedetela a quella quercia che fa ombra alla mia tenda». Facile, a questo punto, immaginare i briganti che sghignazzano nell’ombra, ammirati dal coraggio del loro comandante.

    Ma Gracco non aveva fatto i conti con quello strano miscuglio di religiosità, acume politico e considerazione di sé che erano gli ingredienti di base utilizzati per plasmare i politici romani, sempre in cerca di occasioni per passare alla storia. Era ormai sul punto di andarsene, quando uno dei tre messi risponde solennemente a quella presa in giro: «Quella quercia sacra e le presenze divine del luogo siano testimoni che siete stati voi a rompere i patti di pace. Siano favorevoli ora alle nostre lamentele, e presto alle nostre armi, quando vendicheremo la vostra violazione»⁷. Detto questo, fece dietrofront insieme agli altri due.

    Quando il Senato riceve gli ambasciatori di ritorno dal monte Algido, scoppia un putiferio. Subito viene ordinata la vendetta: un console guidi un esercito contro il territorio degli Equi e un altro esercito si diriga verso Gracco Clelio e lo distrugga! Siamo o non siamo Romani?

    I senatori però non hanno considerato il confronto politico in atto: la plebe, con i tribuni al comando, non ne vuole proprio sapere di prendere le armi. Quella legge mai approvata gli è andata proprio di traverso. Tra un tentativo di mediazione e l’altro, in città si tergiversa fin quando giunge improvvisa la notizia che anche i Sabini si sono messi a razziare la campagna di Roma, fin quasi alle porte della città. Solo allora la plebe, forse mossa da un antico riflesso antisabino risalente agli anni dei re, accetta di entrare in guerra. Non c’è in ballo soltanto l’onore di Roma, ma il futuro di tutto il popolo. Così, proprio come aveva ordinato il Senato, un esercito comandato dal console Gaio Nauzio attacca subito i Sabini e ne devasta la nazione. L’altro esercito consolare, guidato da Lucio Minucio, attacca gli Equi tra le loro montagne ma si ritrova ben presto circondato e assediato. Solo un manipolo di cavalieri riesce a sfuggire all’accerchiamento e si precipita a Roma recando la notizia ferale: gli Equi di Gracco Clelio stanno per annientare le legioni.

    Quando i cinque cavalieri⁸ arrivano in Senato si stenta a creder loro. I soldati però sono degni di fiducia e la paura comincia a serpeggiare in città: come potremo salvare Roma dall’onta e dal disonore? Qualcuno vorrebbe affidare la missione a Gaio Nauzio, fresco reduce dalla razzia condotta a danno dei Sabini. Ma molti non lo considerano davvero all’altezza dei temibili e orgogliosi Equi. Serve un fuoriclasse per dar loro una vera lezione, di quelle che si ricordano per sempre. Così, pian piano, si fa strada un’ipotesi solo apparentemente azzardata: perché non chiamare Cincinnato?

    Subito una delegazione del Senato attraversa il Tevere e raggiunge i prata Quinctia, là dove c’è il podere dell’ex console. Tito Livio racconta che i messi senatorii trovarono la spes unica imperii et populi romani, Cincinnato, intento nei lavori agricoli. Quando li vede, però, si ferma e li guarda uno per uno. S’appoggia col mento alla vanga e chiede: «Satin salve?» (tutto bene?). Evidentemente quelle facce non erano per nulla rassicuranti.

    «Va’ a metterti la toga, Cincinnato», gli rispondono quelli, «abbiamo una comunicazione importante da farti».

    La moglie dell’agricoltore, ex console e patrizio romano – Racilia – entra nella capanna per cercare la toga del marito. Questi, ripulitosi alla meglio dallo sporco e dal sudore, subito la indossa e si fa avanti. Ripristinato in quel modo un minimo di forma, i messi del Senato salutano Cincinnato come dittatore e lo informano del disastro incombente sull’armata di Minucio.

    Lucio Quinzio capisce al volo e non esita nemmeno un secondo: riattraversa il Tevere su un’imbarcazione del Senato ed entra in città sotto gli occhi della plebe che non vede, in quel ritorno, nulla di buono. Ma Cincinnato se ne frega. Nel foro nomina a capo della cavalleria Lucio Tarquinio – un altro exemplum di povertà materiale e di valore militare, uniti insieme – e poi si reca a casa sua⁹, accolto dai suoi tre figli.

    Il giorno dopo Cincinnato entra in Senato e fa subito capire a tutti che aria tira. Sospende l’attività dei tribunali, ordina l’interruzione immediata di tutti i commerci e intima ai cittadini di non dedicarsi ad alcuna attività privata: c’è da salvare Roma, il resto può attendere tempi migliori. Per affrontare l’emergenza bellica, poi, convoca in Campo Marzio tutti i maschi abili alla leva e li arruola, chiedendo loro di presentarsi quanto prima con cibo bastante per cinque giorni e dodici pali di legno ciascuno¹⁰. Ai più vecchi ordina di preparare da mangiare per i soldati. Comincia un rapidissimo addestramento: una vera full-immersion.

    È notte fonda sul monte Algido.

    Sono trascorsi soltanto tre giorni dall’inizio dell’assedio, quando i soldati di Lucio Minucio sentono nell’aria alcune voci urlanti. Riconoscono quelle dei propri concittadini che minacciano gli Equi.

    «Sono arrivati i rinforzi!», urlano felici gli assediati, e Lucio Minucio tira un gran respiro di sollievo.

    È vero: l’esercito di Cincinnato ha circondato gli assedianti e in un batter d’occhio ha issato una palizzata di legno che ne impedirà la fuga. I romani – quelli di dentro e quelli di fuori – si lanciano all’assalto e dopo una serie di durissimi scontri hanno la meglio. Gli Equi chiedono pietà, e ottengono che ai superstiti della battaglia non sia tolta la vita. Il console li spedisce dritti dal dittatore.

    Cincinnato però è inviperito: «Non me ne faccio niente del sangue degli Equi», spiega, «ma devono ammettere di essere stati sottomessi», quindi costringe i nemici al giogo umiliante allestito simbolicamente sul campo di battaglia. Vi passano sotto tutti, uno dopo l’altro, seminudi. Lasciano sul campo le armi e tutto il bottino; il loro comandante Gracco Clelio è ridotto in catene. Lucio Quinzio – da certi particolari si capiscono molte cose – ha parole durissime anche per il console Minucio, che viene pubblicamente rimproverato per la condotta militare avventata e degradato a semplice luogotenente.

    Roma accoglie Cincinnato con un trionfo: si fa festa dovunque, in città, con banchetti e tavole allestite davanti a tutte le case. I vinti sfilano davanti al carro del trionfatore; dietro di lui i soldati che, euforici, cantano ebbri per il bottino appena conquistato.

    È passata appena una settimana da quando la delegazione del Senato ha fatto visita a Cincinnato ai Prata Quinctia. Il dittatore, tornato a Roma da salvatore della patria, deve ancora portare a termine un compito che gli sta a cuore: condannare il falso testimone che aveva causato l’esilio di suo figlio Cesone. Si chiamava Marco Volscio, e subisce un regolare processo; viene condannato ed esiliato a Lanuvio. Cincinnato ha avuto alla fine giustizia. Per lui può bastare.

    La carica di dittatore veniva infatti attribuita per sei mesi. Erano trascorsi soltanto sedici giorni da quando Cincinnato l’aveva assunta, i problemi più pressanti, quelli che avevano motivato la scelta del Senato, erano stati risolti. Lucio Quinzio Cincinnato – è questo il messaggio della sua storia edificante – non era innamorato del potere. Amava Roma e le sue antiche tradizioni, non ultima – certo – la preminenza dei patrizi sui plebei. Forse anche il suo nome, quell’allusione ai capelli crespi e riccioluti che aveva ereditato dagli avi, gli ricordava il legame strettissimo tra uomini e greggi, vera ricchezza e prosperità del popolo.

    Di certo a Cincinnato sedici giorni di dittatura erano bastati e… avanzati.

    Sua moglie Rutilia lo aspettava. Polli e galline ingrassavano in sua assenza. Bisognava tornare a dissodare il terreno. Doveri. Sempre doveri! Ma, in fondo, il destino dei Romani era quello.

    1 «Nemo non lingua, non manu promptior in civitate haberetur», tito livio, Storia, Garzanti, Milano 1990, iii, 11.

    2 Cfr. ivi, 13.

    3 Lo iugerum corrispondeva all’area arabile in una giornata di lavoro, era quindi pari a circa un quarto di ettaro.

    4 tito livio, op. cit., iii, 19.

    5 Ibidem.

    6 tito livio, ivi, 25.

    7 Ibidem.

    8 Quanti fossero lo racconta Livio stesso, op. cit., iii, 26.

    9 «Come: a casa sua? Ma non aveva venduto tutto per pagare la cauzione di Cesone?». Così scrive Livio, che evidentemente non va per il sottile e non scioglie la contraddizione: c’è da costruire una leggenda di Roma, non è possibile soffermarsi sui dettagli.

    10 Il lavoro di carpentiere e, più genericamente, quello di costruttore era abituale per i soldati romani.

    Appio Claudio Cieco

    «In quell’anno fu memorabile la censura di Appio Claudio e Gaio Plauzio, anche se dei due il nome che rimase più a lungo presso i posteri fu quello di Appio, in quanto fece costruire una strada e l’acquedotto che porta l’acqua a Roma»¹¹.

    Era il 312 a.C., e Tito Livio, nella sua celebre Storia, ricorda così la figura di Appio Claudio Cieco, uomo singolare e originale, per il suo tempo. Riformatore convinto delle istituzioni repubblicane, uomo d’azione, di guerra e di pensiero. Un ammiratore – tra i primi, a Roma – della cultura e degli usi dei Greci. In breve: un intellettuale ante litteram.

    Nato nel 350 a.C. nella gens Claudia, una delle più antiche e potenti di Roma (la stessa che avrebbe dato vita, secoli dopo, alla prima dinastia imperiale), aveva ereditato dagli antenati – lo assicura Livio stesso – quella insitam pertinaciam familiae¹² che gli permise di portare a termine la sua memorabile censura da solo, anche dopo che il suo collega, Gaio Plauzio Venox, si era ritirato perché sommerso dalle critiche rivolte dal Senato ai censori stessi¹³.

    Di quali critiche si trattasse è argomento complesso, che però spiega l’orizzonte entro il quale la cultura politica di Appio Claudio si muoveva, una prospettiva che non poteva mancare di porlo in contrasto con la società tradizionale romana. Egli, benché appartenesse per nascita all’élite aristocratica, aveva infatti capito che era ormai giunto il momento di rinfrescare la composizione del Senato, riformandone le liste per ammettervi molti homines novi. Occorreva legare alle Res Publica, facendoli accedere al cuore dello Stato, anche i mercanti e gli industriali, esponenti agiati e rampanti delle classi inferiori. In quest’ottica moderna, persino ai figli dei liberti, gli schiavi liberati, fu permesso l’accesso all’assemblea e alle magistrature, grazie ad Appio Claudio.

    Un atto legislativo di così forte e simbolica rottura con la tradizione e la mentalità dell’aristocrazia terriera che aveva fondato Roma, non poteva essere deciso da una personalità banale, né da una semplice intuizione rivoluzionaria. Appio Claudio era un osservatore acuto dei suoi tempi, vedeva chiaramente la trasformazione inesorabile in atto: l’espansione politica – che durava da secoli – aveva portato inevitabilmente idee e contenuti nuovi nel tessuto sociale romano. I fecondi scambi commerciali, così come le guerre, mettevano in continuo contatto i Quiriti con genti nuove, esse stesse contaminate dalla frequentazione con gli altri numerosi e diversi popoli che abitavano il Mediterraneo. Greci ed Etruschi – e tutti gli altri popoli che fiorivano lungo la penisola italica, i Sanniti su tutti – costituivano una sfida non solo militare, ma anche intellettuale. Roma, che voleva dominare il mondo, non poteva rimanere inchiodata ai pur rispettabili e gloriosi costumi dei padri. Cambiare era un obbligo e proprio questo voleva dimostrare Appio con la sua azione politica: che il cambiamento era possibile, anche se era difficile e rischioso perseguirlo.

    Non è certo un caso che Appio Claudio venga ricordato anche per il cognomen: Caecus; cieco, sì, ma non dalla nascita. La sua menomazione, secondo una tradizione leggendaria, sarebbe stata provocata addirittura da Ercole, il semidio (e protettore dei commerci, tanto cari ad Appio stesso), che sarebbe stato offeso dal patrizio romano perché quegli ne aveva sottratto il culto alla famiglia patrizia dei Potizi, curatori tradizionali dei riti celebrati a Roma. In realtà Appio Claudio l’aveva semplicemente sottratto al controllo privato, trasformandolo in culto pubblico, statale, e affidandolo a funzionari religiosi dello Stato. Questo, si racconta, a Ercole non piacque affatto e, anni dopo, sugli occhi di Appio scesero, opache, le cataratte. Ma era andata molto peggio ai Potizi stessi, che – forse considerati rei di mercimonio religioso – erano stati sterminati, uno dopo l’altro, nel giro di un solo anno.

    Sono leggende, suggestive storie che legano insieme i pezzi superstiti di narrazioni antiche, dando loro, talvolta, significati nuovi e utili a spiegare antefatti misteriosi.

    Lo stesso Appio Claudio, che scriveva in versi saturni¹⁴ le sue opere giuridiche, era probabilmente affascinato dalla possibilità di raggiungere l’unità partendo da pezzi diversi e distanti tra loro.

    È lecito pensare che sia stata questa particolare sensibilità formale – oltre alle più ovvie considerazioni commerciali, amministrative e politiche – a indurlo a congiungere i diversi tratti viari che univano tra loro i centri urbani a sud di Roma per dar vita a un percorso unitario. Infatti fu lui, quando era censore, ad avviare la costruzione della Via Appia¹⁵, completando il tratto tra Roma e Capua: era la regina viarum che, molti decenni dopo, avrebbe collegato Roma al porto di Brindisi, l’ultima tappa terrestre verso la Grecia.

    Non sembra quindi strano che sia stata attribuita a lui anche la costruzione del primo acquedotto cittadino. Si tratta dell’Aqua Appia, la cui sorgente in realtà era stata individuata dal suo collega alla censura, Gaio Plauzio Venox, tra il miglio vii e viii della Via Prenestina¹⁶. Solo la permanenza in carica di Appio dopo le dimissioni del suo pari permise al nostro di fregiarsi di tutti i meriti civili legati all’acquedotto che, da allora, porta il suo nome. Di chiunque fosse il merito, aveva ragione Livio nel definire memorabile quella magistratura: dopo di allora i cittadini di Roma, o almeno una parte di essi, poterono bere acqua nettamente migliore di quella del Tevere.

    Fin qui i meriti politici, più o meno fedelmente attribuiti.

    Ma non possiamo non ricordare, di Appio Claudio Cieco, anche la carriera politica: fu console nel 307 a.C. e nel 296 a.C. Partecipò alle guerre sannitiche¹⁷ – impegno bellico decisivo per la successiva espansione di Roma – portando le legioni a un passo dalla vittoria definitiva sulla lega delle nazioni (composta da Sanniti, Etruschi, Umbri, Galli Senoni) che aveva mosso guerra all’Urbe, per esserne rovinosamente sconfitta a Sentino (l’attuale Sassoferrato), nel 295 a.C.

    Non trascurò l’oratoria: la tradizione lo considera addirittura il fondatore del genere giuridico-letterario, a Roma. Pronunciò persino un’orazione divenuta celebre (ma perduta) per esortare il Senato a non accettare le proposte di pace di Pirro, subito dopo la sconfitta subita dalle legioni a Heraclea, nel 280 a.C.¹⁸

    Persino la storia del diritto, il diritto romano, gli deve moltissimo. Fu su sua richiesta che, nel 304 a.C., venne pubblicato dal suo segretario Gneo Flavio (un liberto di talento) il civile ius, il testo delle formule di procedura civile, chiamato poi Ius Flavianum.

    Persino sul calendario mise le mani, Appio Claudio. Fece pubblicare, a vantaggio dei meno colti e meno abbienti, il calendario dei dies fasti, distinti dai nefasti, che permise ai plebei di affrancarsi dai tanti, troppi azzeccagarbugli nobili che, investiti di cariche religiose e detentori del sapere trasmesso sempre oralmente, si imponevano quali indispensabili intermediari tra il popolo e lo Stato.

    Forse l’attribuzione di così tanti meriti a una sola persona è spiegabile con il tentativo, mai cessato tra i Romani, di costruirsi una storia più nobile di quella vera, una storia che fosse costellata di exempla meravigliosi e suggestivi. Una tentazione alla quale, peraltro, nessun impero è mai sfuggito. Quanto al nostro Claudio Cieco, però, una simile fama, un tale grado di acume e di preveggenza non si radicarono certamente soltanto nel mito e nelle necessità della propaganda.

    Diamo quindi atto al nostro censore impertinente, all’innovatore e all’intellettuale, di aver lasciato a noi posteri uno stimolo psicologico che sarebbe stato gravido di conseguenze, anche psicologiche, profondissime. Nelle sue Sententiae, delle quali ci rimane solo qualche frammento, lasciò scritto un pensiero divenuto famoso, un’idea che serba, tuttora intatto, il suo significato che supera i secoli e le ere. Un augurio, si direbbe quasi: «quisque faber fortunae suae». L’homo faber – che tanta fortuna avrebbe avuto in seguito – lo inventò lui. C’è da essergliene ancora grati.

    11 tito livio, op. cit., x, 29.

    12 «L’ostinazione tipica della famiglia», ibidem.

    13 È altrettanto memorabile l’orazione pronunciata contro Appio Claudio dal tribuno della plebe Publio Sempronio, perché non volle dimettersi dalla magistratura censoria nonostante la Lex Aemilia ne avesse ridotto la durata a diciotto mesi. La riporta tito livio, op. cit., ix, 33-34.

    14 Il saturnio, o faunio, era il verso tipico della poesia latina arcaica, che aveva avuto origine nella lingua sacerdotale e nei suoi riti. Furono composte in saturni le due prime opere poetiche della letteratura latina: l’Odusia di Livio Andronico e il Bellum Poenicum di Gneo Nevio.

    15 La costruzione della Via Appia fu avviata nel 312 a.C. e conclusa nel 190 a.C.

    16 sesto giulio frontino, De aquaeductibus urbis Romae, Argo, Lecce 2014, i, 5.

    17 Furono tre, dal 343 al 290 a.C.

    18 L’invasione del monarca epirota, tra il 280 e il 275 a.C., è passata alla storia perché giunse a minacciare Roma da molto vicino.

    Publio Cornelio Scipione l’Africano, il vendicatore di Canne

    Racconta Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia¹⁹ che ogni anno, presso il tempio di Giove sul Campidoglio, veniva crocifisso un cane, scelto tra quelli che vi facevano la guardia contro i ladri. Il sacrificio rituale era celebrato per ricordare l’episodio del saccheggio di Roma compiuto nel 390 a.C. dai Galli di Brenno. Quella volta, si racconta, la torma canina non era stata capace di lanciare l’allarme e l’Urbe dové la propria salvezza alle valorose oche, sacre a Giunone, che starnazzarono in sua vece.

    Ebbene: quei cani – che possiamo legittimamente immaginare scelti tra i più feroci – si distinsero per secoli nella solerte e minacciosa sorveglianza dei sacri marmi; solo un uomo poteva attraversarne il branco con animo sereno, senza dover affrontare latrati, ringhi né zanne sguainate.

    Quell’uomo era Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano. Il grande condottiero – lo racconta Aulo Gellio nelle Notti attiche²⁰ – era uso trascorrere le ultime ore della notte nel tempio di Giove Capitolino, dove era custodito un sacello sacro al dio. Lì, in attesa dell’alba, sedeva meditando sulle grandi questioni che ne assillavano la mente, quasi fosse in intimo colloquio col padrone dell’Olimpo. Era un uomo divino²¹.

    Possiamo quindi dirlo con leggerezza colloquiale: lo capivano anche i cani che gli Scipioni – la famiglia dell’Africano – non erano persone qualsiasi. Ramo patrizio dell’antichissima gens Cornelia, una delle famiglie più antiche e gloriose di Roma, occupavano un posto speciale in quel mondo. Persino Cicerone ne sottolinea l’unicità, quando ricorda l’uso familiare di seppellire e non cremare i propri morti²²: un’abitudine che per molti secoli aveva distinto quella famiglia da tutte le altre²³.

    Divina o meno che fosse la sua natura, la biografia dell’Africano, che nacque a Roma nel 235 a.C., è una di quelle storie che, nel loro svolgersi, hanno davvero il sapore della leggenda, a partire dal concepimento… miracoloso. Si narra infatti che la madre, quando ormai il marito – già in avanti negli anni – disperava di ottenerne un figlio, rimase gravida dopo la visita notturna di un serpente magico (apparso in sogno o tra le lenzuola: questo non è chiaro). Da quell’incontro onirico nacque Publio Cornelio Scipione, che solo trentatré anni dopo – a Zama – avrebbe consegnato definitivamente il Mediterraneo a Roma.

    Scipione compare per la prima volta nella storia come giovanissimo aiutante di campo del padre, l’omonimo console Publio, inviato a contrastare l’avanzata irresistibile dei Cartaginesi che, passati i Pirenei, il Rodano e infine le Alpi, puntavano su Roma. Correva l’anno 218 a.C., e il giovane Scipione poté vedere all’opera, da molto vicino, il più grande genio militare che i Romani ebbero mai come nemico: il generale cartaginese Annibale Barca, l’uomo con il quale avrebbe incrociato prestissimo il proprio destino.

    Quello scontro, davvero mondiale visto il numero dei popoli coinvolti, passò alla storia come seconda guerra romano-punica e fin dall’inizio – per quasi due decenni – fu solo terrore puro, per Roma. Annibale, uscito intatto dall’inusitato scavalcamento delle Alpi, sconfiggeva o reclutava uno dopo l’altro i popoli celtici disseminati ai piedi dei monti e dispersi in tutta la pianura padana, molti dei quali già sottomessi a Roma e quindi ansiosi di liberarsi dal suo giogo. Erano alleati naturali del cartaginese che voleva rovesciare le sorti della storia e vendicare l’umiliante sconfitta patita dal suo popolo (e dal padre Amilcare) appena ventitré anni prima.

    Per il giovane Scipione non furono di certo anni allegri; il padre, sconfitto più volte dal condottiero cartaginese, rischiò persino di rimetterci le penne: solo il suo temerario intervento²⁴ lo salvò da morte certa durante la battaglia del Ticino, nel 218 a.C.

    Ne seguirono molte altre, di battaglie: tutte sanguinosissime e sfavorevoli alle legioni di Roma. Prima sul fiume Trebbia, poi il tragico Trasimeno con la morte del console Gaio Flaminio Nepote e l’eccidio spietato e politico dei romani²⁵.

    Infine, nel 216, si arrivò alla piana di Canne: fu la strage più terribile dell’intera storia di Roma.

    Scipione era ancora un semplice tribuno militare e quasi certamente partecipò alla battaglia. Riuscì a stento a salvarsi la vita. Ma la scena dell’eccidio – una distesa immensa di cadaveri e di feriti a morte, passati a fil di spada dai nemici al primo sorgere dell’alba successiva allo scontro – dovette imprimersi profondamente nel suo cuore. Perché, al di là delle diatribe storiche sui numeri effettivi dei caduti romani – settantamila secondo Polibio, quarantacinquemila secondo Tito Livio – il fatto è che, dopo quella memorabile sconfitta, Roma non aveva più alcun esercito: era realmente alla mercé del condottiero cartaginese e oppressa dal terrore di veder svanire nel sangue il proprio fulgido destino.

    D’altra parte, si sa, la vita continua: lo stesso Annibale, dopo Canne, aveva un esercito sfinito e ferito, senza più rifornimenti né forze. Certamente non quelle che gli sarebbero servite per marciare su Roma. Fu così che, mentre Roma eleggeva l’ex dittatore Quinto Fabio Massimo come console e cercava di riorganizzarsi rifiutando qualsiasi avance diplomatica cartaginese, la guerra proseguì in tutto il meridione italico, con alterne fortune per entrambe le parti. Molte città – anche a nord di Roma – avevano scelto di schierarsi con la potenza momentaneamente vincitrice. Le campagne erano devastate, l’economia a terra, le sorti del conflitto sempre più incerte. La fame, più della gloria, regnava tra i soldati di entrambi gli eserciti.

    Sul fronte spagnolo non andava meglio, per le sorti di Roma: i Cartaginesi traevano da lì il grosso delle proprie risorse (economiche e umane) e l’intera penisola era ormai finita sotto il loro controllo. Il Senato di Roma aveva continuato a concedere la sua fiducia agli Scipioni nonostante il pessimo esito della campagna italica, ma le legioni erano state nuovamente sconfitte. Il padre e lo zio del nostro Publio vi erano caduti. E forse è per questa ragione, quasi di ordine familiare, che a Publio Cornelio Scipione fu permesso di compiere anzitempo un altro passo in avanti nella carriera politico-militare: nel 211, ad appena ventiquattro anni, divenne proconsole in Spagna. Fu lì, nella terra che i Cartaginesi avevano riconquistato prima di riaprire le ostilità contro Roma, che il giovane gettò le basi per i suoi mirabili successi futuri.

    Le campagne militari iberiche di quegli anni mostreranno al mondo un generale abilissimo sul campo e straordinariamente avveduto nelle mosse politiche, nonché un motivatore di uomini come raramente se n’erano visti prima all’opera²⁶. Era l’antagonista naturale del grande Annibale.

    Giunto in Spagna, Scipione si guardò bene dall’affrontare i tre eserciti che Cartagine vi aveva lasciato: distanti giorni e giorni di marcia l’uno dall’altro, presidiavano aree nevralgiche dell’immensa penisola ma, soprattutto, erano tutti lontani dalla capitale, Cartagena, ricco porto affacciato verso la madrepatria punica. Lì si diresse Scipione²⁷, benché una vasta laguna proteggesse la città e un porto assai munito la tenesse al sicuro. Dentro le sue mura erano però custodite grandi ricchezze, un’enorme quantità di strumenti bellici e vi erano sorvegliati perfino gli ostaggi dati in pegno dalle popolazioni iberiche ai Punici. Nonostante tutto ciò, erano pochi i soldati di guarnigione.

    La manovra di Scipione – nel 209 a.C. – fu scaltra: dopo aver richiamato all’esterno della rocca una gran parte dei difensori con un attacco simulato, approfittando della bassa marea (il cui andamento lo stratega aveva studiato nel dettaglio durante l’inverno), riuscì a far salire sulle mura, con assalti ripetuti, i suoi soldati trasportati dalle navi fino a ridosso della città. Questi ebbero presto ragione delle sentinelle e riuscirono ad aprire dall’interno le porte²⁸. I legionari irruppero e fecero strage di ogni essere vivente che si parasse loro davanti: la città era nelle mani dei Romani.

    La scena è questa. Ormai padrone della città, Publio Cornelio Scipione potrebbe approfittare del suo primo grande successo dando sfogo a un legittimo desiderio di vendetta: a parte l’onta e la paura del Trasimeno e di Canne, i Punici avevano ammazzato suo padre e suo zio! Ma il proconsole non era un tipo avventato né impulsivo. Gli storici – Polibio, Livio e persino l’ondivago Aulo Gellio – lo ricordano anche per la sua ferrea razionalità e per l’autocontrollo che seppe mostrare in tante occasioni.

    Scipione d’altronde rispettava profondamente il genio di Annibale, al punto di averne studiato fin nei dettagli la strategia e la tattica. Aveva imparato moltissimo. Soprattutto, aveva capito che occorreva tagliare l’erba sotto i piedi del nemico, allentando i vincoli di alleanza con i popoli locali, per averne ragione: gli ostaggi che aveva in mano erano un’occasione ghiottissima.

    Così, conquistata la città, spartito il bottino tra i legionari, rimandati a casa lavoratori, donne e bambini, il generale romano convoca tutti i trecento ostaggi che erano custoditi a Cartagena. «Fa avvicinare i bambini», scrive Polibio, «li accarezza uno per uno, dicendo loro che avrebbero presto rivisto i genitori». Esorta poi tutti quelli che ne sono capaci a scrivere ai familiari, spingendoli a informarli che sono sani e salvi e che «i Romani erano disposti a rimandarli tutti a casa senza far loro del male se i loro parenti sceglievano di allearsi con loro». Poi Scipione sceglie personalmente dal bottino di guerra dei doni: braccialetti e orecchini alle ragazze, coltelli e spade ai ragazzi.

    Un genio della propaganda, Publio Cornelio Scipione, che un episodio, anch’esso narrato da Polibio²⁹, ci mostra in una luce davvero singolare.

    I legionari, conoscendo la forte propensione del loro generale per le belle ragazze, gliene portano in dono una davvero bellissima, come può esserlo una donna nel fiore della giovinezza. Possiamo immaginare il proconsole – un uomo di ventisei anni che trascorreva la maggior parte del proprio tempo tra rudi legionari nerboruti: le gira intorno e la scruta, per nulla insensibile al suo fascino acerbo. Forse le sfiora i capelli mentre la guarda negli occhi. A quel punto inspira profondamente e ammette davanti ai suoi soldati che, se fosse stato un privato cittadino, non avrebbe potuto ricevere dono più gradito. Ma, in qualità di generale, nessun dono avrebbe potuto esserlo di meno. Quindi fa chiamare il padre della giovinetta e subito gliela consegna, raccomandandogli di darla presto in sposa.

    È un successo su tutti i fronti: tra i Cartaginesi, che ne ammirano la generosità; e tra i suoi soldati, che ne giudicano quasi sovrannaturale l’autocontrollo. Ma, Scipione lo sapeva, la fama eterna si costruisce così: un passo alla volta.

    Ne è così tanto consapevole che, quando – nel 208 a.C. – dopo una serie di meticolosissimi preparativi, sconfigge clamorosamente Asdrubale a Baecula, sulle rive dell’odierno Guadalquivir, uccide seimila soldati punici e vende come schiavi i loro alleati africani. Solo a uno di loro è riservato un destino diverso: è Massiva, il giovane nipote di Massinissa, re della Numidia. Al di là della presumibile solidarietà tra aristocratici è, quella, un’occasione unica e rara nelle mani di Scipione per accattivarsi le simpatie del potente sovrano africano. Pensando al futuro, il proconsole lascia libero il ragazzo dopo averlo colmato di doni³⁰. Quanto quell’atto di clemenza potesse risultare gravido di conseguenze lo si scoprirà qualche anno dopo, a Zama, dove andò in scena l’epilogo dell’ormai prossima campagna d’Africa.

    Prima di far ritorno a Roma per celebrare i suoi trionfi, Publio Cornelio Scipione, però, volle scacciare definitivamente i Cartaginesi dalla penisola iberica e vendicare l’onta di Canne. Accadde a Ilipa, non lontano dall’odierna Siviglia, nel 206 a.C. Asdrubale Giscone e Magone Barca, il più giovane dei fratelli di Annibale, nonostante il contingente freschissimo ricevuto dall’Italia che rende il loro esercito più numeroso di quello romano, vengono sbaragliati. 70.000 uomini da un lato; 45.000 dall’altro. Le manovre di Scipione sono perfette, la cavalleria e la fanteria si muovono con mosse ordinate e sincroniche: non a caso, per un intero inverno, ha addestrato i suoi uomini a Tarragona, senza mai cedere alla fretta né all’improvvisazione. La disfatta cartaginese è totale: quasi 50.000 Cartaginesi vengono catturati o uccisi. La battaglia di Ilipa e la successiva conquista di Cadice videro la Spagna passare sotto il totale controllo di Roma.

    Publio Cornelio Scipione ha finalmente dimostrato al Senato che i Cartaginesi possono essere sconfitti, ma non senza un’organizzazione adeguata e una dose abbondante di flessibilità mentale e strategica nuova. L’organizzazione dell’esercito – che da entità cittadina e civile si sta trasformando sotto il comando di Scipione in qualcosa di molto più professionale – segna, sotto il nostro protagonista, un punto di svolta nella storia militare di Roma.

    Lui lo sa e non vuole tardare a tornare nella sua città. Salpa quindi alla volta di Ostia con la scorta di pochi armati e giunge a Roma in tempo per presentarsi alle elezioni. Nel 205 è nominato console e il Senato gli affida la Sicilia, là dove erano state relegate per punizione le legioni superstiti di Canne, per continuare la guerra contro Cartagine. Da lì Publio insiste: non importa se Annibale è in Calabria, ancora invitto; occorre portare la guerra a casa sua. Bisogna andare in Africa!

    A Roma, accadeva allora come oggi, le fazioni amano dividersi e contrapporsi in giochi politici defatiganti. Gli avversari di Scipione – su tutti: l’ormai anziano Quinto Fabio Massimo, il cunctator che aveva paralizzato Annibale proteggendo così l’Urbe – avevano gioco facile a invocare prudenza. Così l’anno di consolato scorre veloce senza risultati significativi. Solo nel 204, con un altro incarico proconsolare, Publio Scipione viene autorizzato a organizzare una spedizione contro Cartagine. Passato il mare, il condottiero romano si comporta subito bene sul campo di battaglia e altrettanto sui tavoli della diplomazia. Sfrutta la rivalità tra Siface e Massinissa per portare il re numida dalla propria parte; sconfigge in numerosi scontri di lieve entità l’esercito cartaginese. In due anni di campagna militare si dimostra così pericoloso che Cartagine richiama in patria il proprio campione supremo: il mai sconfitto Annibale³¹, che si affretta a lasciare l’ormai malsicura Calabria alla volta dell’Africa.

    Si avvicinava ormai lo scontro diretto tra i due giganti.

    Scipione – proprio durante i colloqui di pace – aveva improvvisamente attaccato gli accampamenti di Asdrubale e del suo alleato Siface, bruciandoli e sterminando decine di migliaia di armati. I Cartaginesi avevano attaccato le navi romane, ormeggiate in porto, saccheggiandole. Annibale aveva già radunato un grandissimo esercito, soverchiante quello romano per numero. Scipione s’era assicurato l’aiuto dell’esercito numida di Massinissa.

    Le trattative diplomatiche avevano ormai poco respiro.

    Ma prima delle armi, tra Scipione e Annibale venne il turno delle parole.

    Si scambiarono un’ambasciata. Furono stabiliti il luogo e l’ora. I due generalissimi vi arrivarono scortati da un piccolo gruppo di cavalieri, ma presto rimasero soli. Tra di loro soltanto un interprete.

    Possiamo immaginare la tensione di quel primo incontro diretto, vis-à-vis?

    Il leggendario eroe punico che aveva terrorizzato Roma, il comandante della strage di Canne, si trovava ora a colloquio con l’astro nascente dell’esercito romano, che aveva fatto a pezzi i Cartaginesi in Spagna e in Africa. Ciascuno dei due aveva sterminato alcuni familiari dell’altro.

    Si guardarono certamente fissi, a lungo, negli occhi.

    Polibio riporta con ricchezza di particolari il colloquio³². Annibale saluta per primo e subito gioca la carta dell’equilibrio: «Ma se ce ne stessimo ognuno a casa propria, non sarebbe meglio per tutti? Noi in Libia e voi in Italia… Possiamo trovare il modo di far cessare questa contesa? Io sono pronto, perché ho sperimentato che la fortuna è mutevole e con poco fa pendere la bilancia da una parte o dall’altra, come se avesse a che fare con ragazzi ingenui». Scipione osservava da vicino il suo mito, un nemico rotto a mille battaglie, che gli appariva quasi ragionevole, tutto sommato. Ancora di più dovette sembrargli tale quando lo sentì ammettere: «Io sono quello stesso Annibale che, dopo Canne, era padrone del destino di Roma. E ora sono qui, a trattare con te, un romano, la salvezza mia e dei Cartaginesi». Era vero, per Ercole!

    Ma Scipione, benché ne ammirasse il valore, l’abilità, la scaltrezza e il coraggio, sapeva che non poteva fidarsi del nemico supremo di Roma.

    Prende la parola e gli ricorda subito la responsabilità di aver ripreso la guerra (vent’anni prima) contro i Romani. E poi gli dice: «Se tu avessi proposto tutto questo quando noi non eravamo ancora giunti in Libia e dopo esserti ritirato volontariamente dall’Italia, credimi, saresti accontentato. Ma ora sei qui non per tua volontà. Sei giunto nel momento in cui noi siamo divenuti padroni del campo». Non era un po’ tardi, insomma, per fare gli amiconi?

    Annibale continuava a guardarlo dritto negli occhi. Forse intuiva che non c’era modo di scongiurare lo scontro e probabilmente ne era intimamente contento: se lo sarebbe mangiato in un boccone, quel pivello! Le intenzioni dei Romani – sulle quali non aveva mai nutrito dubbi – gli apparvero infine chiarissime quando Publio concluse il colloquio con un ultimatum tipico della sua gente: «Dovete lasciarci liberi di decidere di voi e della vostra patria. Oppure dovete sconfiggerci in battaglia». Tertium non datur.

    Come finì lo sappiamo: il 18 ottobre del 202 a.C. a Naraggara, località presso Zama, i due schieramenti si scontrarono dando vita a un combattimento furibondo. Si incrociavano due tradizioni militari somme e due comandanti coperti di gloria. Risuonarono nella battaglia tutte le lingue del Mediterraneo; ai barriti degli elefanti si mischiavano minacciose le urla di guerra e il clangore degli urti tra spade e scudi sovrastava i lamenti dei feriti. Un lago di sangue bagnava la terra. Alla fine la bilancia, quella ricordata da Annibale stesso il giorno prima nel suo colloquio con Scipione, sancì la sua stessa disfatta. 20.000 morti e altrettanti prigionieri tra i Cartaginesi. Tra i Romani: 1500 caduti. La seconda guerra romano-punica era finita. L’allievo aveva superato il maestro.

    Nelle trattative di pace Scipione si mostrò moderato e assennato³³: non impose al nemico l’autodistruzione né il dissanguamento, contrariamente a quanto era avvenuto dopo il primo conflitto. Fu così equilibrato che lo sconfitto Annibale, quando a Cartagine si discusse se accettare o meno quelle condizioni, ne fu il più fiero sostenitore. Però a Roma, dove un ramo del Senato voleva annientare per sempre il nemico più terribile, moderazione e assennatezza non piacquero per niente. Fu l’inizio di un conflitto che avrebbe cagionato a Scipione più di un dispiacere.

    Comunque, dopo un successo come quello di Zama, un essere umano normale avrebbe gettato la spugna: come un odierno campione dello sport che lascia le competizioni al culmine della gloria, Scipione avrebbe potuto vivere di rendita per il resto dei suoi anni, salutato nel foro e in Senato come quello che aveva sconfitto Annibale; i padri lo avrebbero indicato ai figli affinché ne seguissero l’esempio e le matrone si sarebbero date di gomito l’una con l’altra, al suo passaggio. Però Scipione aveva solo trentatré anni. E quindi, archiviato il gloriosissimo trionfo celebrato a Roma nel 201, continuò la sua carriera politica col soprannome, sudatissimo, di Africanus.

    Censore nel 199, fu designato princeps senatus³⁴ e fu rieletto console nel 194 a.C., quando si era definitivamente aperto il fronte bellico greco ed era ormai prossima la crisi tra Roma e il sovrano seleucide Antioco iii di Siria – una disputa che avrebbe sancito in pochi anni il dominio romano sul Mediterraneo orientale. Scoppiata la guerra, nel 190 a.C., Scipione – che aveva insistito perché il fratello Lucio venisse eletto console – lo accompagnò in Asia, come legato. Ma era lui che comandava, lo sapevano tutti, a Roma come in Grecia.

    Organizzò e diresse il lavoro diplomatico con astuzia e lungimiranza: ristabilendo la pace con il popolo degli Etoli, alleandosi con Filippo v, re di Macedonia, e assicurandosi l’appoggio di Rodi e della sua flotta. Ebbe anche modo di incontrare nuovamente Annibale, esule da Cartagine e consigliere militare di Antioco stesso, in chiave antiromana. La battaglia di Magnesia – in Lidia, l’attuale Turchia – che fu decisiva per le sorti del conflitto tra Romani e Seleucidi, non vide la diretta partecipazione dell’Africano, ma il valore dei suoi sensati consigli è ricordato da Frontino³⁵. La disfatta dell’armata siriana fu totale, enorme – persino esagerato – il numero dei morti. Correva l’anno 189 a.C., le insegne di Roma erano divenute padrone della sponda orientale del Mediterraneo, poco più di dieci anni dopo aver sconfitto Cartagine.

    A un uomo come Publio Cornelio Scipione si doveva, se non altro, rispetto. Eppure non fu così.

    Certamente impauriti dal suo prestigio e dal potere che il suo clan aveva concentrato nelle proprie mani, gli avversari politici guidati da Catone attaccarono, uno dopo l’altro, tutti i membri della prestigiosa famiglia. Il culmine dello scontro si toccò quando fu intentato un processo contro il fratello dell’Africano stesso, l’ex console Lucio (detto Asiaticus, ma senza troppa convinzione, dopo la vittoria di Magnesia), accusato di non aver presentato un rendiconto dettagliato sull’uso di 500 talenti ricevuti dal sovrano seleucide come acconto dell’immenso riscatto impostogli da Roma.

    Fu una scena memorabile: Lucio è in Senato, sta per aprire i suoi libri contabili. Piegatosi alle richieste dei suoi accusatori, sta per leggere tutte le voci di spesa, una dopo l’altra, proprio come un ragioniere maldestro che debba giustificarsi di fronte all’occhiuto capufficio.

    A quella vista l’Africano – il princeps senatus – non regge più. Scatta in piedi, si dirige a lunghi passi verso il fratello e gli strappa di mano i libri. Poi, guardando dritti negli occhi tutti i suoi numerosi avversari, fa a pezzi quelle pagine, riducendole in briciole. «Non siamo gente che ruba», dice, «che vi basti la nostra gloria e l’onore della nostre armi». E se ne va, furibondo.

    È la fine, per il momento, della carriera politica degli Scipioni, che per anni non riusciranno più a eleggere i propri candidati alle principali magistrature. Però è la fine anche per l’Africano che, disgustato, si ritira a vita privata a Literno, la città osca dove s’era fatto costruire una villa.

    Non sarebbe più ritornato a Roma.

    Valerio Massimo, il memorialista del i secolo, ricorda questo episodio come un exemplum di ingratitudine suprema: «Con dei torti i suoi concittadini ne ricompensarono le illustri imprese e lo cacciarono in un oscuro villaggio e in una deserta palude».

    Vero o falso che sia, racconta anche che sul suo sepolcro Scipione volle far incidere una specie di maledizione: «Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes». Insomma, chiosa lo storico, «negò le sue ceneri alla città che aveva evitato fosse ridotta in cenere»³⁶.

    Sic transit gloria mundi, è il caso di ribadirlo.

    19 plinio il vecchio, Storia naturale, Einaudi, Torino 1983-1988, xxix, 57.

    20 aulo gellio, Notti attiche, Rizzoli, Milano 1968, vi, 1, 5, 6.

    21 «Virum esse virtutis divinae creditum est», scrive gellio, ivi, vi, 1, 5.

    22 marco tullio cicerone, De legibus, utet, Torino 1976, iii, 57.

    23 Il Sepolcro degli Scipioni sorgeva sulla Via Appia.

    24 polibio, Storie, Rizzoli, Milano 2001, x, 2, 4-7.

    25 Polibio racconta che quattromila legionari romani furono uccisi dopo la cattura, mentre i soldati italici furono lasciati vivi e liberi: in quel modo Annibale sperava di portare dalla sua parte i popoli e le città che parteggiavano per Roma.

    26«Aveva infatti un naturale talento più che per ogni altra cosa, nell’ispirare coraggio e trasmettere i suoi stessi sentimenti in coloro che ne ascoltavano le esortazioni», polibio, op. cit., x, 2, 14-10.

    27 polibio, ivi, x, 2, 8.

    28 tito livio, op. cit., xxviii, 36.

    29 polibio, op. cit., x, 2, 19.

    30«Tum puero anulum aureum, tunicam lato clavo cum hispano sagulo et aurea fibula equumque ornatum donat, iussisque prosequi quoad vellet equitibus, dimisit», tito livio, op. cit., xxvii, 19.

    31 polibio, op. cit., xiv, 2, 9.

    32 polibio, ivi, xv, 2, 6-8.

    33 polibio, ivi, xv, 2, 18-19.

    34 Titolo attribuito al senatore più importante, che aveva diritto a votare per primo.

    35 «P. Scipio in Lydia, cum die ac nocte imbre continuo vexatum exercitum Antiochi videret nec homines tantum aut equos deficere, verum arcus quoque madentibus nervis inhabiles factos, exhortatus est fratrem, ut postero quamvis religioso die committeret proelium: quam sententiam secuta victoria est», frontino, Strategemata, 4.

    36 valerio massimo, Fatti e detti memorabili, utet, Torino 1971, v, 3.

    Marco Tullio Cicerone, l’avvocato di genio

    Di chi sono quelle mani appese ai rostri?

    Santi numi! Ma quello non è Cicerone?

    No, cari miei, non più. Quella è soltanto la sua testa…

    Filosofo cosmopolita, retore raffinatissimo, avvocato astuto, politico ambizioso: tutto questo fu Marco Tullio Cicerone, in sommo grado il più luminoso, versatile e fertile intellettuale romano dell’ultima età repubblicana, i cui caratteri pubblici e atteggiamenti intimi – tutti parimenti contraddittori – incarnò fino al sacrificio di se stesso.

    Veniva da Arpino, cittadina fondata dai Volsci e poi assimilata a Roma, che aveva già dato i natali al grande generale Gaio Mario nel 157 a.C.; mezzo secolo dopo, in pieno inverno, Cicerone vi vide la luce, il 3 gennaio del 106.

    La sua era una famiglia molto benestante, di rango equestre, parte di quella piccola nobiltà provinciale che, seppur agiata, poco aveva a che vedere con la storia e i costumi delle grandi famiglie dell’Urbe. Un ambiente, il suo, al quale allude Cicerone stesso in molte occasioni, ma mai con la nostalgia rivelata nel proemio del ii libro del De Legibus³⁷, quando – nel corso di un dialogo con l’amico e alter ego Attico – loda la serenità delle sponde del fiume Fibreno, quelle della sua infanzia.

    «Questa è la patria comune mia e di mio fratello», spiega Cicerone, «traiamo di qui origine da un’antichissima stirpe, qui sono molti resti dei nostri antenati, da qui le tradizioni religiose di famiglia […] Vedi questa villa, che mio padre – sempre malfermo di salute – ingrandì per dedicarsi alle sue occupazioni letterarie? Ecco, quand’era ancora vivo mio nonno e la casa era ancora piccola come si usava tra gli antichi, qui io nacqui […]».

    Possiamo davvero immaginarlo, il cittadino Cicerone, mentre spiega al suo amico le proprie origini, passeggia lungo le sponde del fiume e mostra l’antica casa di Ponte Olmo, ne indica una dopo l’altra le pietre consunte che riallacciano, nel ritratto morale che egli stesso si cuce addosso, l’onore che pure s’era conquistato nella vita. Sì, perché la vita di Cicerone fu esemplare, così come nella sua sintesi narrativa, pur intrisa di autocompiacimento, ogni elemento va al giusto posto nel ricostruire un puzzle di qualità interiori ed esteriori che definiscono compiutamente il profilo di un autentico civis romanus.

    Il suo cognomen, Cicero, proveniva da un antenato sul cui naso era cresciuta una protuberanza molto evidente, a forma di cece³⁸, tratto caratteristico che gli valse lo spiritoso soprannome; ma tale piccolo difetto non impedì al progenitore di Marco Tullio di ben figurare in società. Da qui la scelta, mai abbandonata dai discendenti, di perpetuarne il nome, fino al nostro filosofo e avvocato, che – quando si candidò alla sua prima carica politica, a Roma – affrontò l’opinione contraria di molti suoi amici, gente certo educata ma forse non altrettanto spiritosa, e non lo cambiò con un altro che apparisse meno pedestre³⁹.

    Marco Tullio ricevette un’educazione di prim’ordine, in greco e in latino; eccelleva tra i suoi coetanei a tal punto che – quando ancora giovinetto andava a scuola – i genitori dei suoi compagni, curiosi della sua già cospicua fama, si

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